sabato 5 marzo 2011

Mafalda di Savoia e Philipp von Hessen


Ciò che segue riguarda la vicenda di Mafalda di Savoia e di suo marito Philipp von Hessen in relazione al loro coinvolgimento con il nazismo. Ho attinto le notizie da numerosi fonti, ma prevalentemente dall’opera di Jonathan Petropoulos, Royals and the Reich, Oxford University Press 2006; si tratta delle più completa biografia relativa a Philipp von Hessen e a suo fratello Christoph, basata su documenti d’archivio. 

Ho consultato anche la tesi di laurea di Jobst Knigge, Prinz Philipp von Hessen Hitlers Sonderbotschafter für Italien, Humboldt Universität, Berlin 2009, lavoro che utilizza ampiamente il libro di Jonathan Petropoulos, e però anche numerose altre fonti. Sulle vicende dell’Assia-Nassau durante il nazismo e sul programma T4 posto in essere ad Hadamar, l’opera migliore (imponente) è quella di Peter Sandner, Verwaltung des Krankenmordes. Der Bezirksverband Nassau im Nationalsozialismus, Gießen, Psychosozial-Verlag 2003. Utile anche il libro di Henry Friedland, Alle origini del genocidio nazista, Editori Riuniti 1997.
Si tratta di fonti sconsigliate soprattutto alla cerchia di “esperti” produttori di agiografie televisive sull’argomento. «Questa cattiva memoria l’abbiamo alimentata – scrive Alessandro Portelli in L’ordine è già stato eseguito, pp. 437-38 – accettandone le categorie: la “buona fede” (più pericolosa dell’ipocrisia perché non ha incrinature), la pari dignità di tutti i morti […], la confusione fra oggettività ed equidistanza».

Nel lumeggiare alcuni tratti della complessa vicenda di Mafalda e di suo marito ho ridotto al massimo, per non appesantire la lettura, le note poste nel testo tra parentesi quadre e altri riferimenti bibliografici. Per la stessa ragione di sintesi non ho dato alcuno spazio alle notizie sulle inclinazioni sessuali dei protagonisti, come per esempio la relazione di Philipp con il poeta inglese Siegfried Sassoon, né sul ruolo svolto dello stesso Principe come procacciatore di opere d’arte per conto di Hitler per il progettato museo d’arte di Linz. Per quanto riguarda Mafalda, ho evitato di ripetere, se non necessarie al racconto, cose molto note.

Non ho ancora potuto consultare gli Atti del convegno: La vicenda storica di Mafalda di Savoia, tenutosi a Genova nel 1994 e pubblicati nel 1996. 

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Philipp von Hessen-Kassel nacque il 6 novembre 1896 con il fratello gemello Moritz Wolfgang nel castello di Rumpenheim (oggi città di Offenbach am Main), discendente dall’omonima dinastia principesca. Erano pronipoti della regina Vittoria e la loro madre era sorella di Guglielmo II, perciò vissero nella ricchezza e nel privilegio, prima della guerra mondiale, in palazzi e castelli protetti da un ampio clan familiare che aveva ramificazioni in quasi ogni dinastia monarchica europea.
Philipp e Moritz avevano altri fratelli, tra i quali Christoph. Philipp studiò due anni in una scuola privata inglese, poi fu volontario nella prima guerra mondiale come addetto ai rifornimenti. In una sua lettera dal fronte orientale scrisse: “da qui non vi è nulla di interessante da riferire”. In seguito studiò storia dell’arte e architettura, ma senza concludere gli studi. Lavorò per un anno presso il Kaiser Friedrich Museum di Berlino ad un catalogo di arte grafica, ma senza portare a termine il lavoro (Petropoulos, p. 62). Nel 1923 fu a Roma, dove si cimenta come interior designer e usa come entrature i suoi legami familiari. In uno dei salotti romani incontra la principessa Mafalda, secondogenita del re Vittorio Emanuele III e della regina Elena.
Nel 1925 l’evangelico-luterano Philipp sposa la cattolica Mafalda (n. 1902), presenti tutti coloro che contano, compreso Mussolini. Sarà questa la prima occasione d'incontro di una lunga serie tra i due uomini. Attraverso il matrimonio la posizione sociale del principe in Italia migliora in modo significativo. La coppia si trasferì a Villa Polissena, nelle adiacenze di Villa Savoia, dimora privata dei sovrani. Entrambe le proprietà sono integrate nel vasto parco di Villa Ada. La coppia avrà quattro figli: Maurizio, Enrico, Ottone ed Elisabetta. Philipp e Mafalda vivranno fino al 1933 per lo più a Roma e successivamente, per lunghi periodi, a Kassel, quando Philipp sarà nominato Oberpräsident dell’Assia-Nassau.
A conferirgli l’incarico è il cancelliere del Reich Adolf Hitler, il quale approfitta della posizione del Principe per farne uno strumento della sua politica verso Mussolini e l’Italia.
[In un primo momento tali rapporti tra Hitler e l'Italia furono mediati da Giuseppe Renzetti, un amico di Hitler, come ebbe a definirlo Renzo De Felice. In realtà Renzetti funse soprattutto da longa manus del duce, inizialmente non sempre “amica” di Hitler. Egli svolse un ruolo in definitiva marginale nei rapporti italo-tedeschi, ovvero tra PNF e NSDAP, lumeggiati da R. De Felice, specie nel vol. Mussolini il Duce - Gli anni del consenso, 1929-1936, Einaudi, 1974, (in part. pp. 431-36). Il profilo biografico più esteso e completo su Renzetti si può leggere in: Federico Scarano, Mussolini e la Repubblica di Weimar, Giannini Editore, 1996].
Philipp venne così a far parte della cerchia interna del Führer, ma sicuramente egli non ne fu uno strumento involontario. Già nel 1924 il Principe entrava in stretta relazione con Hermann Göring che, dopo il fallito putsch di Monaco dell’anno prima, fuggirà in Italia dove rimane per dieci mesi cercando contatti con Mussolini e ottenere finanziamenti a favore del NSDAP, tuttavia le entrature di Philipp non erano allora ancora così buone e il tentativo d'approccio fallì anche per altri motivi.
Dopo la grande vittoria elettorale del 14 settembre 1930, con la quale il NSDAP diventava il secondo partito al Reichstag, Göring presenta il Principe a Hitler, a Berlino. Due settimane dopo, il primo ottobre, Philipp diventa membro del partito nazista (tessera 418.991), fa parte delle SA dal 1931 e veste l’uniforme marrone (dal 1933 SA-Gruppenführer, dal nov. 1938 SA-Obergruppenführer – il più alto grado – e il 30 gennaio 1939 medaglia d'oro del Partito).
La signora Maria Gabriella di Savoia, in un’intervista rilasciata a Barbara Palombelli, pubblicata il 25 novembre 2006 sul Corriere della Sera, così ricorda: «Zio Filippo, ufficiale dell’esercito prussiano, in principio aveva creduto in Hitler ed era entrato nelle SS. Come tanti, in Germania, dopo l'umiliazione della Prima guerra mondiale, cercavano una riscossa [...] La stessa cosa avveniva in Italia, con Mussolini». Ricordi bonari, imprecisi e sbiaditi, evidentemente.
L'iscrizione al partito nazista di Philipp non aveva nulla di sensazionale, poiché più di un quarto dei rappresentanti della vecchia nobiltà aderirono al nazismo prima del 1933. I nazisti cercarono e ottennero facilmente negli anni della loro ascesa adesioni da parte dei membri della vecchia élite aristocratica che avevano visto ridursi il loro status e svanire in molti casi la loro ricchezza. 
Quale fu quindi il vero coinvolgimento di Philipp von Hessen e di Mafalda di Savoia nella vicenda nazista?

Specie in Italia, per intuibili motivi, sulla vicenda di Mafalda e, di riflesso, su quella del marito, aleggiano leggende, omissioni, censure o quantomeno cautele assolutamente eccessive. Per esempio nella biografia di Renato Barneschi, Frau von Weber, dedicata a Mafalda, l’autore evita accuratamente di chiedersi perché il marito di lei, l’ex governatore dell’Assia-Nassau, fosse stato “trattenuto” per anni dagli americani data la sua asserita “opposizione” a Hitler.

Evidentemente c’era dell’altro oltre a quello che Philipp dice nella sua intervista a Barneschi, ove sostiene che fu prigioniero degli Alleati a causa «esclusivamente di un lapsus compiuto da Galeazzo Ciano al momento di registrare nel suo diario un nostro incontro del marzo 1939. Da lui classificato come verbale, il messaggio scritto da Hitler che in quella circostanza avevo avuto l’incarico di consegnare a Mussolini indusse le autorità Alleate ad attribuirmi il ruolo e le responsabilità di un negoziatore, né l’uno né le altre mai spettatemi» (p. 138). Excusatio non petita, accusatio manifesta.

È difficile credere che gli Alleati basassero le loro accuse su una semplice nota diaristica di un gerarca fascista. A tale propositoWinston Churchill (The Second World War, Mariner books, 1986, p. 241) nel riportare il testo di una conversazione telefonica tra Hitler e Philipp von Hessen relativa alla questione austriaca, sostiene che il principe “his special envoy to the Duce”.

Göring, per canzonarlo, dato il suo libero accesso al dittatore, definiva Filippo “troppo hitleriano”. Nella stessa intervista di Filippo a Barneschi, riferendosi al 1943, soggiunge: “Hitler, che soffriva d’insonnia, mi mandava spesso a chiamare […] perché gli tenessi compagnia fin verso le sei del mattino” (p. 136); anche Petropoulos, p. 291.


Alla fine del secondo conflitto mondiale gli Alleati classificarono i responsabili e i criminali del nazismo in quattro categorie. Alla prima categoria furono assegnati i leader di primissimo piano: Hess, Göring, Himmler, Ribbentropp, Speer e altre star del regime. Alla seconda categoria personaggi che avevano svolto importanti ruoli, spesso nella stretta cerchia del dittatore, ma i cui nomi erano meno noti al grande pubblico. Alla terza categoria appartenevano i criminali minori (si fa per dire) e alla quarta i sostenitori. Da principio Philipp von Hessen fu assegnato alla seconda categoria di criminali nazisti. Era accusato, tra l’altro, di essere stato emissario di Hitler presso Mussolini soprattutto riguardo l’annessione dell’Austria.

Albert Speer scrisse nel suo Memorie: «Filippo era un seguace di Hitler, e questi lo aveva sempre trattato con rispetto e ossequio; nei primi anni del Reich, in particolare, aveva fatto da intermediario con i capi del fascismo in Italia» (trad. it. Mondadori, p. 403). Philipp ebbe un ruolo unico in qualità di intermediario tra Hitler e Mussolini, tra la Germania e l'Italia negli anni 1933-1941, proprio in forza della sua posizione e del suo pedigree.

Senza prospettive di lavoro e di carriera Philipp aveva approfittato del suo titolo nobiliare sposando una delle figlie della famiglia reale italiana, e con i suoi servizi per il partito nazional-socialista fu poi in grado di rafforzare la propria posizione sociale ed estendere i suoi privilegi. In tal caso non si trattò solo di opportunismo e ambizione, ma anche di piena adesione al nazismo. Era un ammiratore del fascismo, poi divenne un nazista della prima ora, e tale rimase fino almeno al 1943 (e anche dopo, come sospettò un altro gerarca suo compagno di prigionia), come del resto suo fratello Christoph (qui nella foto) che fu capo della ricerca dell’ufficio del Ministero dell’Aviazione del Reich, capo del servizio di intelligence di Goering, nonché stretto collaboratore di Heinrich Himmler e alto ufficiale delle Ss. Nel 1930 sposò la principessa Sofia di Grecia e Danimarca, sorella del principe Philip, Duca di Edimburgo e marito di Elisabetta II.

[Il 7 ottobre 1943 il principe Christoph morì in un incidente aereo nei pressi di Forlì, viaggiava a bordo di un bimotore Siebel 204Alle 17:30 l'aereo si schiantò su una montagna a 1.000 metri di altezza, vicino a Monte Collino, nell'Appennino. Il suo corpo è stato rinvenuto due giorni dopo. L’incidente suscitò sospetto, ma le cause restano oscure (Petropoulos, p. 308-09)].


Nel processo in cui Philipp von Hessen fu imputato, il pubblico ministero, Robert Kempner, osserverà: «Un pronipote della regina Vittoria non è un postino, un nipote di Guglielmo II non è postino». Philipp, per unanime riconoscimento, era un tipo fine, ma non dimostrava un’intelligenza, un’eloquenza e un’abilità diplomatica tali da poter influenzare in qualsiasi modo i rapporti tra i due dittatori, ammesso che ciò fosse possibile. Tuttavia sicuramente li facilitò, e anche se rimase una figura periferica dell’alta politica, ebbe un ruolo importante nella vicenda dell’Anschluss dell’Austria, anche se poi, quando la minaccia della guerra divenne evidente, fu sostenitore della negoziazione e della diplomazia.

Philipp, in qualità di presidente dell’Assia-Nassau, ha firmato diversi rapporti indirizzati al ministero degli Interni dal quale gerarchicamente dipendeva. In essi prendeva posizioni chiaramente antisemite, in particolare protestò contro l'influenza degli ebrei nel commercio di bestiame e s'impegnò a porvi rimedio con “un lavoro diligente”.

Un altro episodio di antisemitismo del quale è rimasta traccia risale al 1938. Con l'Anschluss 25.000 ebrei viennesi erano fuggiti oltre confine. Nella circostanza Philipp avrebbe detto a Göring: “Potremmo lasciare la frontiera aperta […] Si potrebbe sbarazzarsi di tutta la feccia del genere”.

[«Philipp, in his capacity as president, signed reports to the reich minister of the interior in 1934 where he remonstrated against the influence of Jews in cattle trading and committed himself to remedy the situation with "diligent work". This report, with its age-old myth about Jews and cattle-trading, was likely written by a subordinate and simply signed by the prince, but Philipp still associated himself with such anti-Semitic views. In a similar report from 1935, he noted "the general charge about the marked assertiveness of Jews in society"; here, he couched his phrasing in a formulation that attributed the sentiment to others. The most explicitly anti-Semitic stantement attributed to Philipp came in 1938: in connection with the Anschluss and a report that, twenty-five thousand Viennese Jews had escaped across the border, Philipp reportedly said to Goring, "We could leave the border open ... We could get rid of the entire scum like that"» (Petropoulos, p. 114)].

Tuttavia, per quanto riguarda la persecuzione ebraica, Philipp si impegnò a favore di qualche amico ebreo, ma è altrettanto vero che la comunità ebraica dell’Assia-Nassau, sotto il suo governo, fu sterminata. 

L’altra accusa, non meno grave, che gli fu contestata, riguarda la sua responsabilità nel piano per l’uccisione dei malati di mente ad Hadamar (Coblenza), città dell’Assia-Nassau governata da Philipp. Il sanatorio di Hadamar faceva parte della rete di centri per lo sterminio degli “indegni di vivere” utilizzati nel cosiddetto programma T-4: l’ordine venne da Hitler nel mese di ottobre 1939, retrodatato al primo settembre per coincidere con l'inizio della guerra. Aveva lo scopo di eliminare le persone portatrici di handicap.

Tale operazione fu predisposta congiuntamente dalla Cancelleria del Führer (si trovava sulla Tiergartenstrasse 4, a Berlino, e da ciò deriva la denominazione T-4, che è però successiva al 1945) e il ministero degli Interni del Reich [Reichsausschuß zur wissenschaftlichen Erfassung von erb-und anlagebedingten schweren Leiden: Comitato per la registrazione scientifica di gravi disturbi cerebrali, abbr. in Comitato del Reich, cfr. Friedlander, pp. 62 e sgg..].

I burocrati che gestivano il programma da Berlino finanziavano gli stipendi degli esecutori, cioè di medici e ausiliari, provvedevano alle ordinazioni del veleno, sbrigavano le pratiche di routine relative al personale e sovrintendevano a una serie di attività collegate. Più di settantamila persone furono uccise, e molti degli assassini in seguito ebbero un ruolo di primo piano nella eliminazione di ebrei e altre vittime nell’Est Europa.

Le uccisioni di massa secondo il programma T-4 iniziarono nel Centro Provinciale di Hadmar nel 1940, e a tale scopo risulta un contratto firmato dal presidente Philipp von Hessen per il collocamento del sanatorio a disposizione e sotto il controllo del ministero dell'Interno del Reich. Nelle parole degli investigatori americani risulta che «dopo aver agevolato l'uso di questo sanatorio, furono sterminati circa 10.000 malati mentali».

Il programma T-4 è stato presumibilmente fermato nell'agosto 1941: la notizia degli omicidi di massa che avvenivano all’interno dei centri era trapelata al pubblico tedesco, un vescovo denunciava questi fatti nei suoi sermoni e pare che una sua lettera a Hitler fosse stata riprodotta in volantini lanciati sulla Germania da aerei inglesi. La pressione dell’opinione pubblica consigliò Hitler di ordinare la cessazione delle uccisioni. Tuttavia gli omicidi sono continuati e «almeno 3.000-3.500 ulteriori pazienti sono stati uccisi a Hadamar dopo che  il T-4 programma si è ufficialmente concluso».

Nel 1946, Philipp fu accusato di omicidio presso il tribunale di Francoforte in relazione al suo ruolo nella vicenda di Hadamar e del programma di sterminio T-4. Sia le autorità tedesche che americane gli posero delle domande in relazione al famigerato contratto e gli chiesero fosse stato effettivamente d’accordo con il programma oppure se prese delle misure per farlo cessare, come fecero altri tedeschi.

Le risposte – sostiene Petropoulos – forniscono un resoconto sconcertante di come un ufficiale può essere cooptato, di come la mancanza di “curiosità” può portare ad un coinvolgimento personale, e di come egli consideri l’eventuale protesta contro gli omicidi di massa sostanzialmente inutile. La giustificazione adotta da Philipp, ossia di aver firmato come governatore dell’Assia-Nassau dei documenti in modo troppo superficiale e acritico, è risibileEgli sapeva benissimo, per esempio, del programma di sterilizzazione forzata, che risaliva al luglio 1933, e al quale furono sottoposti oltre trecentomila tedeschi. Ne era al corrente a tal punto che come Oberpräsident, nel luglio 1935, emise un'ordinanza che mirava a soffocare le critiche provenienti del clero contro tale legge.

[«Prince  Philipp had many opportunities to ascertain the danger faced by the mentally and physically handicapped in Germany, even prior to his signing the transfer of Hadamar on 15 february 1941. Philipp himself maintained that he was in Italy at this time, purchasing paintings for Hitler, and that in carryng out his responsabilities as an administrator in Hessen, he signed papers in far too perfunctory and uncritical a manner. Yet the signs were there. He would have known, for example, about the regime's program of forced sterilization, which dated back to the july 1933 Law for the Proctetion of Hereditary Health and resulted in involuntary procedures on over three hundred thousand Germans. Indeed, Philipp as Oberprasident issued an order in july 1935 that aimed to stifle criticism of clergy who were speaking out against the sterilization law » (Petropoulos, p. 249)]. 

In seguito tali accuse furono lasciate cadere dalle autorità (sono stati graziati nel 1950 anche dei responsabili diretti del T4). Tra tutte riporto la seguente testimonianza riportata a p. 417 del lavoro di Peter Sandner:

«Spätestens als sich dann im Laufe des Jahres 1941 in der Bevölkerung die Gerüchte über die Hadamarer Morde ausbreiteten, konnten diese auch dem Oberpräsidenten Philipp von Hessen nicht mehr verborgen bleiben; anscheinend hatte sich auch der Betheler Anstaltsleiter Friedrich von Bodelschwingh  wegen der Krankentötungen Hilfe suchend an Philipp von Hessen gewandt. Aufsehen erregen sollte später Philipp von Hessens Erklärung im Nürnberger Prozess, er habe “sowohl vom Euthanasie-Programm als auch von den Juden-Deportationen, vor allem aus Frankfurt, volle Kenntnis” gehabt, ein Bekenntnis, das “im Gegensatz zu der Aussage der meisten Nürnberger Angeklagten” stand».

Scrive a sua volta Jonathan Petropoulos: «“The Greater Hessian Minister of Justice accused Philipp of having “played a decisive role in the killing of mentally ill in the healing and care facility of Hadamar … It must be accepted from the results of the investigation to date, that the former  Oberprasident was informed about the purpose of the undertaking”. The most plausible assessement regarding Philipp's role in the T-4 program, one that bridges the gap between the Hessen Minister of Justice's charges and Philipp's defense, posits that the prince should have known in February 1941 that handing over Hadamar to the Reich Ministry of Interior would usher in a program of systematic murder in his province; that he was subsequently compelled to voice opposition to the program; but that he was not sufficiently courageouse to go public with his views or take some other consequential step. Philipp, like so many others, showed a lack of "civic courage"» (p. 254).

Bisogna sempre tener presente che Philipp non era un comune cittadino, aveva verso la sua comunità delle precise responsabilità. Ma qui non si tratta di stabilire, sul piano giuridico, se l’eventuale collaborazione di Philipp von Hessen al programma T4 fosse attiva oppure se egli avesse mantenuto un atteggiamento di indifferenza e non ingerenza. Dal punto di vista storico i fatti sono eloquenti: non solo sapeva come molti comuni cittadini delle attività di sterminio nel sanatorio di Hadmar, ma come presidente dell’Assia-Nassau non fece nulla per impedirlo (o per fermare la sterilizzazione di massa), intervenendo, semmai, a cose fatte. E tanto basta.

[«When the threat of war became apparent, he advocated negotation and diplomacy. And yet, Philipp failed in so  many ways: the province that he helped govern, Hesse-Nassau, saw its Jewish community persecuted and then decimated; he himself played an instrumental role in the forcipe takeover of Austria and the creations of the Axis alliance; and he did not openly protest the murder of thousands of disabled individuals at the Hadamar sanitarium. Up until the time of his imprisonment in 1943, Philipp remained devoted to Hitler – a sign of his naiveté but also an indication of more problematic views» (Ibidem, p. 377)].


La vulgata descrive Mafalda di Savoia, moglie del principe Philipp von Hessen, come un'internata in un campo di concentramento tedesco dopo l’8 settembre 1943 e lì deceduta dopo atroci sofferenze. Si tratta sostanzialmente della verità, ma raccontata in modo così asettico e distorsivo della realtà storica da indurre il pubblico, inconsapevole di altre circostanze, a considerare la figura di Mafalda alla stregua di una vittima e a farne una martire.

[Da un sito monarchico: «Si sposò a Racconigi il 23 settembre 1925 con il nobile prussiano, Landgrave Philipp von Hesse. Con un tranello Hitler riuscì ad arrestarla, e fu deportata al lager di Buchenwald, dove venne rinchiusa nella baracca n. 15 sotto falso nome (frau von Weber). Durante la permanenza nel lager ebbe parole di conforto per tutti e spesso regalava il suo misero pasto ad altri internati più bisognosi di lei. Spirò il 27 agosto 1944, dopo inaudite sofferenze. Le ultime parole della Principessa, prima di andare in coma, furono: Italiani io muoio, ricordatemi non come una principessa ma come una sorella italiana»].

Mafalda fu cittadina e principessa tedesca, moglie di un notabile di alto rango della nomenclatura nazista. Questi fatti non sono mero dettaglio, bensì cornice essenziale in cui inquadrare la vicenda della principessa "vittima e martire".

I coniugi Philipp e Mafalda, come dichiarerà dopo la guerra il generale Karl Wolf, capo delle Waffen-SS durante l’occupazione in Italia, “sono stati spesso ai grandi raduni e dimostrazioni di partito, e venivano loro assegnati i posti corrispondenti al loro rango, e quindi erano stati visti in tutto il mondo”. Pertanto la loro partecipazione sia mondana che protocollare a eventi e incontri con il gotha del regime non mancò di certo, e questo permetteva loro di conoscere con certezza cose che il grande pubblico, almeno fino a quel momento, ignorava o al massimo poteva solo sospettare.

Per esempio, la coppia fu amica, in senso piuttosto stretto, di Hermann Göring (al quale fu conferito dal re il collare dell’Annunziata) e mantenne non occasionali rapporti con l’élite nazista. Con Göring e sua moglie trascorsero le vacanze a Capri nel 1937. Nella sua visita italiana Hitler era stato ospite della coppia nella loro residenza romana di Villa Polissena e l’anno dopo fece visita a Philipp e Mafalda nella loro casa di Kassel.

[Capri e il suo mondo di cene, feste e soirées in cui trionfavano Edda Ciano (che trascorreva le notti ballando e giocando a carte), Barbara Hutton, Roberto Farinacci (il gerarca più filonazista, sfrenato del jazz), Mafalda di Savoia e molte altre celebrità dell'epoca. Senza però dimenticare un’altra Capri, forse più intellettuale o soltanto più intellettualistica: quella della confraternita gay. L’isola all'epoca era considerata «la capitale indiscussa dell’omosessualità mondiale»: cfr. Marcella Leone De Andreis, Capri 1939, Edizioni In-Edit-A, Roma 2002. Anche Mafalda amava il jazz e prendeva, a Capri, lezioni di chitarra (Adriano Mazzoletti, Il jazz in Italia, EDT, 2004, p. 229). Axel Munte, il medico svedese famoso per la sua Storia di san Michele (Garzanti), dedica nel 1932 il suo libro proprio a “S.A.R. la principessa Mafalda di Savoia principessa d’Assia”, conosciuta a Capri. Il libro, di grande successo, è piuttosto mediocre. Del resto, lo stesso autore disse a Montanelli “di non capire perché piacesse tanto alla gente”. Nel 1974, in un articolo su La Stampa, Montanelli sostenne che il libro di Munte era uno di quelli che, una volta letti, è da mettere in un cassetto, buttando poi via la chiave (Raffaele Vacca, Note su Capri, Guida editore, 2004, p. 77)].


Mafalda era membro effettivo dell’organizzazione NS-Frauenschaft, alla quale versava regolarmente cinque marchi mensili d’iscrizione, partecipando, anche se non regolarmente, a eventi e feste dell’organizzazione.

[«It is also significant that Princess Mafalda was persuaded to become a member of the Nazi women's organization, the NS-Frauenschaft. She paid dues of RM 5 per month and grave the impression that she was party member: her segretary, when questioned after the war, even belived that she had joined the party. Mafalda would attend party events for women, and although she did not partecipate very frequently, she nevertheless communicated her support for Hitler and the Nazi movement. Their two eldest sons were in the Jungvolk and other party youth organizations, as this was obligatory at their school» (Petropoulos, cit., p. 102)].

Del resto, come moglie di un gerarca nazista della cerchia di Hitler e come cittadina tedesca non poteva ignorare ciò che avveniva in Germania in quell’epoca. Per esempio che un membro della stessa famiglia di suo marito era stato sottoposto a sterilizzazione forzata (Alexis von Hessen di Philippsthal-Barchfeld), provvedimento legale e pratica ben diffusa. Se il padre di Mafalda nel 1938 firmava e promulgava le leggi razziali in Italia, tale legislazione e la persecuzione razziale in Germania erano fatto quotidiano da anni.

Veniamo al fatidico 1943. Il 31 agosto Mafalda è in Bulgaria, accanto a Giovanna ed ai nipotini Simeone e Maria Luisa per i funerali del cognato celebrati a Sofia (presenti Ribbentropp, Kappler e altri gerarchi nazisti). Mafalda prende il treno del rientro il giorno 7 settembre, cioè due giorni dopo i funerali e quando a Roma, da tempo, è noto che gli Alleati hanno fatto sapere che dal giorno 7 settembre ogni giorno è buono per l’annuncio dell’armistizio.

[Vi furono ben 14 tentativi di raggiungere un accordo di resa tra l'Italia e gli Alleati, iniziati già nell'ottobre 1942. Cinque di questi furono effettuati, appunto, ancora vigente il fascismo, quattro dei quali autorizzati dallo stesso Mussolini.

Secondo gli accordi verbali presi dal gen. Castellano a Cassibile, il segnale stabilito da Eisenhower per avvertire del giorno in cui avrebbe annunciato l’armistizio, sarebbe stato quello di un concerto di musiche verdiane seguito da una conferenza sul Sud America, mandati in onda dalla BBC la mattina del D-day. L’8 settembre mattina, concerto e conferenza furono regolarmente trasmessi, e tuttavia si vuole far credere che a Roma nessuno fosse in ascolto.

Alle 16 dell’8 settembre arriva la risposta di Eisenhower: «Non muterò una virgola del programma stabilito. Se gl’italiani vogliono tirarsi indietro, subiranno una durissima rappresaglia». Ci vuole un’ora e mezza per decifrare il messaggio, che viene portato a Badoglio alle 17,30, esattamente nell’istante in cui le telescriventi di tutto il mondo battono il primo flash della Reuter con la notizia della resa italiana.

L’ambasciatore tedesco a Roma, Rudolf Rahn, che nella mattina dell'8 era stato ricevuto dal Re e si era sentito ribadire “l’assoluta lealtà italiana all’Asse”, alla notizia dell'armistizio (o, meglio, della resa dell'Italia) si precipita dal ministro degli Esteri, Guariglia, che, allargando le braccia, gli conferma l’esattezza della notizia della Reuter. Al rappresentante del Führer a Roma non resta che telegrafare a Berlino: “Ci hanno traditi”. Difficile districarsi in questo doppiogiochismo]. 

Alle tre del mattino del 9 settembre, mentre il convoglio attraversa la Romania, una fermata fuori programma sveglia Mafalda alla stazione di Sinaja. Sale sul treno le Regina madre di Romania, zia di Filippo, che si premura di avvertirla della notizia dell’armistizio italiano.

Il primo approdo utile è l’Ambasciata italiana di Budapest. Lasciato il treno, la soluzione migliore pare essere quella di far giungere un aereo dall’Italia. Nonostante la fuga dei monarchi, del governo e la diserzione dei capi delle forze armate, dello sbandamento dell’esercito, a Roma, al Quirinale, c’è ancora qualcuno che può far muovere per l’Europa occupata un aereo in soccorso della Principessa. Naturalmente, non è una cosa facile, e l’aereo è dato disponibile solo due giorni dopo, l’11 settembre. Si dice che a causa di un guasto non riparato alla radio e con carburante appena sufficiente potesse raggiungere solo Pescara. A Budapest Mafalda aveva ricevuto una comunicazione dal marito in cui le chiedeva di raggiungerlo in Germania con i figli. Gli risponde che farà il possibile.

Quella stessa mattina il Re e Badoglio lasciano Roma alle 5,10. All’alba del 9 settembre le diciotto strade che si diramano dalla capitale erano presidiate dalla Wehrmacht, tranne la Tiburtina-Valeria. Secondo la concorde testimonianza di Badoglio, Ambrosio e Roatta, l'arteria fu trovata libera da truppe germaniche. 

Il nobile corteo è composto da 57 persone, compresa la “sora Rosa”, guardarobiera della regina. Arrivati nei pressi di Pescara i reali trovano ristoro e fanno visite di cortesia in attesa che arrivi la corvetta Baionetta, la quale sosta al largo e viene raggiunta dal re e dal suo seguito il giorno dopo da Ortona a bordo di due pescherecci. Il re cerca Badoglio, ma questi è già precedentemente salito sul Baionetta partendo da Pescara.

Sui moli di Pescara e poi di Ortona ci sono più 200 tra generali, ufficiali e servitorame vario che litigano per un posto a bordo. La destinazione, com’è noto, sarà Brindisi. La nave italiana sarà intercettata da un aero ricognitore tedesco che la sorvolerà per circa 20 minuti.

Alle 3,30 dello stesso 9 settembre la V armata americana, al comando del generale Mark  Wayne Clark, sbarca nei pressi di Salerno incontrando la blanda reazione dei tedeschi. Una divisione britannica sbarca a sera a Taranto (operazione Slapstik). La flotta italiana partita da La Spezia e da Genova si dirige a Malta: decine di navi da guerra, tra cui 5 corazzate, 7 incrociatori, 25 cacciatorpediniere, 23 sommergibili. In seguito, il mancato sbarco a nord di Roma, ovvero il mancato aviolancio alleato, rifiutato da Badoglio, nei pressi della capitale, nonché l’ordine dato dal gen. Roatta di spostare il corpo motocorazzato italiano in direzione di Tivoli e l’abbandono delle truppe italiane a se stesse, favorirono la risposta decisa di Kesselring sul fronte di Salerno e segnarono una battuta d’arresto formidabile per gli Alleati.

A due passi dalla capitale, a Frascati, c’è il quartier generale del feldmaresciallo Kesselring, comandante del gruppo di armate tedesche nell’Italia centromeridionale. Il giorno 8, Frascati è stata bombardata dagli alleati, illeso è rimasto il Q.G. tedesco, centinaia di morti tra i civili. È il segnale concordato che precede la divulgazione, da parte americana, della notizia dell'avvenuta firma della resa italiana di Cassibile.

Ad ogni modo è proprio Kesselring a prendersela comoda, rinviando l'ultimatum posto a chi, rimasto a Roma, sta opponendo resistenza alle truppe tedesche. L'ultimatum scadeva alle ore 10 del 10 settembre, ma fu lo stesso feldmaresciallo a rinviarne l'esecuzione in attesa della firma della resa che avvenne solo alle 16.30, dopo che il Baionetta era entrato nel porto di Brindisi. 

Quello del re e di Badoglio è stato solo un passaggio di consegne con l’ex alleato in cambio della resa di Roma e delle truppe italiane, ma soprattutto della consegna di Mussolini. Infatti, anche se le cose andarono un po’ diversamente per quanto riguarda la progettata destinazione dei fuggiaschi (Sardegna), nulla è più inverosimile che con un’Italia centrale occupata da diverse divisioni tedesche, una lunga carovana di cortigiani raggiungesse illesa Pescara e poi Brindisi, percorrendo in quei fatidici giorni centinaia di chilometri via terra e via mare senza che i tedeschi s'avvedessero di nulla.

Sul fatto che già fin dal 1942 si mormorasse di una caduta di Mussolini e della instaurazione di una dittatura con a capo Badoglio, cfr. Gianni Orecchioni, I sassi e le ombre: storie di internamento e di confino nell'Italia fascista, Ediz. di Storia e Letteratura, Roma, 2006, p. 139. La stessa vecchia guardia del partito fascista pensava di rifarsi un’immagine e di rilanciare il partito con la destituzione del duce. Per questo, già a partire dal 13 luglio, era stata disponibile a chiedere la convocazione del Gran Consiglio del fascismo, che non teneva sedute dal 1939. Altri grossi pescecani del fascismo erano rimasti nei loro scranni ministeriali fino a pochi giorni prima, ma ora dileguavano. Per es. Vittorio Cini, un caso emblematico di trasformismo. Socio principale del fascista della prima ora Volpi di Misurata, protagonista di molte imprese finanziarie e industriali, nel 1934 Cini è nominato senatore (su 323 senatori Mussolini ne aveva nominati 268). Con R.D. del 16 maggio 1940, Mussolini gli concede il titolo di conte di Monselice, con tanto di motu proprio e relativo stemma. Il 6 febbraio 1943 Cini è nominato Ministro delle comunicazioni. 

Beneficiario dei salvataggi dell’Iri negli anni Trenta, negli ultimi mesi di guerra si era messo a distribuire milioni al CLN; dopo la guerra, fu esente dall’epurazione per intervento di De Gasperi e grazie a ottime relazioni con il Vaticano. Negli anni Cinquanta finanziò “Il popolo di Roma”, il cui direttore ombra era un altro ex gerarca fascista, Giuseppe Bottai. Sul giornale vi scriveva anche Luigi Sturzo, che nel 1952, in vista delle elezioni amministrative di Roma, si era adoperato per la costituzione di una lista civica anti-comunista, con la DC, il MSI e i monarchici (Nico Perrone, Il segno della DC, Dedalo, p. 99). Per il resto del suoi giorni “il Conte” si atteggiò a mecenate delle scienze e delle arti.


Nel pacchetto degli accordi (se non si vuol prestare fede a questo, allora chiamiamoli pure “concomitanza d’interessi”, come scrive Giorgio Candeloro (Storia del’Italia moderna, Feltrinelli, p. 225), probabilmente c’è la mancata difesa di Roma (e il disarmo di fatto dell’esercito), che però non fu tanto agevole visto che caddero resistendo in 412 (241 civili e 171 militari) e i feriti furono 1.800. I germanici contano 109 morti e 500 feriti.

Comunque il dieci sera il gen. Carlo Calvi di Bergolo, genero del re, è nominato dai tedeschi governatore militare della città. Naturalmente il “pacchetto” comprendeva la “liberazione” di Mussolini. La sceneggiata fu lasciata ai paracadutisti (corpo che apparteneva alla Lufttwaffe), salvo poi attribuirne il merito della direzione alle Ss, mettendo in mostra un uomo di paglia come Otto Skorzeny.

In breve, nel pacchetto degli accordi non c’era un salvacondotto per Mafalda, perché cittadina tedesca, moglie di un gerarca e ufficiale tedesco così come di nazionalità germanica i suoi figli. Ebbe la possibilità di ripartire in aereo per il Sud, ma rifiutò. Il gen. Olmi, secondo la testimonianza riportata da Renato Barneschi (op. cit., p. 60), dichiara: «A sé pensava ben poco. Era continuamente assillata dalla preoccupazione per la sorte dei familiari e dei suoi doveri di principessa tedesca».

Comunque sia, solo il giorno 21 Mafalda riabbraccia i figli a Roma e rimane qualche ora con loro. Verso sera li lascia per ritornare a Villa Polissena, e promette di tornare l’indomani. Mafalda viene invece “trattenuta” il giorno dopo, 22 settembre, presso l’ambasciata tedesca, dove era stata convocata da una telefonata di Karl Hass che le annuncia una telefonata del marito. I suoi tre figli dovranno lasciare il Vaticano, e, dopo qualche tempo, raggiungere in Germania la nonna paterna.

[Karl Hass, nato nel 1912 a Kiel, Germania, e morto nel 2004 a Castel Gandolfo, è stato ufficiale delle Ss col grado di Sturmbannführer (maggiore). Il 23 marzo 1944 fu eseguito dai partigiani un attacco a Roma, dove 33 soldati vennero uccisi. Il giorno seguente l’Obersturmbannfürher (tenente colonnello) Herbert Kappler, con Hass e Pribke, organizzarono, in collaborazione con la polizia italiana, su ordine del gen. Kurt Maltzerl'atto di rappresaglia delle Fosse Ardeatine (prevista dalle norme internazionali), a sud di Roma, dove 335 persone furono trucidate (cinque in più del “dovuto”, quindici in più degli ordini impartiti). Circa la metà delle vittime erano partigiani, tra i quali 68 appartenenti a Bandiera Rossa, un’organizzazione trockijsta non legata al CNL. La notizia della rappresaglia fu data, incontestabilmente, solo dopo che era stata eseguita. Per l’”Osservatore Romano” si trattò di “persone sacrificate”].

Altri Savoia alla chetichella passano in Svizzera, come Jolanda e Maria José e i suoi figli, i quali nell’agosto 1943 sono (“per volere del sovrano”) dapprima nella stazione termale cuneense di Sant'Anna di Valdieri e l’8 settembre a Sarre, in Valle d’Aosta (nel luglio 1990 Maria Josè chiederà e otterrà dallo Stato italiano la pensione come vedova di un ufficiale dell'esercito!).

In Francia fu arrestata l’ultimogenita del Re, Maria Francesca di Savoia, con lei i due figli piccoli e il marito Luigi Carlo di Borbone-Parma, nato a Schwarzau am Steinfelde, Austria, del quale è stato impossibile trovare tracce biografiche significative«A onor del vero - dice Silvio Bertoldi -, Maria di Savoia non patì le persecuzioni dei campi di concentramento. La sua esperienza cioè non è minimamente paragonabile a quella della sorella Mafalda, che trovò la morte a Buchenwald. Lei, il consorte e numerosi personaggi di rango, furono "condannati" a una sorta di confino. Una prigione dorata (Corriere della sera, 11 dicembre 2001)».

Non c'è alcuna testimonianza o fonte attendibile (Churchill, Eisenhower, Alan Brooke, Clark, Morrison, Butcher, ecc.) che avvalori la balla della «improvvisa e improvvida decisione degli Alleati di render noto l'armistizio con almeno quattro giorni di anticipo». Dal giorno 3 settembre, data della firma della resa, tutti i personaggi coinvolti sapevano che essa poteva diventare operativa in qualsiasi momento: cfr. Ruggero Zangrandi, 1943: 25 luglio - 8 settembre, Feltrinelli 1964, p. 13.

Filippo dopo l’armistizio fu ristretto a Flossenbürg (“sospettato di cooperazione con la famiglia reale contro Mussolini”) e nell’aprile 1945 a Dachau, senza fargli mancare però alcuni piccoli privilegi, quali una residenza e un vitto diverso dagli altri internati, oltre al suo guardaroba personale: con telegrammi del 17 e 18 settembre, viene ordinato a Kappler di trasferire a Berlino i beni del principe e il suo cameriere personale, Fritz Hollenberg.

[In mid- april 1945, Philipp's year-a-half of "harrowing solitary confinement" in Flossenburg came to an end, but that did not mean freedom. The nazi government ordered his transfer from Flossemburg to Dachau, and this was accomplished by way of a green police transport wagon–or in Berliner jargon, a Grune Minna. He was accompanied by von Schlabrendorff and several other prominent prisioniers, and from then on, had contact with others until liberated. 

Philipp was a privileged prisoner he continued to wear his civilian clothes (when he was arrested and trasported from Rastenburg, the guards brought his there suitcases and toiletries kit); he was housed in a double cell that included a wash basin, a table, and a window; and he ate same food as the Ss guard, rather than the meager rations given to other prisoners. His SS captors even built a wooden-fence enclosure outside his cell where he could sit in the sun. He could peer through cracks in the fence and catch glimpses of the camp, even though others could not see in and recognize him.  Petropoulos, p. 313 e p. 297].

Mafalda giunse dopo la metà ottobre nel campo di Buchenwal (non destinato allo sterminio). Secondo la testimonianza del futuro comandante della polizia di Montpellier, Justin Bonniol (***), anch’egli detenuto nel lager, Mafalda viveva in una «baracca in aperta campagna dove erano rinchiusi (Léon Blum e il comunista tedesco Thälmann»dapprima venne registrata col nome Prinzessin Mafalda von Hessen geborene [nata] Prinzessin von Savoyen, ma pochi giorni dopo, questi dati furono sostituiti con l’indicazione: Frau von Weber.

[Thälmann era un uomo politico comunista molto importante in Germania negli anni Venti e Trenta. Dopo undici anni di carcerazione fu ucciso con un colpo alla nuca dalle Ss, il 18 agosto1944 (dunque qualche giorno prima dell’incursione aerea alleata e del ferimento e morte di Mafalda). Al termine della guerra, la moglie e la figlia cercheranno a più riprese di organizzare un processo contro gli assassini di Thälmann, ma la giustizia della Rft, pur disponendo di tutte le prove a carico, per lunghissimo tempo rifiutò di collaborare].

Ma quali erano le caratteristiche di Buchenwald e quale fu il trattamento riservato a Mafalda? Secondo un articolo molto ben documentato di Marcello PezzettiQuante bugie, povera Mafalda, pubblicato sul numero del 26 gennaio 2007 de il Diario – articolo che critica le caricaturali fantasie di uno sceneggiato TV dedicato a Mafalda (con la consulenza “storica” di Maria Gabriella di Savoia!) –, «Buchenwald era stato istituito nel luglio del 1937 nei pressi di Weimar, con l’internamento iniziale di oppositori politici, criminali «recidivi», Testimoni di Geova e alcuni omosessuali.

Successivamente vennero imprigionate in massa persone rastrellate nell’azione Arbeitsscheu Reich, ovvero coloro che non accettavano il lavoro obbligatorio loro assegnato, che non avevano fissa dimora, tanto che nel luglio del 1938 essi rappresentavano quasi il 60 per cento dei detenuti. I prigionieri erano tutti uomini, le donne venivano [a parte delle prostitute “adibite” per il personale del campo] inviate prevalentemente nel campo femminile di Ravensbruck, e ciò non sarebbe cambiato fino alla fine del 1944. Mafalda, quindi, non ebbe mai contatti con donne detenute, così presenti nel film, semplicemente perché queste a Buchenwald non c’erano».

Scrive ancora Pezzetti: «Quando giunse Mafalda, dunque, gli ebrei, tutti uomini, non raggiungevano nemmeno l’uno per cento del totale dei prigionieri. Di questi, solo qualche decina viveva all’interno del recinto del campo, in un settore speciale di quarantena e punitivo chiamato Kleines Lager (piccolo campo), senza la possibilità di avere alcun rapporto con gli altri detenuti, mentre gli altri ebrei erano stati assegnati al lavoro negli Außenlager ».

Quindi su Mafalda: «fu imprigionata a Buchenwald come prigioniera “privilegiata” e come tale fu inserita in una baracca, con lei una donna testimone di Geova assegnatale come dama di compagnia (che le rimase accanto fino alla morte, ma che ingiustamente è accusata nel film di essere stata una spia delle Ss) e un ex deputato della Spd, Rudolf Breitscheid con la propria moglie. Non uscì mai dal suo settore e mai si recò nella parte del campo in cui alloggiavano tutti i detenuti. Riuscì solo a scambiare in rarissime occasioni qualche battuta con prigionieri italiani impiegati alla costruzione di una fossa antischegge vicino al suo blocco. Proprio il fatto che non alloggiasse nel campo fu, tragicamente, anche la causa della sua morte, perché gli americani, il 24 agosto, bombardarono le officine Gustloff, dove si costruivano armi, la fabbrica delle Ss Daw e purtroppo la baracca speciale n. 15 ubicata tra queste due installazioni. Il campo non venne toccato, anche se molti prigionieri morirono perché lavoravano in quel momento nelle due fabbriche.

Un’altra invenzione incomprensibile – scrive sempre Pezzetti – è data dal coinvolgimento di Mafalda in un tentativo di fuga organizzata dal marito. Se Filippo d’Assia, tra l’altro nazista della prima ora, avesse tentato una simile follia e fosse stato scoperto, non avrebbe mai potuto sedersi a tavola con i figli dopo la fine della guerra».

Barneschi (cit., pp. 89 e ss.) porta la testimonianza di «Tony Breitscheid, moglie del deputato socialdemocratico tedesco, compagna d’internamento di Mafalda e testimone della sua morte […]. Nella baracca il vitto era uniforme ma abbastanza copioso. Ci venivano passate le razioni dell’esercito […] Prima dell’inizio dell’inverno, dopo numerose e insistenti richieste, vostra madre ricevette qualche capo di vestiario più caldo: abiti e biancheria che erano stati presi ad altre prigioniere ebree e che la signora Ruhhnau aggiustava sulle misure di vostra madre […]. In primavera e in estate vostra madre si occupava molto del giardino o tentava qualche lavoro con la creta […]. Inoltre leggeva molte opere di storia, francesi e inglesi […]».

Il 24 agosto 1944, poco prima di mezzogiorno, ci fu un nuovo bombardamento alleato sulla fabbrica di armamenti Wilhem-Gustloff-Works, prossima alla baracca in cui vi erano i detenuti “speciali”. Secondo i rapporti, tre ordigni colpirono il campo e uno ha colpito la baracca di Mafalda, che ha immediatamente preso fuoco. Un’altra bomba cadde al di fuori della baracca e colpì la copertura del rifugio nel quale si trovavano Mafalda e molti altri rifugiati. Circa quattrocento prigionieri rimasero uccisi, tra cui l’ex deputato Rudolf Breitscheid.

La principessa Mafalda fu gravemente ferita e sepolta dalle macerie. Fu presto liberata dai detriti, ma il braccio sinistro era stato gravemente ustionato. Secondo Harnyss (il responsabile del campo), che fu testimone degli eventi, il braccio era "bruciato quasi fino all'osso". Mafalda ha ricevuto assistenza medica in un edificio che fino ad allora aveva ospitato il bordello del campo (Himmler aveva ordinato la sua creazione nell'estate del 1943). Che Mafalda lavorasse in tale bordello è una diceria diffusa dopo la guerra.

On 24 August 1944, shortly before noon, the bombs fell again. According to reports, three struck that part of the camp: one went astray and hit the I-Barracks, which immediately caught fire. Another bomb fell outside the barrack and hit the covering under which Mafalda and several others had taken refuge. Approximately four hundred prisoners were killed, including Rudolf Breitscheid, who died istantly. Princess Mafalda was gravely wounded and buried beneath rubble. Burning walls had collapsed around her, and she was up to her neck in debris. Even though she was soon rescued, het left arm had been burned. According to Harnyss, who witnessed the events, it had "burned almost to the bone". Mafalda received medical help in a building that had hitherto housed the camp brothel (Himmler had ordered its creation in the summer of 1943). For this reason, a rumor spread after the war that Mafalda had been housed in the brothel – with suggestions (entirely unfounded of course), that she had been forced to work there. The princess and other severely wounded were cared for, and in this case, she was given injections to ease her pain. The arm, however, became infected, and the decision was made to amputate. This was done by the camp physician, dr. Schiedlausky. The procedure did not go well, however, and Princess Mafalda started bleeding profusely. Frau Breitscheid, who was there with her, recalled, "The princess was very collected and brave", and said, " she was not so  badly injured. Then, after te treatment, she never regained consciousness". Mafalda died from loss of blood during the night of 26-27 august 1944. Some questioned whether the amputation was necessary, and in hindsight it was certainly the wrong decision. (Petropoulos, cit., pp. 302-03)].

La principessa e gli altri feriti gravi sono stati curati, e nel suo caso gli furono praticate delle iniezioni per alleviarle il dolore. Il braccio, invece, per tema che si infettasse, fu amputato dal medico del campo, dr. Schiedlausky. Immaginiamo in quali condizioni di precarietà potesse avvenire l’intervento, certamente non di routine, senza possibilità di trasfusioni e cure intensive. Pertanto si ebbero emorragie e altre complicazioni.

Frau Breitscheid, che era lì con lei, ha ricordato: “La principessa era molto raccolta e coraggiosa”. Dopo l’intervento, non ha mai ripreso conoscenza. Mafalda è morta durante la notte del 26-27 agosto 1944. Col senno di poi ci si può chiedere se l'amputazione fosse necessaria, ma nessuno ha elementi per stabilire con certezza cosa fosse meglio in quello stato e in tali circostanze. 

Pertanto Mafalda morì per le ferite riportate a seguito di un bombardamento alleato su una vicina fabbrica. Sostiene Corrado Augias – altro ineffabile “esperto” della materia – che fu sottoposta a un intervento chirurgico da parte di personale medico negligente e che le inflisse la morte tra derisione ed ingiurie. Nulla, nelle carte e nelle testimonianze prova l’assunto, peraltro illogico.

Segnalo l’opinione del dottor Fausto Pecorai, radiologo internato a Buchenwald (**), secondo il quale Mafalda è stata intenzionalmente operata in ritardo e con procedura, “in sé impeccabile, ma assolutamente ingiustificabile” (??), per provocarne la morte (Fausto Pecorai, Nel primo anniversario del’ascesa di S.A.R. la principessa Mafalda d’Assia, principessa di Savoia dall'inferno di Buchenwald al paradiso dei Martiri e degli eroi …, Tip. E. Cavalieri, Como, 1946).

[Del libro dedicato nel 1946 da F. Pecorai a Mafalda, esiste anche un’altra edizione: Roma, Tip. L. Salomone, 1946. Inoltre esisterebbe ancora un’altra edizione antecedente: Vita e morte di S.A.R. la principessa Mafalda di Savoia, Hessen, 1945. Fausto Pecorai fu esponente eminente dell'Azione cattolica triestina e noto studioso della Sindone. Impegnato da subito nel Partito popolare (e poi nella DC), nel 1944 tesoriere per il locale CLN fu per questo arrestato dai tedeschi e condannato a morte; l’intervento del vescovo mons. Santin fece sì che la condanna fosse tramutata in deportazione al campo di Buchenwald. Deputato eletto all'Assemblea Costituente, presidente del Comitato Nazionale Venezia Giulia e Zara, promotore del gruppo parlamentare "Pro Trieste", fondatore del Comitato per l'assistenza ai profughi giuliani e dalmati e segretario nazionale del Comitato rifugiati, direttore del settimanale "Difesa Adriatica", lavorò con tutte le sue forze – è detto in  Wikipedia – per dimostrare l'italianità dell'Istria, portando assieme a De Gasperi una pubblicazione fotografica, da lui composta, al Congresso di Pace di Parigi, ma invano. “Fu fiero anticomunista”].

«Mafalda viene trasportata nel Sonderbau, che è il nome dato al bordello, poiché a Buchenwald non c’era ricovero per le donne. L’assiste la cameriera, ma anche delle prostitute, con tenerezza e attenzione (Ivan Ivanji, La creatura di cenere di Buchenwald, Giuntina, 2001, p. 114).» 

Il corpo di Mafalda fu tumulato nel locale cimitero cittadino e, in seguito, nel piccolo cimitero degli Assia nel castello di Kronberg in Taunus (Francoforte sul Meno). I tre anelli che portava al momento del decesso furono restituiti alla famiglia.


Il 20 aprile 2002, a Como è stato dedicato un monumento a Mafalda di Savoia e alle donne vittime nei lager nazisti. La scultura, di Massimo Clerici, è una stele in bronzo alta 2 metri. Presente il primogenito di Mafalda, Maurizio d’Assia. Su una pubblica piazza, il monumento forse sarebbe stato più opportuno dedicarlo alla figlia di Pietro Nenni o ad altre figure non compromesse in alcun modo col nazi-fascismo. E anche il francobollo commemorativo dedicatole dalle Poste italiane poteva essere dedicato a vittime non compromesse col nazi-fascismo.

Philipp von Hessen e Mafalda di Savoia non furono oppositori del nazismo, non hanno patito persecuzioni e non furono nemmeno delle comuni vittime di un’epoca di ferro e di fuoco. L’immagine generalmente offerta dai media della vicenda di Mafalda e suo marito è consapevolmente fuorviante e anche falsa.

Essi appartenevano alla più alta aristocrazia europea, all’élite della ricchezza e del privilegio, e si lusingavano altresì di coltivare stretti rapporti e amicizie con Hitler, Göring e altri alti gerarchi nazisti e fascisti. Dalla loro adesione attiva e convinta a tali regimi, con i loro silenzi e omissioni, essi trassero indubbie benemerenze e considerevoli remunerazioni. Questo almeno fino al 1943, quando, per eventi e situazioni sostanzialmente indipendenti dalla loro volontà, furono scaricati dal regime hitleriano e messi, non senza i possibili riguardi, in condizioni di non poter eventualmente nuocere.

Che Mafalda sia deceduta a causa di eventi bellici (come del resto decine di milioni di persone a seguito delle guerre scatenate dai regimi cui essa aveva aderito), non può mutare sostanzialmente il giudizio sulla sua figura. L’operazione, riuscita, di fare di Mafalda una “martire”, serve agli eredi Savoia per tentare di restaurare l'immagine del casato gravemente compromessa col fascismo e screditata da innumerevoli altre vicende. 
  
Se oggi è diffuso e diventa sempre più sfacciato un certo revisionismo storico, questo è conseguenza soprattutto di un fatto: così come, da un lato, non possiamo giudicare quell’epoca storica semplicemente con le categorie della follia individuale e della psicopatologia di massa, dall’altro, dobbiamo considerare le tendenze revisioniste e riabilitative successive come il prodotto di una società dominata largamente dagli interessi di un’élite conservatrice e sostanzialmente reazionaria, tenuta unita nelle sue diverse fazioni dal viscerale sentimento di odio per tutto ciò che può essere interpretato come minaccia al proprio dominio di classe. ---

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