Oggi, Sergio Fabbrini, sul quotidiano della Confindustria, si è esercitato su un tema di
grande attualità: l’antiamericanismo. Per rintracciarne le radici è partito da lontano, dal
dopoguerra, da quel periodo che fin d’allora si chiamò Guerra Fredda.
Osserva Fabbrini che i comunisti e i socialisti, propensi “alla socializzazione dei mezzi di
produzione”, combattevano l’America quale rappresentante per eccellenza del
capitalismo, guardando con simpatia all’Unione Sovietica.
Si potrebbe osservare che i comunisti e i socialisti furono propensi “alla socializzazione dei
mezzi di produzione” ben prima d’allora e però senza manifestare accese idiosincrasie per
gli Stati Uniti. Marx sottoscrisse perfino petizioni al presidente degli USA, peraltro
anticipando le dannose e pericolose involuzioni del capitalismo americano.
Pertanto il mutamento di atteggiamento di comunisti e socialisti può essere rintracciato
nell’ambito della cosiddetta Guerra Fredda. Peccato però che a tale contesto storico
Fabbrini non dedichi nemmeno una riga, un po’ come si volesse descrivere, che so, il
“diciannovismo” senza parlare del fascismo, e viceversa.
Anche alla destra non piaceva l’America, scrive Frabbrini, perché aveva contribuito a
sconfiggere fascismo e nazismo (teoria semplicistica). Non fino al punto però, e questo
Fabbrini evita di evincerlo, da rifiutare i copiosi finanziamenti in dollari e gli stretti legami
con gli apparati d’intelligence americana, quindi fino a farsi coinvolgere in cupe trame.
L’America non piaceva neppure alla Chiesa, sostiene Fabbrini, per cultura terzomondista e
soprattutto perché rappresentava il paese protestante per eccellenza. Mah, a me pare un
po’ stiracchiata e unilaterale anche questa tesi e a ogni modo non ho interesse a discuterne
qui.
Scrive Fabbrini:
«La fine della guerra fredda ha cambiato l’America, ma non il nostro antiamericanismo.
Priva del nemico mortale che ne aveva favorito l’autodisciplina, l’America ha finito per
portare in superficie le divisioni radicali che pure avevano attraversato la sua storia. Al
capitalismo regolato del New Deal e della Great Society, si è contrapposto il capitalismo
deregolamentato del neoliberismo trionfante degli anni Novanta del secolo scorso».
Fabbrini non menziona da che cosa era nato il New Deal (e il Fair Deal), e come quella
politica economica entrò a sua volta in crisi sia per problemi interni di sostenibilità e sia
per l’enorme spesa bellica negli anni della guerra in Vietnam, tanto da portare alla famosa
decisione di Nixon dell’agosto 1971, ossia di sospendere la convertibilità tra dollaro e oro.
A proposito della guerra in Vietnam, che Fabbrini nemmeno cita, va ricordato
l’antiamericanismo endogeno, le grandi manifestazioni di protesta, in cui anche negli Stati
Uniti si bruciavano le bandiere a stelle strisce. Fabbrini esalta i bei tempi andati, ma va
ricordato che la guerra nel Vietnam fu concepita e condotta dagli uomini che John F.
Kennedy portò a Washington (spero non serva rammentarne qui i nomi).
Dimentica, Fabbrini, che gli Stati Uniti non rappresentano solo il capitalismo nella forma
storicamente più avanzata, ma anche la forma più sviluppata, proterva e totalizzante dell’imperialismo capitalista. La sua continua minaccia e ingerenza in nome di quei
diritti umani che però sono violati sistematicamente negli stessi Stati Uniti.