giovedì 30 giugno 2011

Il lavoraccio di Susanna



Immagino che arrivato luglio la signora Camusso sarà alle prese con gli ultimi preparativi della “barca” con cui veleggia tra gli oceani, dopo naturalmente aver apposto la sua firma su un “accordo” di americanizzazione del rapporto di lavoro che vede il sindacato come soggetto terzo e “autonomo” rispetto alla rappresentanza effettiva dei diritti dei lavoratori. Un concordato che sancisce che i contratti non vanno approvati dai lavoratori ma dal sindacato, i cui rappresentanti, peraltro, saranno “nominati”. Scrive Pietro Ancona, già sindacalista della CGIL, “Se si leggono gli atti fondamentali del fascismo dal 1926 al 1938 si scopre una somiglianza impressionante con gli accordi dei tre con la Confindustria e con il Governo di oggi”.


Sul Magazine del Corriere della Sera è stata pubblicata una intervista di Susanna con una foto che la vede al timone di una barca a vela. Timone è riduttivo dato che si tratta di una «ruota» e non della «barra» di una piccola deriva. Tanto per essere chiari anche se della barca non è scritto nulla è facile intuirne le dimensioni non certo da guscio di noce. Il timone a ruota è solitamente utilizzato sugli yacht a vela dai 12 metri in su.

La sua è una passione vera: «Ho preso la patente nautica prima di quella per l’automobile. Ancora oggi frequento la scuola di vela dei Glenans, in Bretagna». Il suo viaggio più bello? «A vela in Madagascar e nei Caraibi».

Lei ha una barca? «No. Ma ho costruito parecchi modellini di velieri: un lavoraccio, ci si mettono anni».

Faccio a mia volta una domanda alla skipper: è con i modellini costruiti con tanta fatica che fa le traversate nell’oceano Indiano e in Atlantico?

mercoledì 29 giugno 2011

Fascisti


Qualunque cosa si possa pensare del sindacato e del suo ruolo effettivo negli ultimi decenni, sta di fatto che esso è morto anche formalmente dopo la firma che la figlia della buona borghesia meneghina, Susanna Camusso, ha apposto sulla carta bianca confindustriale. E dico carta bianca anche perché almeno fino a poche ore fa nemmeno i segretari nazionali e generali di categoria ne conoscevano nel dettaglio il contenuto. Si sa tuttavia da quanto è trapelato – come scrive il manifesto – che è stata sancita la messa in mora del diritto di sciopero, la sostituibilità del contratto nazionale con quello aziendale, la non obbligatorietà del voto dei lavoratori, la possibilità dei sindacati di “nominare” i delegati.

Il capitalismo finanziario, il cui scopo è la conservazione di questo stato di cose fallimentare e truffaldino, ha saputo costruire le basi sociali del regime reazionario di massa vigente anzitutto con la collaborazione degli elementi più marci, corrotti e antisociali del sistema, l’alleanza tra il potere economico e il parassitismo politico e le relative camorre sindacali. Anche questo tipo di “concordato” tra le “parti sociali” è il risultato, sistematico e spregiudicato, di tale strategia tesa a prevenire e assorbire in ogni modo gli antagonismi sociali, e cioè a difesa degli interessi padronali e nell’offensiva contro il lavoro e le condizioni di vita dei salariati. È lotta di classe dei padroni del mondo, violentissima perché attuata con le armi del ricatto, ma la risposta adeguata allo scontro non tarderà a venire.

Il ruggito dell'aquila


A Kabul è l’ennesima strage. Obama dice di voler ritirare i 30mila soldati che ha mandato lui stesso ultimamente, ma i generali nicchiano. A Tripoli Gheddafi gioca a scacchi, forse ancora per poco. Di Fukushima non parla più nessuno. Per quanto riguarda la situazione economica globale, si può dire, con Marx, che al fondo resta “il conflitto fra l’estensione della produzione e la valorizzazione”. Di tale conflitto, l’entità e l’estensione della pirateria finanziaria ne costituisce l’aspetto esteriore.

Sulla Grecia e più in generale sulla situazione della Ue, il Frankfurter Allgemeine Zeitung ha pubblicato un articolo con il titolo "Ritorno alla Nazione". L'autore inizia il suo commento lodando l'Unione europea come un tentativo ammirevole di superare il nazionalismo che aveva devastato l'Europa in due guerre mondiali nella prima metà del XX secolo, come il più riuscito tentativo d’integrazione dopo la caduta dell’Impero romano. L’Europa amministrativamente, legalmente ed economicamente è il più forte continente del pianeta. Senza conflitti interni, senza povertà di massa, senza dittatura. Ciò nonostante, prosegue, l'UE è alle prese con una serie di problemi quali l’immigrazione, il nucleare, i greci imbroglioni che vanno in pensione a 53 anni, e ha dato prova di essere spesso un mostro burocratico, non una dittatura ma nemmeno una democrazia, che vìola sempre più i diritti democratici e le tradizioni delle singole nazioni. Il giornalista conclude il suo commento dichiarando: "C'è una sola via da seguire per l'Europa, il ritorno alla nazione, il ritorno alla democrazia" (qui l’articolo sulla FAZ, e qui c’è anche una traduzione francese, ma non integrale).

Abbiamo imparato che quando la mettono sul piano della “democrazia”, vuol dire che non stanno più al gioco e rovesciano il tavolo. In pratica e in sostanza l’articolista si lamenta che l’Ue è solo un’unione monetaria dove il potere decisionale è in mano ai burocrati di Bruxelles (e di Francoforte, aggiungo) e, senza dirlo, dove finora la Germania ha imposto il suo modello di sfruttamento sistematico dei surplus dell’export per potenziare la crescita a spese delle altre nazioni in deficit.

Il peggior errore politico della recente storia europea è stato la riunificazione tedesca, e avremmo modo di constatarlo. La Germania, non appena avrà sistemato alcune sue questioni con le banche, lascerà il Sudeuropa al suo irredimibile destino, guardando sempre più a Est e verso l’Oriente. Pensa di potercela fare, se non da sola, con il suo tradizionale Lebensraum nordico. Il decennio che si è aperto sarà veramente cruciale per i nuovi assetti mondiali. La storia non si ripete mai uguale, ma ci prova.

L’Italia dovrebbe guardare al Mediterraneo, ma non ha una classe dirigente all’altezza per farlo, come s’è ben visto in Libia, laddove ha permesso che altri decidessero le loro guerre coloniali a nostro scapito. A noi basta “va, pensiero sulle ali d’orate”.

martedì 28 giugno 2011

Marx e il "signoraggio"


Quello che segue è un post, non un saggio sul signoraggio. In esso si prescinde totalmente dall’analisi marxiana del valore, del denaro e della moneta. I brani marxiani proposti alla fine del post si possono considerare quasi delle digressioni incidentali di carattere storico sul debito pubblico e, implicitamente, su quello che noi chiamiamo “signoraggio”. Marx è uno degli autori più citati e meno conosciuti della letteratura scientifica; non è un caso e tale evidenza è confermata dal livello di miserabile mistificazione in cui ci dibattiamo ogni giorno.

Nei tempi antichi, superata la fase del baratto, quando la base monetaria consisteva esclusivamente in metallo prezioso (equivalente universale), chiunque ne disponesse poteva portarlo presso la zecca di stato dove veniva trasformato in moneta. Il “signoraggio”, così come fu chiamato a partire da una certa epoca, non era altro che il compenso richiesto dagli antichi sovrani per certificare, attraverso la propria effigie impressa sulla moneta, la purezza e il peso dell’oro, dell’argento o del bronzo e garantiva potere liberatorio nei rapporti di scambio. A ciò si aggiungeva un piccolo costo per il conio delle monete pagato dal privato alla zecca statale. I diritti spettanti al sovrano e il costo di conio erano esatti trattenendo parte del metallo prezioso, ed infatti il valore nominale della moneta e il valore intrinseco non coincidevano perfettamente; l’imposta sulla coniazione serviva a finanziare la spesa pubblica.

Bisogna tener conto che la moneta metallica aveva un proprio valore intrinseco perché costituita da pezzi coniati in metalli pregiati, cioè in valori di scambio aventi titolo di equivalente universale; essendo tali metalli delle merci, esse stesse fungevano da misura del valore delle altre merci. Quando il sovrano o lo stato chiedevano un prestito ad un banchiere privato, questi in cambio di un interesse cedeva a credito dei valori effettivi sotto forma di moneta coniata in metallo pregiato, oppure titoli di credito che avevano una copertura effettiva nelle riserve auree o argentee della banca.

Da molto tempo ormai questo stato di cose è mutato. Il moderno signoraggio ha assunto una dimensione che va ben al di là di una semplice tassa per il diritto di emissione. Ma leggiamo cosa ha da dire in proposito la Banca d’Italia in un suo documento ufficiale:

«Ai giorni nostri, un governo che voglia utilizzare il signoraggio per finanziare il proprio deficit non ricorre alla stampa diretta di moneta, ma utilizza un procedimento indiretto. Il Tesoro emette titoli governativi fruttiferi [titoli di stato] per un importo pari al deficit da finanziare. Ma, anziché essere collocati presso i risparmiatori, tali titoli vengono sottoscritti dalla banca centrale […]. La banca centrale stampa quindi il denaro necessario per acquistare i nuovi titoli di stato emessi, e lo consegna al Tesoro nazionale, che se ne serve per compiere i propri pagamenti».

Chiaro? Oggi non è più lo Stato direttamente a battere moneta, ma la banca centrale, cioè un istituto privato che la moneta la stampa semplicemente. Tale stampa ha un costo modestissimo di carta e inchiostro, ma soprattutto essendo tale moneta cartacea priva di qualunque copertura aurea o valutaria, in realtà la banca non presta nulla allo Stato (se non appunto moneta cartacea priva di valore intrinseco) e riceve in cambio titoli di stato di pari importo che la banca commercializza facilmente sul mercato. In sostanza la banca compie solo una registrazione contabile del prestito, ma riceve al contempo titoli di stato che vende sul mercato e che rappresentano il debito pubblico (è chiaro che a scadenza dei titoli questi vengono rimborsati, ma è altrettanto evidente che vi è una costante creazione di un'enorme leva finanziaria di cui la banca dispone). In tal modo lo Stato ha trasferito alla banca quello che un tempo era la sua sovranità monetaria e il “signoraggio” viene così a includere un vero e proprio potere sul debito.

Questo, grossomodo, in poche e semplici parole è l’arcano del “signoraggio” di cui tanto spesso si discute. Scrive Marx nel I Libro de Il Capitale, cap. 24 (Einaudi pp. 926-928):

«Il sistema del credito pubblico, cioè dei debiti dello Stato, le cui origini si possono scoprire fin dal Medioevo a Genova e a Venezia, s’impossessò di tutta l’Europa durante il periodo della manifattura, e il sistema coloniale col suo commercio marittimo e le sue guerre commerciali gli servì da serra. Così prese piede anzitutto in Olanda. Il debito pubblico, ossia l’alienazione dello Stato — dispotico, costituzionale o repubblicano che sia — imprime il suo marchio all’era capitalistica. L’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è il loro debito pubblico […].
Il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria: come con un colpo di bacchetta magica, esso conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dall’investimento industriale e anche da quello usurario. In realtà i creditori dello Stato non danno niente, poiché la somma prestata viene trasformata in obbligazioni facilmente trasferibili, che in loro mano continuano a funzionare proprio come se fossero tanto denaro in contanti. Ma anche fatta astrazione dalla classe di gente oziosa, vivente di rendita, che viene cosi creata, e dalla ricchezza improvvisata dei finanzieri che fanno da intermediari fra governo e nazione, e fatta astrazione anche da quella degli appaltatori delle imposte, dei commercianti, dei fabbricanti privati, ai quali una buona parte di ogni prestito dello Stato fa il servizio di un capitale piovuto dal cielo, il debito pubblico ha fatto nascere le società per azioni, il commercio di effetti negoziabili di ogni specie, l’aggiotaggio: in una parola, ha fatto nascere il giuoco di Borsa e la bancocrazia moderna.

Fin dalla nascita le grandi banche agghindate di denominazioni nazionali non sono state che società di speculatori privati che si affiancavano ai governi e, grazie ai privilegi ottenuti, erano in grado di anticipar loro denaro. Quindi l’accumularsi del debito pubblico non ha misura più infallibile del progressivo salire delle azioni di queste banche, il cui pieno sviluppo risale alla fondazione della Banca d’Inghilterra (1694). La Banca d’Inghilterra cominciò col prestare il suo denaro al governo all’otto per cento; contemporaneamente era autorizzata dal parlamento a batter moneta con lo stesso capitale, tornando a prestarlo un’altra volta al pubblico in forma di banconote. Con queste banconote essa poteva scontare cambiali, concedere anticipi su merci e acquistare metalli nobili. Non ci volle molto tempo perché questa moneta di credito fabbricata dalla Banca d’Inghilterra stessa diventasse la moneta nella quale la Banca faceva prestiti allo Stato e pagava per conto dello Stato gli interessi del debito pubblico. Non bastava però che la Banca desse con una mano per aver restituito di più con l’altra, ma, proprio mentre riceveva, rimaneva creditrice perpetua della nazione fino all’ultimo centesimo che aveva dato. A poco a poco essa divenne inevitabilmente il serbatoio dei tesori metallici del paese e il centro di gravitazione di tutto il credito commerciale […].

Poichè il debito pubblico ha il suo sostegno nelle entrate dello Stato che debbono coprire i pagamenti annui d’interessi, ecc., il sistema tributario moderno è diventato l’integramento necessario del sistema dei prestiti nazionali. I prestiti mettono i governi in grado di affrontare spese straordinarie senza che il contribuente ne risenta immediatamente, ma richiedono tuttavia in seguito un aumento delle imposte. D’altra parte, l’aumento delle imposte causato dall’accumularsi di debiti contratti l’uno dopo l’altro costringe il governo a contrarre sempre nuovi prestiti quando si presentano nuove spese straordinarie. Il fiscalismo moderno, il cui perno è costituito dalle imposte sui mezzi di sussistenza di prima necessità (quindi dal rincaro di questi), porta perciò in se stesso il germe della progressione automatica. Dunque, il sovraccarico d’imposte non è un incidente, ma anzi è il principio Questo sistema è stato inaugurato la prima volta in Olanda, e il gran patriota De Witt l’ha quindi celebrato nelle sue Massime come il miglior sistema per render l’operaio sottomesso, frugale, laborioso e... sovraccarico di lavoro. Tuttavia qui l’influsso distruttivo che questo sistema esercita sulla situazione dell’operaio salariato, qui ci interessa meno dell’espropriazione violenta del contadino, dell’artigiano, in breve di tutti gli elementi costitutivi della piccola classe media, che il sistema stesso porta con sé. Su ciò non c’è discussione, neppure fra gli economisti borghesi. E l’efficacia espropriatrice del sistema è ancor rafforzata dal sistema protezionistico che è una delle parti integranti di esso.

La grande parte che il debito pubblico e il sistema fiscale ad esso corrispondente hanno nella capitalizzazione della ricchezza e nell’espropriazione delle masse, ha indotto una moltitudine di scrittori, come il Cobbett, il Doubleday e altri a vedervi a torto la causa fondamentale della miseria dei popoli moderni».

lunedì 27 giugno 2011

Siccome il cetriolo killer



Siccome (*) non c’è da scialare, se non per i soliti noti, e siccome ai soliti noti non si può tagliare sulle spese vive (le nécessaire, poveri coatti) allora si prende ai poveri (leggasi: meno abbienti) per dare ai ricchi, secondo i dettami dell'internazionale del rating. Monsieur le ministre, questo buon profeta di cui si cercherebbe invano un difetto come uomo, avrebbe deciso per tre aliquote Irpef: 20, 30, 40. Più l’inasprimento dell’1% dell’IVA, sia per chi tracanna con soddisfazione tavernello, sia per i perseguitati dallo scudo fiscale costretti a destreggiarsi tra i cuvée d’oltralpe. È vero che i gentleman del ministero, spinti da una malafede strettamente dipendente da posizioni personali, non hanno ancora avuto il tempo di rendere noto il livello degli scaglioni che verranno affiancati a ciascuna delle tre nuove aliquote (intanto provano a vedere che effetto che fa), ma è altrettanto certo che coloro che superano i 55.000 e i 75.000 euro questa sera possono già brindare a Champagne. Per loro il taglio dell’Irpef dall’1 al 3% è cosa fatta. Ma sciccome (e daje) si tratta di scaglioni, il risparmio è ben superiore. Siccome (è l’ultimo) la manovra è una partita di giro, cioè a costo zero,  a rimetterci saranno i soliti e l'Istat avrà tutto il tempo per ragguagliarci sulla lunghezza e il diametro dell'ennesimo cetriolo.

(*) Inizio così, in memoria del mio maestro delle elementari, buonanima, morto prematuramente anche per mia causa.

Democrazia e grande impresa


di Luciano Gallino

«Tra noi sta crescendo una concentrazione di potere privato senza uguali nella storia». Nel 1938 Roosevelt lanciava l'allarme per le sorti di una democrazia messa in pericolo dallo strapotere della grande industria privata. Oggi quell'allarme si è avverato.

La democrazia, si legge nei manuali, è una forma di governo in cui tutti i membri di una collettività hanno sia il diritto, sia la possibilità materiale di partecipare alla formulazione delle decisioni di maggior rilievo che toccano la loro esistenza. La possibilità di intervenire nel processo decisionale, di avere voce nelle decisioni che contano, si può realizzare sia con la partecipazione diretta, sia attraverso forme di rappresentanza.

In tema di decisioni che toccano l'esistenza del maggior numero di membri d'una collettività, di tutti noi, viene naturale includere diversi aspetti attinenti all'economia, o ad essi strettamente correlati. Tra le decisioni che incidono sulla nostra esistenza ritroviamo: il tipo di manufatti e di servizi che vengono prodotti; i luoghi della produzione degli uni e degli altri; le condizioni di lavoro in cui vengono prodotti nel nostro paese o all'estero; la possibilità per ciascuno di noi e per i suoi figli di trovare quanto prima un lavoro stabile, adatto al proprio talento e grado di istruzione. E ancora, la produzione degli alimenti di cui ci nutriamo, la loro provenienza, il modo in cui vengono distribuiti, dal negozio all'angolo all'outlet grande come un campo di calcio; il costo di ciascuno di questi beni e servizi; il tipo di mezzi di trasporto di cui dobbiamo servirci, insieme con la loro comodità e costo; la qualità dell'aria che respiriamo e dell'acqua che beviamo; gli abiti che indossiamo; il tipo di abitazione in cui viviamo, la sua collocazione e i mobili con cui è stata arredata; l'intensità fonovisiva nello spazio e nel tempo della pubblicità, cui sono esposti i nostri figli sin dai primissimi anni; il modo in cui il sistema finanziario si collega all'economia reale; il modo in cui sono gestiti i nostri risparmi a scopi previdenziali; e, per finire, la struttura sociale della comunità di cui facciamo parte.

Nelle condizioni che prevalgono da decenni nell'economia e nella società un'osservazione si impone: la grandissima maggioranza della popolazione è totalmente esclusa dalla formazione delle decisioni che ogni giorno si prendono nei campi ricordati sopra. Il soggetto che direttamente le prende o che indirettamente determina il corso delle decisioni stesse, è la grande impresa, industriale e finanziaria, non importa se italiana e straniera. Il fatto nuovo del nostro tempo è che il potere della grande impresa di decidere a propria totale discrezione che cosa produrre, dove produrlo, a quali costi per sé e per gli altri, non soltanto non è mai stato così grande, ma non ha mai avuto effetti altrettanto negativi sulla società e sulla stessa economia. A questo proposito un uomo politico di primo piano ebbe a dire tempo addietro: «La libertà di una democrazia non è salda se il suo sistema economico non fornisce occupazione e non produce e distribuisce beni in modo tale da sostenere un livello di vita accettabile. Oggi tra noi sta crescendo una concentrazione di potere privato senza uguali nella storia. Tale concentrazione sta seriamente compromettendo l'efficacia dell'impresa privata come mezzo per fornire occupazione ai lavoratori e impiego al capitale, e come mezzo per assicurare una distribuzione più equa del reddito e dei guadagni tra il popolo della nazione tutta».

L'uomo politico di cui ho appena citato un discorso era il presidente americano Franklin D. Roosevelt. Correva l'anno 1938. Roosevelt era preoccupato perché l'impresa privata creava sempre meno occupazione, e contribuiva a concentrare il reddito in poche mani anziché distribuirlo. Era ancor più preoccupato per le sorti della democrazia a fronte della crescita di un potere privato arrivata al punto di diventare più forte dello stesso Stato democratico. Dopo un interludio durato pochi decenni, la preoccupante visione di Roosevelt si è pienamente avverata, in tutti i sensi. Sia in campo industriale che in campo finanziario poche decine di corporation dalle dimensioni smisurate sono giunte a formare il vero governo del paese. Se non in tutti, in molti campi della vita civile la democrazia in Usa è stata svuotata di senso. Le leggi escono dal Congresso, ma le indicazioni per scriverle provengono notoriamente dalle corporation industriali e finanziarie. Le quali hanno speso tra l'altro 500 milioni di dollari per sostenere nel 2008 la campagna elettorale di ambedue i candidati alle presidenziali; 300 milioni per rendere il meno incisiva possibile la riforma di Wall Street del 2010; e altrettanti per tentare di bloccare la modesta riforma sanitaria voluta dal presidente Obama. Con la previsione che, essendo mutata nel novemnre 2010 la composizione del Congresso, quasi sicuramente vi riusciranno nel prossimo futuro.
Chi ha avuto la peggio sono stati i lavoratori americani. Lavorano almeno duecento ore l'anno più degli europei, e i loro salari, in termini reali, sono pressocché al livello del 1973 - quasi quarant'anni fa. Una delle cause è stato il trasferimento di interi settori manifatturieri dai paesi sviluppati a quelli emergenti, con la perdita di decine di milioni di posti di lavoro. Grazie alle delocalizzazioni gli Stati Uniti hanno praticamente smantellato buona parte della loro industria manifatturiera. Al presente negli Usa risulta quasi scomparsa la produzione di settori che pochi decenni fa dominavano con le loro esportazioni, oltre al mercato interno, gran parte dei mercati occidentali. Tra di essi figurano comparti di dimensioni gigantesche quali gli elettrodomestici; i televisori e l'alta fedeltà; i computer e i microprocessori; i telefoni cellulari; l'abbigliamento; i giocattoli.
 
In merito a tutto ciò, non risulta che quei lavoratori abbiano avuto la minima possibilità di fare sentire la loro voce, e meno che mai - salvo sporadici casi locali - di intervenire con qualche efficacia in decisioni che sconvolgevano la loro esistenza, le loro famiglie, la loro comunità. Pertanto è davvero arduo capire come il caso americano ci possa venire solennemente presentato da manager e politici italiani come una forma di modernizzazione delle relazioni industriali. È ancora più arduo capire - o forse sbaglio: è fin troppo facile - come, in Italia, tra le file dell'opposizione non si sia levata finora una sola voce per rilevare che il potere eserecitato dalle corporation sulle nostre vite configura un tale deficit di democrazia da costituire ormai il maggior problema politico della nostra epoca.

Nell'Ue possiamo coltivare ancora per qualche tempo la nostra distrazione dinanzi allo svuotamento che il sistema economico e finanziario ha effettuato della democrazia reale, grazie al fatto che tra la fine della guerra e i secondi anni Settanta robuste iniezioni di democrazia nel sistema economico sono state effettuate per via di diversi fattori concomitanti. Tra di essi ricorderei le lotte dei lavoratori e il peso che avevano allora i sindacati anche come numero di iscritti; la presenza nei parlamenti europei di robusti partiti di sinistra; il peso nelle formazioni di centro dei cattolici progessisti; un certo numero di imprenditori e di manager pubblici che preferivano affrontare con i sindacati vertenze lunghe e aspre piuttosto che buttare sul tavolo documenti della serie «prendere o lasciare». Senza dimenticare che l'ombra dell'Orso sovietico a oriente tendeva a rendere più malleabili le confindustrie di tutti i paesi dell'Europa occidentale. I risultati si sono visti. Il sistema sanitario nazionale; lo sviluppo del sistema pensionistico pubblico; le riduzioni d'orario, a cominciare dal sabato interamente festivo; il miglioramento delle condizioni di lavoro; lo Statuto dei lavoratori, rappresentarono tutti pezzi di democrazia reale che furono estorti alla grande impresa, o che essa - se si preferisce - fu indotta a concedere.
 
Ora la grande impresa si sta battendo per riconquistare il terreno perduto tra il 1950 e il 1980. Di fronte le si aprono praterie senza confini. La preoccupante ombra dell'Orso è scomparsa. I partiti di sinistra sono peggio che scomparsi: anche quando si sforzano di dire qualcosa di sinistra si intravvede subito, in Italia come in Francia, nel Regno Unito come in Germania (in questo caso, bisogna dire, con l'eccezione della Linke), che sono diventati i migliori interpreti degli interessi della grande impresa ai tempi della globalizzazione. In tutti i paesi i sindacati sono indeboliti dal calo degli iscritti - in media oltre la metà, nell'industria manifatturiera - e dalla divisione tra chi propende alla collaborazione prima ancora di cominciare una vertenza, e chi preferisce invece ragionare in termini di composizione caso per caso di un conflitto che è storicamente strutturale, e strutturalmente irrisolvibile - salvo si preveda un'uscita dal capitalismo.

Quel che si configura nel nostro paese come in tutta l'Ue a 15 è un arretramento non solo delle relazioni industriali ma dell'intero processo democratico. Un arretramento di tale portata da essersi verificato, nella storia, soltanto quando un sistema politico democratico è stato sostituito da una dittatura. A guardarlo con occhio distratto, come un po' tutti siamo inclini a fare, il percorso pare innocuo. La globalizzazione, si afferma, esige che si riducano i diritti, i salari, lo Stato sociale per fare fronte al potere economico dei paesi emergenti. La grande impresa contribuisce al percorso attribuendo ad esso un carattere di ineluttabilità: non esistono alternative; sono in gioco grandi investimenti e molti posti di lavoro; non possiamo far altro che adattarci alla logica dell'economia. In realtà, non di logica economica si tratta, bensì di potere politico. Il fatto di sottrarre progressivamente ai lavoratori ogni residua possibilità di partecipazione alla determinazione di orari, salari, condizioni di lavoro e altro preannuncia la sottrazione a tutti della possibilità di partecipare a qualsiasi decisione di qualsiasi rilevanza in qualsiasi ambito. Preannuncia, in altre parole, la sottomissione a un potere totale.

La privatizzazione di ogni cosa, dalla previdenza alla scuola e all'acqua, che sono uno degli ultimi campi da cui la grande impresa può puntare ad estrarre un valore elevato perché da noi sono campi ancora poco lavorati, è un altro passo intermedio significativo. Ed è stupefacente notare anche qui come il centro-sinistra lo consideri un tema economico, laddove si tratta di un vitale snodo politico. Privatizzare beni comuni, infatti, significa sottrarre ai cittadini un ampio terreno di partecipazione politica, di esercizio della disciplina democratica, per trasferirlo pari pari alla discrezione della grande impresa. Potrebbe quindi essere giunto il momento di discutere dei modi in cui il potere oggi debordante della grande impresa dovrebbe essere sottoposto a regole, al pari di qualsivoglia altro centro di potere. Avendo in vista un sommesso proposito: ridare vitalità, senso, contenuti quotidiani, motivi di attrazione culturale e morale all'idea di democrazia.
Il manifesto, 21 giugno 2011, p. 15

A ricalco, con la penna



Questa mattina avevo iniziato il post così:

Nelle società precapitalistiche i turbamenti dell’economia non sono dovuti all’azione di regolari leggi economiche. Si tratta di crisi che hanno invece cause accidentali dovute a catastrofi naturali, cattivi raccolti ed epidemie, oppure a cause non direttamente economiche, quali guerre e distruzioni. Non avendo ancora la produzione di merci e il relativo scambio carattere generale, non essendo ancora pienamente dispiegata la dissociazione tra produzione e consumo, e quindi non avendo la circolazione del denaro sviluppato appieno la sua funzione di mezzo generale di pagamento, le crisi economiche come le conosciamo nella nostra epoca erano allora impossibili.

Poi qualcosa o qualcuno mi ha fatto cambiare idea e ho svoltato su un altro argomento. Qui di seguito.

Se parlo, per esempio, di Senofonte, almeno devo aver letto l’Anabasi, fosse pure nella traduzione più raffazzonata del pianeta. Quando scrivo di Aristotele, non gli do dell’imbecille semplicemente perché, secondo me, non ha tenuto conto dei risultati della meccanica quantistica.

Quando invece si scarabocchia di Marx, della sua opera, del marxismo in generale, ebbene non serve aver letto nulla di prima mano, è sufficiente che l’opinione coincida, per esempio, con i truismi più vieti, con quella di qualsiasi bancarottiere della finanza o del giornalismo. Del resto nessuno ai nostri giorni, in generale, ha fatto o fa di meglio e in molte sedi e occasioni sono state dimostrate le non sorprendenti idiozie di cui sono capaci gli orecchianti del marxismo.

L’abilità di questi petulanti falsificatori è quella di diluire e perciò indebolire qualunque tesi a livello di chiacchiericcio, senza prestare la minima attenzione se ciò che dicono ha qualche effettivo valore e trova esatta corrispondenza nelle fonti originali. Quando poi capitava di leggere una citazione, una frasetta (più raramente un brano), potete star certi che essa era un prestito di quarta mano e senza riferimento bibliografico preciso. Uso il passato poiché ora c’è internet, e i furbetti estrapolano, copiano e incollano, ignorando che molte delle traduzioni sono a volte assai approssimative e lacunose. Ed è in tali casi che questa semenza dà il meglio di sé.

Essi hanno uno strano concetto di sé, anzitutto quello di definirsi a-ideologici e antidogmatici nel momento stesso che identificano, per esempio, la storia con il passato, per cui occuparsi di un qualche argomento storicamente diventa studiare questo o quel fatto del passato. La categoria dello sviluppo e del movimento ad essi è ignota così come rifiutano di considerare l’economia politica come lo studio della natura e dei rapporti di produzione delle diverse formazioni sociali, e, quindi anche dei rapporti tra le classi nelle varie società. Quindi prendere atto che l’economia politica ha un carattere di classe, cosicché l’economia politica borghese, tutt'altro che a-ideologica e antidogmatica, esprimerà il punto di vista e gli interessi della borghesia e delle sue frazioni.

Poi ci sono gli ex stalinisti d’antan, quelli che sono cresciuti a Grundrisse e camembert, gli ex proprietari del pensiero marxista, quelli che distinguono il “Marx politico” dal “Marx economico”. Ma ora basta occuparsi di gente terribilmente mediocre.

domenica 26 giugno 2011

A matita



Quindi la crisi è finanziaria? Così vorrebbero farci credere i portaborse del capitalismo, così come vorrebbero che il disastro di Fukushima fosse causa del terremoto. Nessuno verrà a raccontarci che le cause della crisi economica sono in realtà connesse all’opposizione interna tra valore e valore d’uso rinchiusa nella merce, ma preferiscono piuttosto confondere la causa oggettiva della crisi con uno dei fattori che ne accelerano il corso (*). Sono quelli che tutt'al più attribuiscono al metodo scientifico elaborato da Marx solo un modo diverso d'interpretare il mondo e non uno strumento potente per la sua trasformazione. Allo stesso modo nessuna “autorità” del cazzo verrà a dirci che le cause di Fikushima sono nel profitto che domina la ricerca, il risultato di una visione separata tra umanità e interessi economici e politici, cioè una strada che porta a tecnologie di “scissione” nate per la guerra e la distruzione, tecnologie che palesemente non sappiamo governare.

La crisi finanziaria attuale, soprattutto per quanto riguarda l’Europa, è anzitutto legata all’enorme debito degli Stati. Il mantenimento di determinati livelli di assistenza sociale, di standard dei servizi, di aiuto alle imprese, è garantito grazie ad interventi diretti e indiretti dello Stato, il quale impiega prevalentemente risorse prese a prestito sul mercato dei capitali in cambio di obbligazioni (titoli di Stato). La teoria vorrebbe che con lo sviluppo economico favorito dalla spesa statale vi fosse anche un incremento degli introiti sul lato delle imposte, in modo da mantenere il debito su livelli fisiologici accettabili. In una società in cui domina la grande proprietà questo è impossibile. Da un lato perché chi presta denaro allo Stato ha tutto l’interesse a mantenere e incrementare tale dipendenza in modo da lucrare sugli interessi, con ciò aumentando a dismisura un mercato speculativo sui titoli e i suoi derivati che provoca esso stesso motivi di enorme tensione finanziaria e crisi; dall’altro perché la ricchezza prodotta socialmente non entra mai totalmente in circolazione essendo in parte sempre crescente tesaurizzata dagli stessi capitalisti e quindi sottratta agli scopi della società. Ma soprattutto perché lo Stato non è un organismo indipendente ma uno strumento della lotta di classe in mano al capitale, per cui sia dal lato delle politiche fiscali, sia dal lato della spesa statale indotta, il capitale finanziario governa di fatto la situazione a proprio vantaggio. Succede ora che il mercato obbligazionario internazionale, cioè il mercato della speculazione sul debito, consideri l’esposizione debitoria di alcuni Stati troppo esposta e anzi in una situazione d’insolvenza sostanziale. A questo scopo, sempre tramite i suoi galoppini politici e i funzionari delle organizzazioni economiche nazionali e sovranazionali, la finanza internazionale (con l’uso delle corporation del rating, ecc.) cerca d’imporre delle misure “di stabilità” e cioè di rientro dal debito basate soprattutto sul taglio delle spese sociali, sul licenziamento dei dipendenti statali,   la svendita dei beni pubblici e la privatizzazione di ciò che resta dello stato sociale.

È evidente che tale situazione crea tensioni sociali e conflitti che diventeranno sempre più aspri e ingestibili da parte dell’ordine politico attuale con gli strumenti della repressione e i mezzi d’instupidimento ordinari. Perciò si faranno sempre più strada come necessarie delle misure straordinarie

(*) Nella crisi è in atto anzitutto la contraddizione tra valore d’uso e valore di scambio della forza lavoro in cui si fonda, nel suo sviluppo e nella sua rovina, l’intera società capitalista. Nonostante tutte le capriole degli economisti borghesi e la razza dei giornalisti falliti e dei blogger del cazzo, il tempo di lavoro vivo continua a permanere quale misura del valore di scambio e come unica fonte di valorizzazione del capitale.

Ogni giorno si possono leggere sull’argomento tonnellate di spazzatura nella quale nessun topo di fogna ha l’onestà intellettuale prima ancora che professionale di dire che non essendo il lavoro produttivo retribuito integralmente, questo crea già le condizioni dello squilibrio. È il modo sordido e meschino di questi pagliacci di concepire e misurare il lavoro solo come quello che soddisfa le esigenze del capitale e di negare la contraddizione tra valore d’uso e valore come contraddizione fondamentale del capitalismo, di non mettere in luce che a un dato livello dell’accumulazione la produzione di valori d’uso entra in contraddizione con le esigenze di valorizzazione del capitale.

Essi non solo fingono d’ignorare che le categorie economiche sono l’espressione di rapporti di produzione storicamente determinati, ma arrivano, quando arrivano, a negare la vigenza della legge del valore-lavoro nel modo di produzione attuale, adducendo magari il fatto che il lavoro vivo è divenuto una componente marginale dell’odierno processo di produzione. In altri termini, la quantità di merci prodotte appare – a questi servi – determinata non dalla quantità di lavoro erogato, ma dalla sua stessa forza produttiva. Peccato che questa pretesa fa a pugni col fatto che i padroni siano sempre più impegnati in una guerra forsennata per rubare “tempo di lavoro altrui”, e su questo punto gli apologeti dell’accademia e del sindacato tacciono, magari preferendo parlare di “competitività”.

Dalla parte dei datteri



Vi ricordate il presidente della camera dei rappresentanti americana John Boehner, quello che aveva scritto una lettera ad Obama ricordandogli che la guerra in Libia, non autorizzata dalla camera, era una guerra illegale? Poi è andato a giocare a golf con il presidente, nei giorni nei quali gli aerei e i droni della Nato sterminavano decine di civili libici innocenti. Ebbene mercoledì la stessa camera ha votato a favore della continuazione dei bombardamenti. Lo speaker Boehener ha detto che è “favorevole alla rimozione del regime libico", e di sostenere “l’autorità del presidente come comandante in capo." Non so come sia finita la partita a golf.

I bombardamenti si dovevano chiudere entro una settimana, do you remember? Al massimo alcune settimane non mesi. Questi democratici umanitari stanno facendo, assieme ai nostri aerei e alle nostre navi (nostri nel senso che li paghiamo noi), la guerra a uno stato sovrano, ad un leader, un dittatore che solo qualche mese prima, egli o i suoi figli, venivano ricevuti con tutti gli onori e gli splendori a Roma, Parigi, Londra, Washington. E tutto questo non c’entra nulla ovviamente con gli aiuti umanitari e la difesa dei civili della Cirenaica. C’entra con i datteri. Sì, perché la Libia, al pari dell’Iraq, è un grande esportatore di questi dolci frutti.

Nel documento di 32 pagine inviato dalla Casa Bianca al Congresso la settimana scorsa, Obama aveva anche affermato che i bombardamenti sulle città della Libia non costituiscono un atto di "ostilità", perché non c’è intervento diretto delle truppe e queste non corrono pericolo di ritorsioni libiche. Sulla base di tale standard, il presidente ha la possibilità di attaccare qualsiasi paese del mondo, a sua discrezione, sempre che quel Paese sia troppo debole per reagire in modo efficace.

La signora Clinton ha cinicamente dichiarato: “The bottom line is, whose side are you on? Are you on Gaddafi’s side or are you on the side of the aspirations of the Libyan people and the international coalition that has been created to support them?”

Quanto agli stupri che sarebbero stati perpetrati dalle truppe libiche suggerisco questo articolo del sempre ottimo Maurizio Matteuzzi.
Ora potete rilassarvi e prepararvi per le vacanze, signori rappresentanti della nazione più democratica del mondo. Al resto ci pensa la Nato.


venerdì 24 giugno 2011

Il ministro senza qualità


Ai vampiri non basta levarci il sangue, ci vogliono anche sfottere. Va in questo senso la proposta del solito Tremonti di ridurre le spese della casta politica e statale.

Scrive il Corriere: «Sette articoli al fulmicotone, nel tentativo di riportare la politica a quella dimensione di sobrietà (e credibilità) alla quale non si stanca di appellarsi il capo dello Stato Giorgio Napolitano».

Non si stanca di appellarsi, Giorgio Napolitano, ma vive con un appannaggio come neanche le monarchie d’Europa.

E vediamo i sette punti, tutt’altro che definitivi. Anzitutto quando una norma che fissa un principio al primo comma, stabilisce poi un’eccezione al comma successivo, di solito è una bufala (vedi molti articoli della costituzione, per esempio). Questa bozza nel suo complesso e ancor più nel dettaglio esemplifica i sintomi della malattia mortale di cui è affetta l'Italia: la stupidità di chi prende ancora sul serio i gaglioffi che a vario titolo ci governano da 150 anni.

Il primo articolo al fulmicotone riguarda i “compensi pubblici”, i quali non dovranno essere superiori a quelli erogati per i “corrispondenti titoli europei”. Cosa significa “compenso”, cosa comprende e cosa no? Quali indennità, diarie e rimborsi spese vi sono compresi? E se invece di “compenso” si fosse usata un’altra terminologia, quale per esempio “l’ammontare complessivo degli emolumenti, indennità e rimborsi comunque percepiti”? E quanto ai “titoli”, mentre dovrebbe essere semplice l’equiparazione di un deputato italiano con un collega degli altri parlamenti europei, molto meno pacifica è la parametrazione tra qualifiche tra i vari livelli amministrativi. Ma soprattutto Tremonti non stabilisce una “media”, ma solo che non si “può superare” il massimo europeo. In questo modo ci troveremo, in alcuni casi, con delle richieste di aumento dei “compensi” per “riposizionarli” sull’Europa.

Inoltre, va chiarito che ai sensi dello statuto unico entrato in vigore nel luglio 2009, i deputati al Parlamento europeo percepiscono, in generale, la stessa retribuzione. Sarebbe stato invece utile che la normativa italiana, per quanto riguarda il famigerato vitalizio (pensione), si uniformasse a quella europea: gli ex deputati avranno diritto a una pensione al compimento del 63° anno di età. La pensione ammonterà al 3,5% dell'indennità per ogni anno compiuto di esercizio del mandato, sino a un massimo complessivo del 70%. Bastava copiare, ministro.

Secondo articolo: auto blu. Si riduce la cilindrata, la quale non può essere superiore a 1600 cc., eccetto le auto blindate. Dubito, se entrerà in vigore il provvedimento, che la cilindrata massima resterà tale.  Questo provvedimento mira solo al contenimento dei consumi di carburante (forse) ma non alla riduzione del numero delle auto, degli autisti e delle scorte. Con le solite eccezioni che poi diventeranno la regola: chi potrà dire a un prefetto o un questore di non aver diritto ad un’auto blindata per ragioni inerenti il suo ufficio?

Terzo articolo riguarda i voli di Stato. I quali devono essere limitati ai presidenti della repubblica, delle camere e del consiglio. Le “eccezioni” andranno autorizzate. La normativa vigente, a ben vedere, cioè il P.C.M., direttiva 21.09.2007, G.U. 24.09.2007, fissa già questi limiti e le eccezioni. Basta leggere, ministro. Il problema, appunto, come ogni cosa del resto, sono le eccezioni che diventano regola.

La perla del “provvedimento” Tremonti sta però all’articolo sei: la riduzione (non quantificata) del finanziamento pubblico dei partiti. Sbaglio o c’era stato un referendum?

Serve sangue, sempre dello stesso gruppo


Quel che si sta tentando di mettere in piedi, con tutte le procedure levantine del caso, è una “nuova” fase politica di destra rinominandola diversamente.

La situazione dei conti pubblici è  nota, serve sangue, sempre dello stesso gruppo sociale: salariati, pensionati, ceto medio. Per il momento stanno provvedendo nel modo canonico: tagli nella scuola, sanità e soprattutto pensioni: 65 anni per le donne del privato, 67 per i maschi (la CGIL parla in realtà di 70 anni), aliquota Irpef del 33% per i lavoratori atipici (molti sono i più “sfigati”), quindi altri balzelli a bischero sciolto tanto per alzare fumo.

Berlusconi (nel 2010 ha guadagnato 2,5mld (miliardi!) di euro, fa il pesce in barile, dicendo di non voler mettere le mani in tasca agli italiani, gli basta metterlo in culo ai soliti. Tra il 1995 e il 2008 i profitti delle maggiori imprese sono aumentati del 75,4%, mentre i salari sono finiti al 23° posto di una classifica di 30. La Lega, molti dirigenti della quale non supererebbero il test Invalsi di terza media, chiede la riforma fiscale, ben sapendo che l’unica iniziativa efficace sarebbe la confisca dei patrimoni dei grandi evasori e il carcere.

I Grandi Ricchi illuminati, come Eugenio Scalfari, chiedono una patrimoniale. Colpirà soprattutto il ceto medio: redditi fissi, bilocali al mare, il filare di lamponi ereditato dai genitori. Sui mega panfili battenti bandiera panamense si ride, ancora una volta, a crepapelle. Nelle isole Cayman, Narau, Antigua, Sark, ecc. invece sono preoccupatissimi, problemi di couvée: la qualità della vendemmia nello Champagne non si preannuncia all’altezza di quella dell’anno prima.

giovedì 23 giugno 2011

Senza rischiare il collo

L'Agenzia internazionale dell'energia atomica ha comunicato che una quantità record di 30,6 miliardi (sì, miliardi) di tonnellate di anidride carbonica è stata rilasciata in atmosfera lo scorso anno. I cosiddetti leader mondiali (tra i quali Berlusconi e Sarkozy, pensa un po’) se ne fottono. Del resto i vertici di Bali, 2007, di Copenaghen, nel 2009 e il vertice di Cancun nel 2010 sono finiti in farsa. Nessun accordo sulla riduzione delle emissioni vincolanti è stato possibile, in quanto i governi non possono andare contro gli interessi delle corporation. La prossima presa per il culo s’avrà a dicembre, quando i supposti leader mondiali si incontreranno a Durban in Sud Africa. Discussioni preparatorie sono in corso a Bonn, in Germania, ma i principali leader statunitensi ed europei hanno già escluso qualsiasi possibilità di negoziare un accordo giuridicamente vincolante sulle emissioni. È la democrazia del denaro.

Dopotutto il riscaldamento delle regioni artiche viene visto dagli Stati Uniti, Canada, Danimarca (leggi Groenlandia, la più grande isola del pianeta) e Russia come un’opportunità per il controllo delle riserve petrolifere nuovamente accessibili e nuovi corsi d'acqua. Come dimostrato dai cablo diplomatici statunitensi recentemente pubblicati da Wikileaks, il governo danese è favorevole per discutere apertamente una "divisione" della regione artica, così come la Russia si prepara ad una aspro conflitto per il controllo delle zone interessate. Nessun piano razionale e concordato può essere accettato dalle grandi potenze la cui rivalità per il controllo dello spazio economico e l’egemonia è in continuo aumento.

Agli irresponsabili criminali che reggono le sorti di questo pianeta a nome e per conto del grande capitale, non frega nulla che il cambiamento climatico non è un fenomeno lineare e che un aumento della temperatura può improvvisamente produrre cambiamenti improvvisi e irreversibili di dimensioni inedite. Lor signori eseguono semplicemente gli ordini. Come quelli di Norimberga, ma senza rischiare il collo.

mercoledì 22 giugno 2011

Warhol chi?


Al via oggi nella scuola media secondaria l’apoteosi della non cultura.

* * *
Frattini: fine della missione in 3/4 settimane. Il ministro degli Esteri: è un'ipotesi realistica, ma c'è anche chi è più ottimista e parla invece di pochi giorni (6 maggio).

Diciottobrumaio: “non è verosimile che una coalizione di fantasmi riesca a combinare qualcosa di buono in Libia” (7 maggio).

Frattini: «fondamentale la cessazione umanitaria delle azioni armate per consentire aiuti immediati». Un immediato blocco delle ostilità, ha sottolineato il titolare della Farnesina «che consentirebbe di evitare quello che il Consiglio nazionale transitorio teme: la consolidazione della spartizione in due della Libia (oggi).
* * *
Trentamila truppe in più contro il «cancro di al Qaida», ma con la promessa che il “tutti a casa” incomincerà nel luglio 2011: nell’accademia militare di West Point, il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha annunciato la nuova strategia in Afghanistan e Pakistan, affermando che i massicci rinforzi sono «nell’interesse nazionale dell’America» (dicembre 2009).

Sulla cifra finale i dubbi sono ormai pochi: secondo indicazioni concordanti, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama annuncerà domani sera in diretta tv dalla Casa Bianca alle 20.00 (le 02.00 italiane di giovedì) il ritiro di circa 30mila militari Usa dall'Afghanistan entro il 2012, ovviamente se la situazione sul terreno lo permetterà (luglio 2011).
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Il ministro dell'Ambiente si sfoga poi il 15 novembre 2010 con Bisignani: a proposito del premier dice che «Deve essere intelligente e purtroppo non lo è».

Per farla ministro ci voleva uno così.

Della democrazia, ovunque


«La collezione di Giorgio Armani per la prossima estate è tutta dedicata alla leggerezza. Ma le sue parole sono dure: "La moda di oggi è in mano alle banche. I marchi fashion, infatti, non appartengono più ai loro proprietari"». Ci voleva un sarto, sia pure di gran lusso, per ricordarci che il capitale finanziario (che egli sbrigativamente chiama “bancario”) ha inglobato i settori del capitale industriale, commerciale e bancario. Insomma il credito, la produzione e la rete di commercializzazione sono controllati direttamente da un pugno di corporation e nei consigli di amministrazione di diverse società e rami differenti di attività partecipano quasi sempre gli stessi singoli soggetti, funzionari del capitale, i quali transitano con estrema indifferenza dal settore privato a posti chiave nell’ambito delle organizzazioni sovranazionali di controllo e vigilanza.

Il comando del capitale finanziario, cioè del capitale unificato, nel mentre lotta per “la libertà di commercio” su ogni scala dello spazio economico, ha come base il superamento della libera concorrenza dei singoli capitalisti (la quale ovviamente è in contrasto con il monopolio), e cambia anche la natura stessa del rapporto tra la classe padronale e il potere statale. La sostanza del liberismo è l’agire senza vincoli, di rendere “libera” e disponibile non solo la forza-lavoro (accelerare il processo di proletarizzazione su scala mondiale e mutare i rapporti tra le classi) ma qualsiasi attività precedentemente gestita o partecipata dalla Stato. È il comando sull’intera economia e quindi sullo Stato e la società.

Lo Stato resta mero titolare dei beni e servizi pubblici, ma la loro gestione, cioè il controllo e la rendita (es.: la fissazione dei prezzi) diventano monopolio dei grandi gruppi finanziari che si spartiscono la torta. Se prima si doveva subire l’invadenza dello Stato, ora che questo (in Italia meno, ma ancora per poco) ha abdicato a favore del “libero” mercato, i suoi “cittadini” dovranno vedersela con i nuovi padroni del pianeta, cioè con i loro fantasmi. La mediazione politica e delle organizzazioni statuali o di rappresentanza è sempre più ridotta a rappresentazione mediatica, simulazione, con uno svuotamento di senso della “democrazia” e dei partiti.

Si poteva leggere ieri su il manifesto queste parole di Luciano Gallino in un articolo, a pagina 15, di grande interesse:

«Le leggi escono dal Congresso, ma le indicazioni per scriverle provengono notoriamente dalle corporation industriali e finanziarie. Le quali hanno speso tra l'altro 500 milioni di dollari per sostenere nel 2008 la campagna elettorale di ambedue i candidati alle presidenziali; 300 milioni per rendere il meno incisiva possibile la riforma di Wall Street del 2010; e altrettanti per tentare di bloccare la modesta riforma sanitaria voluta dal presidente Obama. Con la previsione che, essendo mutata nel novembre 2010 la composizione del Congresso, quasi sicuramente vi riusciranno nel prossimo futuro».