sabato 29 febbraio 2020

Autovirus



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D’accordo, il concetto è chiaro, ma la metafora fa “acqua” su un punto. La quantità d’acqua (infettati) è la stessa nei due casi: il grafico mostra come l’assenza di misure di contenimento (zona rosa) concentri la quantità (tsunami che mette in ginocchio il sistema sanitario); in caso di misure di contenimento, zona azzurra, la stessa quantità d’acqua viene diluita nel tempo (mareggiata), riducendo il picco ma non la quantità. Invece il contenimento oltre a diminuire il picco dovrebbe diminuire anche la quantità (come dimostra l'esperienza nei casi di contagio).

Giorno bisestile, l'errore del calendario



Il giorno bisestile debuttò nell’anno 45 dell’evo classico (e non il 46 come riportano in molti), ossia quando Giulio Cesare, nel tentativo di far coincidere l’anno civile con quello solare, riformò il vigente calendario romano. Nonostante laggiustamento, nel calendario giuliano cera uno scarto di 11 minuti e 14 secondi rispetto allanno solare, che ha determinato nei secoli differenze notevoli.

Regnante papa Gregorio XIII venne accorciato l’anno 1582 di dieci giorni per rimettere le cose a posto: il 5 ottobre fu seguito dal 14 ottobre. 

Il calendario gregoriano ha introdotto la regola secondo la quale gli anni la cui numerazione è multipla di 100 sono bisestili soltanto se essa è anche multipla di 400: vale a dire, sono stati bisestili gli anni 1600, 2000 e lo sarà il 2400, mentre non lo sono stati gli anni 1700, 1800, 1900, e non lo saranno il 2100, 2200, 2300 (infatti si salta dal 2096 al 2104, dal 2196 al 2204, ecc.). Tutti gli altri anni la cui numerazione è multipla di 4 rimangono bisestili.

Questa è l’unica differenza, come spiegavo in questo post, tra il vecchio calendario giuliano e quello attuale. In pratica il calendario attuale omette 3 giorni intercalari ogni 400 anni, in modo da annullare quel precedere l’anno solare di 1 giorno ogni 128 anni, precedere dovuto, nel giuliano, al bisestile con cadenza sempre uguale, cioè sempre quadriennale

Il calendario giuliano, come spiegato nel post segnalato, ebbe il merito di mettere ordine nel vecchio calendario romano che dava luogo a difficoltà di calcolo e grande confusione. Per tale motivo l’anno fu diviso in 12 mesi, di 30 e 31 giorni, febbraio di 28 diventava bisestile ogni tre anni e il giorno aggiuntivo cadeva sei giorni prima delle calende di marzo (Kal. Mart. = 1° marzo), in tal modo il bix sestum raddoppiava precisamente il 24 febbraio. Nel tardo Impero prese il nome l’anno intercalare stesso, annus bissextus. Il 46 fu l’ultimo anno caotico prima dell’entrata in vigore del calendario giuliano. Per poter iniziare il suo nuovo anno riformato, Cesare ha dovuto prolungare l’anno 46 di 90 giorni, ed ecco perché quell’anno con i suoi 445 giorni fu chiamato “annus confusionis ultimus”.

Morto Cesare, venne in luce un errore di calcolo, scoperto dai sacerdoti che, fraintendendo le istruzioni di Sosigene di Alessandria, avevano intercalato l’anno bisestile ogni tre anni invece che ogni quattro (*). 

La lunghezza dei mesi, contrariamente alla teoria sostenuta in epoca medievale dello storico inglese Giovanni Sacrobosco, è oggi la stessa dell’anno 45.

(*) Plinio il Vecchio, Libro XVIII: “Cesare dittatore regolò i singoli anni sul corso del Sole avvalendosi di Sosigene che era specializzato in questa scienza; e quella stessa regola fu in seguito corretta avendovi scoperto un errore, sospendendo l’intercalazione per dodici anni di fila, poiché l’anno stava cominciando a ritardare rispetto alle stelle, che prima precedeva”.

venerdì 28 febbraio 2020

Recidive virali



È sotto gli occhi di tutti il successo del modello economico fondato sul capitale privato e la libera iniziativa, ossia ciò che costituisce il vanto della società borghese che di tale modello è l’espressione storica. Ogni tentativo finora compiuto di superare questo modello dal lato della socializzazione dei mezzi di produzione ha prodotto fallimenti.

Quale potente e inarrestabile dinamica è alla base di questo straordinario risultato del modello capitalistico? La varietà delle risposte in campo di spreca, ma quella che conta è questa: la necessità di valorizzazione del capitale, il processo di accumulazione e la lotta tra i diversi capitali per il profitto, comporta l’incessante rivoluzionamento della produzione, spingendo il capitale a sussumere a sé la scienza per aumentare, con l’impiego di nuove tecnologie e migliori tecniche, la produttività del lavoro e abbattere i costi di produzione.

Rendere i salariati forza crescente di valorizzazione del capitale è stata la più essenziale molla dello sviluppo della scienza e della tecnologia che ha portato la società borghese ai trionfi di oggi. Se non s’intende questo e s’insiste, per contro e quale alternativa al capitalismo, nella mera riproposta della statalizzazione dei mezzi di produzione, significa restare appesi alle ubbie del passato, peraltro in opposizione a Marx.

giovedì 27 febbraio 2020

«Scusate, abbiamo esagerato»



Cioè?



Chi ha sbagliato, dove, quanti falsi positivi?



Il decreto legge sull'emergenza coronavirus approvato alla Camera dice il contrario riguardo i musei.


Dio me l'ha dato, guai a chi lo tocca.

mercoledì 26 febbraio 2020

Più pericolosi del coronavirus


Dopo aver scatenato il panico, ora vorrebbero fermarlo, e ciò più per ragioni economiche e di gestione dei flussi ansiogeni che per altro. C’è quasi da sospettare che siano davvero degli stupidi. A sentirli chiacchierare in televisione il sospetto diventa certezza. De Gasperi e Togliatti non parlavano quasi mai a braccio, sapevano bene quale peso avessero le parole dette in pubblico. Oggi chi ha responsabilità politiche o di governo si sente autorizzato a rendere pubblica qualsiasi cosa gli passi per la testa, salvo far seguire smentite e precisazioni che non smentiscono e non precisano.

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lunedì 24 febbraio 2020

Dopo l'assalto ai forni, diamoci una calmata


Premesso che, come molti, non ho alcuna competenza specifica per quanto riguarda il virus che sta tanto allarmando, tuttavia cerco di capire, per quanto possibile e sulla base dei dati disponibili, cosa stia effettivamente accadendo a livello generale, anche perché gli assalti ai supermercati mi paiono dovuti a una psicosi che le autorità centrali e locali avrebbero potuto contenere con una più corretta informazione sui reali rischi di una eventuale remota quarantena generale.

L'epidemia di coronavirus è grave, ma per ora non è assolutamente paragonabile nei suoi effetti per esempio alla pandemia del 1918-‘19. Le stime dell'OMS sulla mortalità si basano sulla divisione del numero di vittime del coronavirus per il numero d’infetti confermati. Un metodo, forse per ora l’unico possibile, che presenta molte incertezze, poiché, per esempio, in molti casi le vittime sono persone anziane già affette da serie o gravi patologie e che avrebbero potuto soccombere anche con una normale influenza.

Sui dati di ieri è confermato che un totale di 78.993 persone sono state infettate dal coronavirus a livello globale, vale a dire lo 0,005 della popolazione cinese e lo 0,0001 di quella mondiale. In Italia, ad oggi, 233 infettati accertati, pari allo 0,00038 per cento della popolazione. Pertanto, senza sottovalutare il rischio, esistente, è il caso di darsi una calmata.

domenica 23 febbraio 2020

Un’autentica follia


Quella del 1957 non me la ricordo ma dicono che me la beccai, mentre l’influenza del 1968 me la ricordo benissimo e però la scansai. E non feci nulla per scansarla, anzi già allora frequentavo luoghi non proprio asettici, come i cinema d’infima visione, o la libreria antiquaria di Giorgio Rigattieri, giusto dove s’incontrano calle della Mandola e quella de la Cortesia, ossia a metà strada tra i campi Manin e Sant’Anzelo.

Il vecchio era basso di statura e tarchiato, col toscano sempre indeciso tra acceso e spento, una tosse perenne e catarro bronchiale. Non gl’importava chi fosse presente, scatarrava direttamente sul pavimento eroso presso la sua scrivania. Vi trascorrevo delle buone mezzore e però non mi degnava d’attenzione, ma poi di buon cuore arrotondava sul prezzo dei libri che sceglievo, ossia i classici romanzi e biografie che si leggono nell’adolescenza, usati e di poco prezzo, che scovavo sugli scaffali seminascosti nel piccolo antro prospiciente il cesso. 

Quell’influenza del 1968-’69 mise a letto più della metà degli italiani, provocò nel mondo tra i 750.000 e 2 milioni di morti, circa 33.000 dei quali negli Usa e moltissimi anche in Italia. Non vi furono code sovietiche davanti ai supermercati, quarantene e mascherine, maratone televisive e simili. Nel caso ci si metteva a letto e si aspettava che passasse. A quelli malmessi di salute poteva andar peggio e amen.

Quella del 1968-’69 è considerata un’epidemia di media gravità. Quella attuale, il coronavirus, ha contagiato a oggi 79.000 persone, ma con ogni probabilità molte di più, con circa 2.470 decessi stando alle cifre ufficiali, vale a dire il 3,12 per cento degli infetti. Un dato abbastanza fisiologico, e però ci hanno proibito di festeggiare il carnevale per scatenare in sua vece un’autentica follia.

Nous allons tout devenir fous, c’est sûr


Nella maggior gravità del morbo non si vide che un caso in cui i sentimenti umani furono più forti della paura d’una morte straziante. E non furono due amanti, come ci si poteva aspettare, gettati dall’amore l’uno verso l’altro, al di sopra nella sofferenza: si trattava soltanto del vecchio dott. Castel e di sua moglie, sposati da molti anni. La signora Castel, pochi giorni prima dell’epidemia, si era recata in una città vicina. Nemmeno era una di quelle famiglie che offrono alla gente un modello di felicità esemplare, e il narratore è in grado di dire che, secondo ogni probabilità, quei coniugi, sino ad allora, non erano ben sicuri di essere soddisfatti della loro unione. Ma la separazione brutale e prolungata li aveva condotti ad accertarsi che non potevano vivere lontani l’uno dall’altro, e che, in confronto di questa verità venuta in luce all’improvviso, la peste era poca cosa.

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Cottard raccontava che un grosso bottegaio del suo quartiere aveva fatto una scorta di prodotti alimentari per venderli ad alto prezzo, e che si trovarono scatole di conserva sotto il suo letto quando erano andati a prenderlo per portarlo all’ospedale. “E vi è morto. La peste, quella non paga”. Cottard era pieno di tali storie, vere o false, sull’epidemia. Si diceva, a esempio, che al centro, una mattina, un uomo, coi segni della peste, nel delirio della malattia si è precipitato fuori per gettarsi sulla prima donna incontrata e abbracciarla gridando di avere la peste.

“Bene”, notava Cottard con tono leggero, in contrasto con la sua affermazione, “diventeremo tutti pazzi, è certo”.

venerdì 21 febbraio 2020

Come i gatti sull'Aurelia


In questo sito potete trovare i dati più aggiornati sul coronavirus a livello mondiale. 

Forse cominceremo ad avere una pallida idea di che cosa è stata e continua a essere l’emergenza coronavirus in Cina e quali giganteschi problemi hanno dovuto affrontare da quelle parti (vedremo, in caso qui da noi la faccenda sfugga di mano, cosa ci racconteranno i cialtroni in bretelle). Non ultimi i problemi economici e finanziari. Grandi aree dell’economia cinese sono ancora bloccate a causa dell’epidemia, con le stime di crescita del primo trimestre ridotte, in alcuni casi allo zero.

… et in pulverem reverteris!


Il post è stato lievemente modificato in data 23/2.


Ieri ho partecipato a una conferenza presso una biblioteca pubblica a riguardo delle cosiddette Dat, ovvero le Dichiarazioni di volontà anticipate per i trattamenti sanitari, che, dopo due anni dall’approvazione (legge, 2 dicembre 2017, n. 219, pubblicata in G.U. n. 12 il 16 gennaio 2018 ed entrata in vigore il successivo 31), dal 1° febbraio scorso trova effettiva applicazione.

A latere, ho spiegato, per chi non lo sapeva (ed erano molti), come avviene tecnicamente la cremazione dei cadaveri (e, successivamente, dei resti mortali esumati nei cimiteri dopo il periodo di concessione). Nel Veneto si arriva ormai quasi al 50% di cremazioni, e nella provincia di Bolzano, mi dicono, a punte dell’80%.

Cosa si può leggere sul famigerato e ognipresente “internet”?

“Dopo un paio d’ore, l’operatore, che può controllare l’interno del forno mediante uno spioncino, spinge dall’esterno i resti verso una zona di raffreddamento. Da lì vengono raccolti e posti su un setaccio a vibrazione, che elimina le polveri più fini. Quindi con una calamita viene separato il materiale metallico rimasto (chiodi della bara, eventuali protesi, ecc.). Infine le ceneri rimaste vengono raccolte e sigillate in un’urna, consegnata ai parenti”.

Dunque le ceneri sono consegnate ai parenti. Si tratta in prevalenza del prodotto delle ossa poiché delle parti "molli" non rimane praticamente nulla. Le ossa nella combustione subiscono  una specie di cristallizzazione, perciò sono successivamente passate in una macchina dotata di un rullo compressore che le frantuma a dovere. Insomma, un vero e proprio trattamento industriale!

Ciò avviene, come detto, per i cadaveri, ma poi può avvenire anche per i resti mortali esumati nei cimiteri al termine delle concessioni (DPR 15 luglio 2003, n. 254), che la legge attuale vieta siano perpetue. Il fenomeno degli inconsunti esumati è molto rilevante, negli ultimi decenni si arriva in certi luoghi al 70-80%. 

Lo sversamento delle ceneri, cioè di quelle non richieste o inserite nell’urna (ne contiene al max 5 kg.) o comunque di quella parte che non è consegnata per una sistemazione privata, sono avviate, giocoforza in forma massiva, anonima, indistinta e promiscua in apposita area di smaltimento (DPR 10 settembre 1990, n. 285 e circolari applicative).

Che dice al riguardo il Catechismo della Chiesa cattolica?

Art. 990 – Il termine “carne” designa l’uomo nella sua condizione di debolezza e di mortalità. La “risurrezione della carne” significa che, dopo la morte, non ci sarà soltanto la vita dell’anima immortale, ma che anche i nostri “corpi mortali” (Rm 8,11) riprenderanno vita.

Non resta che rintracciarli.

mercoledì 19 febbraio 2020

Politica estera




Pare che la Corsica chiederà l’annessione all’Italia.

Né l'attesa, né l'ottimismo



A Napoleone poteva andare peggio. Se Sant’Elena è sperduta in mezzo all’Atlantico, molto più a sud c’è Tristan da Cunha, davvero un’isola fuori dal mondo.

Tristan da Cunha, dell’omonimo arcipelago dell’Oceano Atlantico meridionale, è un’isola vulcanica attiva di forma circolare con una superficie di 78 km quadrati, di difficile approdo per le navi, spazzata da venti di forza inaudita, capaci di spostare pietre di grandi dimensioni. Di questo arcipelago Tristan è l’unica isola abitata (250 ab. nel 2018), dista 2.810 km da Città del Capo e a 2.172 km a sud dell’isola di Sant'Elena.

In un’occasione Tristan rimase per quattro anni interi completamente isolata. In un inverno morirono di fame trecento mucche. Gli isolani si davano i turni per avvistare navi all’orizzonte e quando finalmente ne scorsero una, molti uomini si lanciarono all’inseguimento su diverse barche nonostante il mare in tempesta. Non raggiunsero la nave e non tornarono. Rimasero nell’isola donne, anziani e bambini e il Regno Unito offrì loro l’opportunità per trasferirsi in Inghilterra, ma il rifiuto fu categorico.

Nel 1961, la terrà tremò e un’impressionante colata lavica lambì il villaggio generando un paesaggio lunare. Tutti gli abitanti furono trasferiti in Inghilterra dove si offrì loro accoglienza, lavoro, abitazioni e si tentò di convincerli a restare. La decisione dei tristanesi fu sostanzialmente unanime e nel 1963 ritornarono sulla propria isola.

La vita economica sull’isola fu improntata per molto tempo ad un elementare forma di comunitarismo, con la distribuzione equanime dei prodotti dell’allevamento e della agricoltura. Ciò fu reso possibile dalla scarsità della popolazione, dal limitato prodotto disponibile, dalla ridotta divisione del lavoro, ecc..

All’opposto di queste primitive condizioni economico-sociali, una società di tipo completamente nuovo diventerà non solo possibile ma costituirà l’approdo storicamente ed economicamente necessario quando saranno raggiunti livelli elevati di sviluppo tecnologico, di produttività del lavoro e di massima concentrazione dei mezzi produttivi. Ossia quanto il lavoro in forma immediata tenderà a cessare di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro di essere la sua misura e il pluslavoro della massa cessarà di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale. Malgrado le apparenze sembrino contraddire tutto ciò, è proprio quello che poco alla volta si sta facendo strada già a partire dalla nostra epoca.

Ovviamente perché tutto ciò s’avveri non basterà né la paziente attesa né il semplice ottimismo.

martedì 18 febbraio 2020

Un amico dell’uomo comune



Il miliardario Michael Bloomberg (un patrimonio di 60 miliardi di dollari) ha speso oltre 300 milioni di dollari in pubblicità televisive e su internet per presentarsi come “Mike”, un combattente per il progresso e un amico dell’uomo comune.

La campagna pubblicitaria di Bloomberg comporta distorsioni così grottesche che un commentatore ha ricordato la massiccia campagna pubblicitaria della Ford Motor Company, agli inizi della televisione, per promuovere un nuovo entusiasmante modello chiamato Edsel, probabilmente l'auto più brutta e senza successo mai prodotta.

Bloomberg spende in media oltre 1 milione di dollari il giorno solo per le pubblicità su Facebook. Prima delle primarie del 3 marzo dette “Super Tuesday”, quando ci saranno le votazioni in 14 stati, Bloomberg avrà speso 40 milioni di dollari in pubblicità televisiva e su Internet solo in California, 33 milioni in Texas, 9,5 milioni in Carolina del Nord e 6 milioni in Massachusetts . È l'unico candidato presente nelle trasmissioni televisive in Virginia e Alabama. Ad eccezione del miliardario Tom Steyer, nessun altro candidato democratico ha finora speso 10 milioni complessivi nei 14 gli stati nei quali si svolge la competizione.

Negli Usa non c’è un tetto alle spese elettorali, ma chiunque può concorrere democraticamente a qualsiasi carica pubblica. È per questo che chiamate gli Stati Uniti la “grande democrazia”?

Scriveva Luciano Canfora che il sistema è dominato da “un’oligarchia dinamica incentrata sulle grandi ricchezze ma capace di costruire il consenso e farsi legittimare elettoralmente tenendo sotto controllo i meccanismi elettorali” (La democrazia, p. 331).

lunedì 17 febbraio 2020

Puttanieri



Il mondo è caduto in un’imbecillità quanto mai dannosa nel momento in cui nel suo insieme sta acquisendo i mezzi che sembrano renderlo più intelligente. E come ben sappiamo questo non è l’unico paradosso dell’epoca presente.

Coloro che si sentono inguaribilmente attratti delle diuturne e snervanti “polemiche” televisive che costituiscono la principale attività degli eunuchi del potere, vale a dire di quei puttanieri che campano di simili spettacoli, provano una volta di più di non avere alcun potere sulla propria vita e di non aver imparato nulla riguardo la natura del potere e dei suoi mercenari, i quali si esibiscono temerari perché sanno bene di non avere motivo di paura. Il coraggio e la viltà producono per qualche istante effetti simili.

Non aspettano che l’occasione per vestirsi in gran fretta della toga dei giudici del bene e del male, ricaricati come un vecchio orologio a cucù per scandirci sempre le stesse banalità, con la stessa tronfia e affettata convinzione dei sacerdoti in una chiesa. Cariatidi che sostengono il tempio consacrato, estremisti del consenso e fanatici della legalità, rispettati mistificatori di tutte le menzogne e gli abusi correnti, critici laterali e compiaciuti di un sistema da cui ricevono lauti compensi.

Diceva Georg Christoph Lichtenberg di non conoscere un uomo al mondo che essendosi trasformato in canaglia per 1000 talleri, avrebbe preferito restare un onest’uomo per metà della somma.

venerdì 14 febbraio 2020

A me sembra poco




Il sindaco ha respinto la mozione con la motivazione che “l'unico modo per debellare l’ideologia sbagliata del fascismo è dimostrare con i fatti che la nostra idea di Stato, liberale e democratico, è quella giusta, è una mozione strumentale e anacronistica”.

Il sindaco ha ragione sull’anacronismo, ma non credo che la vera motivazione del respingimento della mozione sia stata questa. Nel dopoguerra sarebbe bastato un codicillo di poche righe perché della toponomastica, dei simboli e degli “onori” tributati a gerarchi e collaborazionisti fosse fatta piazza pulita (non lo face l’arti 4 della l. Scelba, circoscritto poi dalla decisione della corte cost. nel 1956). Neanche questo è stato fatto. Nella "barbara" Germania ti sbattono dentro, punto. Togliatti, ministro della Giustizia, ebbe solo fretta di amnistiare e reintegrare, oltre che avallare l’art. 7 della Costituzione (dunque entro i principi fondamentali di essa!) come piaceva alla DC e ai cattolici nell’ombra del suo stesso partito.

Debellare l’ideologia sbagliata del fascismo! Solo sbagliata? Fanculo. Quello che rattrista di più è vedere la gente che cerca, da una parte o dall’altra, le proprie idee entro il mercato, che offre molto spettacolo e nessuna vera nuova idea. Da un’alienazione all’altra, non sanno più in quale vuoto lanciarsi.

“E quando la sorte fa che il popolo non abbi fede in alcuno, come qualche volta occorre, sendo stato ingannato per lo addietro o dalle cose o dagli uomini, si viene alla rovina di necessità (Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio).

L’ideologia del fascismo fu ritenuta giustissima da buona parte degli italiani, e oggi in molti la rimpiangono, apertamente o sottotraccia, per le “cose buone” fatte dal regime: “Ah, quando c’era Lui, cara signora, allora sì che le cose funzionavano e i delinquenti finivano e restavano in galera!”. E il loro capo a palazzo Venezia. È la fatalità, non tutta italica per la verità, di vestirsi da reazionari con nonchalance. Chi vuoi che se lo ricordi o che gl’interessi che cos’è stato veramente il fascismo.

È vasto il corollario di luoghi comuni sul regime anteguerra, come dimostra il libro di Francesco Filippi, Mussolini ha fatto anche cose buone. Sottotitolo: Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo. Una delle bufale che mi ha divertito di più, che non conoscevo, è quella su “Mussolini impose uguali diritti per uomini e animali”(p. 122). Vero, soprattutto a riguardo di certi sottouomini. Non solo oppositori ed ebrei, ma penso anche agli etiopi e ai libici. Carne umana anche quella, o no?

Stanchi della malavita elettoralmente imposta, gli italiani nel tempo si sono dati a questo e a quello, anche a Berlusconi. Ve lo ricordate? Suvvia, almeno una volta l’avrete votato. E ancor prima il voto ad Almirante. Ricordate il ”voto di protesta”, come fu chiamato nel 1972? Tre anni durò quel “dibattito”. Il buon cittadino, che impreca e dubita, vota sempre, attratto come un pesse bauco dalle acciughe o come le mosche dai meloni.

Volete dopo un secolo togliere l’”onore” a Mussolini per offrirlo poi a chi? Ad Almirante, rispose Verona. Almirante che fu capo di gabinetto al ministero della Cultura Popolare proprio in quella vicina Salò, e poi fondatore del partito neofascista in età repubblicana. A lui vogliono titolare una via. A me pare poco, sarebbe meglio un piazzale.

giovedì 13 febbraio 2020

Disobbediente


Disobbedisco, di Giordano Guerri sull’avventura fiumana di D’Annunzio, è un libro sincero e seducente quanto può esserlo un romanzo ricco di personaggi e fatterelli curiosi raccontati con una scrittura leggera e scorrevole (*). Chi lo legga può farsi l’idea, se già non l’aveva, di un uomo divorato dal proprio mito, un “orchestratore di suggestioni” che per sfuggire la noia si mise a capo di tutti gli spostati e adepti della vita pericolosa.

Gli va riconosciuta l’intuizione che quella effimera capitale della perturbazione poteva essere il labirinto migliore per trattenere quel genere di viaggiatori che in quelle poche strade avrebbero scoperto il punto culminante del tempo.

Se D’Annunzio fosse stato davvero disobbediente avrebbe dovuto ammettere che non potevano più esserci né poesia né arte e che si stava tentando di trovare di meglio. Non fu così illuso, neanche per un solo istante, di credere che la cosiddetta Reggenza del Carnaro potesse durare, perciò decise per il carnevale, di dar sfogo ad ogni mascherata e fondo a tutti i coriandoli, di riservare a sé e di recitare fino all’ultimo la parte dell’incantatore di serpenti.

(*) Anche troppo leggera e a volte involontariamente esilarante, come quando scrive: “Partì in treno, anticipando pure in questo i capi sovversivi Lenin e Mussolini” (p. 19). L’accostamento mi sembra perfetto: l’arrivo di Vladimir Il'ič alla stazione Finlandia con quello di D’Annunzio a Quarto. Quanto alle note si va per il solito modo in questo genere di letteratura. Cercavo, solo per fare un esempio, qualche riferimento circa il narrato mancato incontro tra Gramsci e D’Annunzio. Nulla.


mercoledì 12 febbraio 2020

L’amante del Premier




Quando Wilson fece piangere Vittorio Emanuale Orlando


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Frances Louise Stevenson (7 ottobre 1888 - 5 dicembre 1972) a scuola aveva fatto amicizia con Mair, la figlia di David Lloyd George. Nel luglio del 1911, Lloyd George, allora Cancelliere dello Scacchiere, assunse Frances come governante per la figlia minore Megan. La ventenne Frances e il quasi cinquantenne David divennero amanti. Frances accettò di diventare la segretaria personale di Lloyd George alle sue condizioni, inclusa una relazione sessuale.

Questa relazione è rimasta uno dei segreti meglio custoditi della House of Commons (quindi ignoto al grande pubblico). Secondo lo storico Dan Snow, Lloyd George “era il tipo di uomo che s’innamorava tre volte al giorno”. Un biografo ha scritto un libro sulle donne di Lloyd George.

Nel 1918 Frances fu creata comandante dell’Ordine dell'Impero Britannico e accompagnò Lloyd George, allora premier, alla Conferenza di pace di Parigi del 1919. La loro abitazione era vicino a quella parigina del presidente Wilson.

Nel 1943, due anni prima di morire e a due anni dalla morte della prima moglie, l’ottantenne Lloyd George sposò Frances, nonostante la forte opposizione dei figli di primo letto. In tal modo Frances divenne contessa Lloyd-George di Dwyfor.

Nel 1929, Frances Stevenson, dopo due aborti (secondo quanto dichiarato alla BBC da sua nipote), ebbe una figlia, Jennifer Mary († 2012). Frances aveva avuto una relazione con il colonnello Thomas F. Tweed, romanziere e funzionario del Partito liberale che lavorava nell’ufficio di Lloyd George. Secondo fonte citata da Wikipedia, Stevenson incoraggiò [encouraged] Lloyd George a credere che la bambina fosse sua, ma è più probabile che suo padre fosse Tweed.

martedì 11 febbraio 2020

Il muratore di Dovia


Sulla Domenica del Sole 24ore, si può leggere un articolo dal titolo: L’avventuriero di tutte le strade, a firma dello storico Emilio Gentile, che presenta un suo libro, in uscita il 13 febbraio, dal titolo Quando Mussolini non era il duce. L’articolo non dice nulla, e temo che anche il libro in questione finirà per dire la stessa cosa.


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Benito Mussolini fu fermato o arrestato dalla polizia elvetica in almeno tre occasioni dal 1902 al 1904. Esistono negli archivi svizzeri due schede antropometriche con foto istruite dalla polizia in occasione di tali arresti. A fianco dell’articolo di Gentile, compare la scheda antropometrica di quando fu arrestato dalla polizia ginevrina nell’aprile del 1904.

Penso sia interessante conoscere la storia di queste due schede antropometriche, e ciò mi offre l’occasione per dire dell’altro, specie a riguardo del socialismo e dei socialisti di quel tempo, quindi delle condizioni che portarono un personaggio di modesto livello come Mussolini a diventare un esponente di spicco del Partito socialista italiano, tanto da vedersi affidare la direzione del quotidiano del partito, l’Avanti!.

La fortuna, se così vogliamo chiamarla, lo accompagnò dal Congresso di Reggio-Emilia (1912). Divenne ancora più larga quando salì al potere, laddove all’infuori dell’estrema sinistra repubblicana, socialista e comunista, nessun partito o gruppo parlamentare gli rifiutò la collaborazione, salvo diventare tutti antifascisti della prima ora dopo il 25 luglio 1943.

Quanto esporrò è tratto prevalentemente dal primo volume della biografia mussoliniana scritta da Renzo De Felice. Tra parentesi riporto il numero di pagina.

De Felice si basò principalmente sull’autobiografia scritta dallo stesso Mussolini nel 1911-12, oppure su biografie che lo stesso storico definì apologetiche e auliche, valga per tutte citare quelle del De Begnac e del Ludwig (autore quest’ultimo di diverse biografia, compresa quella romanzata di Napoleone).

Si avvalse anche di due fonti dirette, quella della sorella Edvige, la quale ricorda, tra l'altro, come il fratello si appropriasse del denaro del suo salvadanaio (p. 15), e quella contenuta nella corrispondenza tra Mussolini e Santo Bedeschi, ossia a dire di quell’”amico” cui Emilio Gentile accenna nel suo articolo senza però farne il nome.

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lunedì 10 febbraio 2020

Le conseguenze in Cina


Il bilancio delle vittime dell’epidemia di coronavirus 2019-nCoV ha superato il numero di decessi causati dall’epidemia di SARS. Aveva infettato poco più di 8.000 persone e causò 774 vittime a livello internazionale tra il novembre 2002 e luglio 2003. Il 2019-nCoV ha infettato finora almeno 40.350 persone e causato 908 morti, tutti tranne due nella Cina continentale. Altri 2.656 nuovi casi domenica e 89 decessi. Sabato erano stati segnalati 3.399 casi. Al di fuori della Cina continentale, ora ci sono 368 casi confermati.

La stragrande maggioranza delle infezioni e dei decessi si sta verificano nell’epicentro dellepidemia, ossia nella provincia di Hubei (a due passi da Chongqing, la più popolosa città del mondo), la cui capitale è Wuhan con una popolazione di circa 11 milioni. Dal 22 gennaio, il governo ha tentato di impedire il movimento all’interno o all’esterno di Wuhan. Le misure di quarantena sono state estese a tutta la provincia di Hubei, interessando quasi 60 milioni di persone.

Mentre inizialmente si pensava che la trasmissione avvenisse solo attraverso il contatto ravvicinato con una persona infetta, i ricercatori ora credono che ci siano casi in cui il virus è stato trasmesso solo con una fugace esposizione. Se ciò si rivelerà esatto, è più probabile che il virus continui a diffondersi in Cina e altrove. Non ci sono prove di un suo rallentamento in Cina.

domenica 9 febbraio 2020

I reucci del bluff



Che cosa ci si poteva aspettare da gente pigra che non ha preoccupazione diversa dalla cura del proprio benessere? Ci voleva tanto per varare una norma che stabilisse che almeno per i processi dove sono in causa eventi che hanno riguardato morti e feriti gravi la prescrizione non ha luogo da subito? Come primo passo sarebbe bastato, e invece s'è di fronte a una miriade di proposte e varianti la cui sintesi sarà il solito guazzabuglio di compromessi.

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Quando appare in tv ha l’aria furbesca e ramminchionita dell’azzeccagarbugli manzoniano. L’illustre giureconsulto ha dovuto interrompere la complessa e poliedrica sua attività che fino ad allora lo aveva caratterizzato per assumere, prodigiosamente e per ben due volte nell’arco di pochi mesi, quella di presidente del Consiglio.

Caduto nel bagnasciuga il governo con la Lega, mondato dalle croste e delle tare che in tale esperienza aveva, certo suo malgrado, maturate, s’è assunto il fardello di un nuovo sodalizio governativo con il partito che fino ad un’ora prima costituiva la punta di lancia, si fa per dire, dell’opposizione.

Quando vede i suoi fulvi capelli agitarsi al soffio di un venticello di fronda, immediatamente si adegua, intimorito che gli siano negati i voti per restare assiso nella sua dorata poltrona. Invece ci sarebbe stato molto da dubitare che la sparuta compagine toscana mantenesse fede alle minacce e facesse mancare il suo voto favorevole.

Del resto, dopo eventuali elezioni anticipate, che farebbe quel gagliardo di Renzi, esaurite le conferenze pagate, se non l’ex senatore disoccupato? Quel 4% dato al suo partitino dai sondaggi è di pura convenienza di giornalisti e dei doxatori stessi, per non far perdere appeal alla gara.

Ritenendosi dotato d’idee penetranti e profonde, nonché di inossidabile carisma, in breve tempo s'è fatto odiare da tutti, perfino da coloro che gli devono qualcosa o anche molto. Troppi nemici per tentare nuovi camaleontici paludamenti, tanto che non gli resterebbe altra via che ritirarsi nel proprio cospicuo eremo ove potersi concedere finalmente un meritato riposo.

Verrà ricordato per la smodata improntitudine, l’incontenibile ego, i funambolismi finanziari.  


sabato 8 febbraio 2020

Che cosa succede a pochi chilometri da Sanremo?


Premesso che in tv ognuno di noi guarda quel cavolo che gli pare e che ogni tanto abbiamo pure il diritto di rilassarci, tuttavia resta in alcuni lo stupore per il successo, anno dopo anno, per uno spettacolo francamente molto modesto e banale, come il festival di San Remo, che poteva avere un senso nei primi decenni del dopoguerra, ma oggi? Vero è che ci sono altri programmi televisivi di grande successo davvero vomitevoli e che danno la misura dell’epoca scadentissima in cui viviamo.

Ma che cosa sta succedendo a pochi chilometri da Sanremo, in Francia, laddove gli impiegati di Radio France interrompono gli sproloqui del presidente cantando il coro degli schiavi del Nabucco?

Negli ultimi tempi ci sono stati in Francia otto morti e molte centinaia di feriti tra i quali molte decine in modo gravissimo, non pochi tra la vita e la morte. Questa la risposta del governo francese alle proteste sociali. I leader politici e i soliti editorialisti della libera stampa hanno definito questo massacro come “bavures”, letteralmente errori, sbavature. E in molti casi arrivano a parlare di “guerriglia urbana” anche in manifestazioni in cui si vedono solo eventi ludici.

All’indomani degli attacchi terroristici del 13 novembre 2015, François Hollande dichiarò lo stato di emergenza e diede al suo ministro dell’Interno i poteri dalla legge del 1955 approvata all’inizio della guerra algerina. Lo stato di emergenza è stato rapidamente deviato dal suo scopo dichiarato per essere prolungato e utilizzato soprattutto per colpire anche ambientalisti e dimostranti di ogni genere. Si è arrivati al punto che i prefetti vietano preventivamente ai cittadini di manifestare per qualsiasi motivo (insegnanti, ferrovieri, infermieri, medici, autotrasportatori, i portuali bloccano gli ingressi del Louvre, ecc.) con il pretesto che si potrebbero verificare atti di violenza. Oltre 3.500 manifestanti sono stati condannati dai tribunali, finora.

Un ritorno al passato, quello repressivo.

In Italia, invece, abbiamo ampia difficoltà di manifestare nelle strade e nelle piazze, contro il Nulla e muti come pesci.

venerdì 7 febbraio 2020

Una merce come altre


La legge appena varata dal Senato, dopo il voto favorevole e unanime della Camera dei mesi scorsi, sulla commercializzazione dei libri, che riduce gli sconti praticabili dalla già prevista soglia del 15% fissata nel 2011 ad appena il 5%, è a mio parere la solita bischerata (ad imitazione dei francesi).

Bischerata non tanto per i motivi addotti a suo tempo dalla pur attenta Vitalba Azzollini, la quale ritiene che “un’agevolazione fiscale a taluni, privando di risorse il bilancio pubblico, si traduce in un costo a carico di altri”. Senza negare il fatto osservo che sulle agevolazioni fiscali ad capocchiam potremmo disquisire per mesi senza venire a capo di nulla.

Si tratta di altro e di ben più semplice.

giovedì 6 febbraio 2020

Differenze tra la Croazia e la Sicilia


Faccio seguito brevemente al post di ieri che aveva per tema il patto di Londra e la questione di Fiume. Proprio oggi pomeriggio, in libreria, lo sguardo mi è caduto su un volume con un titolo di grande impegno: 1919. La grande illusione. Dalla pace di Versailles a Hitler. L'anno che cambiò la storia del Novecento, di Eckart Conze, uno storico tedesco con un curriculum di tutto rispetto.

Riguardo il Patto di Londra e i confini italiani sull’Adriatico, l’Autore scrive:

«Se nel centro della città la popolazione era a maggioranza italiana, gli abitanti dell’intera area urbana erano prevalentemente croati. Nel 1919 non soltanto questo era un problema, ma anche il fatto che l’impero asburgico, a cui un tempo apparteneva la città, non esisteva più. La Croazia non faceva più parte dell’Ungheria, ma era una parte del nuovo Stato degli Sloveni, Croati e Serbi costituitosi alla fine del 1918 e che – attraverso la delegazione serba – era rappresentato anche a Parigi».

Ciò non è esatto, e non si tratta di una mera questione terminologica o classificatoria. Troppo spesso gli storici pubblicano libroni di centinaia di pagine (un po’ come le mostre di pittura: da Tiziano a van Gogh, per dire dell'astuzia bigliettara) collazionando notizie prese qui e là piuttosto che rifarsi a fonti primarie. Ciò induce molto spesso a imprecisioni e non di rado a veri e propri rovinosi “incidenti”.

mercoledì 5 febbraio 2020

Il Patto di Londra e la questione di Fiume


Il regno d’Italia, ancora nel 1914, si trovava di fronte a una questione geopolitica spinosa per quanto riguarda lo scacchiere nord orientale della penisola, quella di Trento e Trieste. Trento, Rovereto, Riva del Garda e la Valsugana, avevano per l’Italia un rilievo principalmente strategico-militare, la loro annessione avrebbe consentito di fissare una linea di confine territoriale più sicura. Per quanto riguarda invece Trieste, non si trattava solo di rivendicare la sovranità italiana sulla città giuliana, ma anche la creazione di un’area egemonica italiana nell’Alto Adriatico

Chi giunga ancora oggi nella capitale austriaca da sud, deve percorrere la Triester Straße, un percorso che partendo, per lappunto, dalla città giuliana, giunge fino a Vienna. Ciò può dare l’idea dell’importanza fondamentale che aveva il porto triestino per l’Austria (quello di Fiume, secondo precedenti accordi, serviva principalmente l’Ungheria). L’Austria non avrebbe mai rinunciato a questo suo imprescindibile snodo commerciale sul mare Adriatico, e pertanto l’Italia non poteva attendersi da Vienna alcuna effettiva rinuncia di sovranità effettiva su Trieste.

Il regno d’Italia, fin dal 1882, aveva stipulato un’alleanza con la Germania e l’Austria- Ungheria (Triplice Alleanza), in seguito più volte rinnovata. Era però chiaro che si trattava di un’alleanza fragile, della quale soprattutto Vienna non si fidava, per i motivi rivendicativi dianzi esposti, tanto che il feldmaresciallo Franz Conrad aveva proposto fin dal 1908 e poi nel 1911 un attacco preventivo al fine di mettere fuori gioco l’Italia. Anche nel corso delle trattative con lItalia per averla al suo fianco o quantomeno neutrale nel conflitto iniziato nel 1914, Vienna su Trieste soprattutto si mantenne intransigente. 

Veniamo al Patto di Londra. Esso fu concordato dal governo italiano, segretamente e allinsaputa del Parlamento, con i rappresentanti della Triplice Intesa (Francia, Gran Bretagna e Russia). Firmandolo il 26 aprile 1915, l’Italia si obbligava a entrare in guerra contro gli Imperi Centrali. In cambio avrebbe ottenuto, in caso di vittoria, il Trentino, il Tirolo meridionale, la Venezia Giulia, l’intera penisola istriana, una parte della Dalmazia – con l’esclusione di Fiume –, numerose isole dell’Adriatico, Valona e Saseno in Albania e il bacino carbonifero di Adalia in Turchia, oltre alla conferma della sua sovranità su Libia e Dodecaneso.

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I famosi 14 punti di Woodrow Wilson assunsero importanza per il fatto che gli Stati Uniti si presentavano come possibili arbitri tra le nazioni. Del resto, fu sulla base dei 14 punti che la Germania si accinse a chiedere, nell’ottobre 1918, l’armistizio, ritenendo che i punti wilsoniani prefigurassero condizioni a più favorevoli per il Reich.

Il punto 9,1 dei più vaghi, riguardava l’Italia. Diceva che i confini italiani dovevano essere fissati «lungo linee chiaramente riconoscibili dalle nazionalità». Il decimo punto, auspicava in buona sostanza «il mantenimento dell’Austria Ungheria in tutta la sua integrità, insistendo sugli imperativi economici, che imponevano questa soluzione». Non si voleva neppure che Trieste fosse ceduta l’Italia e si diceva che «l’abbandono delle rivendicazioni imperialiste [sic!] da parte dell’Italia poteva essere ottenuto in cambio di solide garanzie: come la liberazione del suo territorio e la soddisfazione delle sue urgenti necessità economiche immediate e del dopoguerra».

Grazie a un suo amico, ottenne nel 1890 la cattedra di Scienze politiche a Princeton, e in seguito divenne preside di una università americana. Wilson manifestò la sua tendenza all’autorità, e, sottovoce si cominciò a parlare della sua “dittatura” (J.B. Duroselle, Da Wilson a Roosevelt, la politica estera degli Stati Uniti dal 1913 al 1945, Capelli editore, 1963, p. 66). 

Wilson, trovandosi a Mobile (Alabama) nel 1913, disse: «It is a very perilous thing to determine the foreign policy of a nation in the terrns of material interest […]. Do not think [...] that the questions of the day are mere questions of policy and diplomacy. They are shot through with the princirples of life. We dare not turn from the principle that morality and not expediency is the thing that must guide us [...]».

Sulla  sincerità e onestà di Wilson si possono tranquillamente nutrire i dubbi che furono, tra gli altri, di Luigi Aldrovandi Marescotti (nota 1), oppure di John Maynard Keynes. Wilson auspicava un mondo irenico dove i popoli fossero liberi di autodeterminarsi. Tuttavia la politica estera non è un ramo dell’etica, tanto più in un mondo diviso in Stati nazionali tra loro concorrenti

La politica coloniale europea era stata fino allora quanto di più pragmatico e di meno etico potesse darsi. Anche gli Stati Uniti, fin dalle origini, hanno sempre usato ogni mezzo, compresa la guerra, per tutelare  i propri interessi economici e strategici. Come del resto continuano a fare.

Nellultimo scorcio del XIX avevano fatto guerra alla Spagna per le Filippine, Portorico e l’isola di Guam e per il controllo di Cuba; qualche decennio prima la guerra al Messico, un conflitto sanguinoso, che fruttò il Texas, la California, il Nevada, l’Utah, l’Arizona e il Nuovo Messico. Quelle vittorie e annessioni non furono ottenute con la diplomazia, ma con le armi.

Quella di Wilson fu soprattutto alterigia moralistica di un presbiteriano rappresentante di un’America satolla che per oltre un secolo, con le buone o più spesso le spicce, aveva conquistato e annesso tutto ciò che rientrava nella sfera di quelli che considerava suoi legittimi interessi (perfino l’annessione delle “isole del guano”, salvo disinteressarsene dopo averle completamente raschiate), postulando, nella dottrina che prese il nome di un suo presidente, James Monroe, il diritto di considerare il resto del nuovo continente come il suo “cortile di casa”.

Gli Usa occupavano nel 1919 un territorio molto più esteso dei propri confini nazionali e da tempo si erano proposti come “forza morale” con la pretesa di intervenire ovunque e con ogni mezzo per difendere la libertà e la democrazia. Sia chiaro, scrivendo queste parole, non li si vuole biasimare, ma è necessario mettere in chiaro che non agivano per degli ideali superiori che essi in ogni simile situazione invocano.

Per esempio, al termine del primo conflitto mondiale, la controversia  impegnò gli Usa, il Giappone e l’Australia,  riguardo le isole Caroline, già possedimenti tedeschi.

Gli esiti della Conferenza di Parigi del 1919 dimostrano ampiamente l’aleatorietà di certi astratti principi, talora strettamente applicati (contro l’Italia, il Vicino Oriente, ecc.) e talaltra lasciati molto laschi (Polonia, Romania, Cecoslovacchia). Un carattere non certo malleabile come quello di Clemenceau ebbe a dire di Wilson: “Non penso che sia un uomo cattivo, ma non ho ancora deciso quanto ci sia di buono in lui” (2). Per colmo, com’è noto, gli Stati Uniti non aderirono alla Società delle Nazioni, che fu promossa dal loro stesso presidente.

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Molto complesse furono le cause, vicine e lontane nel tempo, che portarono alla conflagrazione bellica del 1914. L’equilibrio delle forze in Europa stabilitosi dopo la guerra franco-prussiana del 1870 venne a deteriorasi per il diverso grado di sviluppo economico, demografico e culturale delle diverse nazioni. Prorompente fu lo sviluppo industriale e militare della Germania guglielmina, che andava allestendo una poderosa flotta militare, in aperta concorrenza con quella britannica.

Inoltre si era fatta strada la convinzione generale che una guerra fosse inevitabile, che l’iniziativa del “primo colpo” avrebbe rappresentato un decisivo elemento strategico per ottenere la vittoria. In seno alle élite militari si era venuta a formare un’atmosfera satura di velleità bellicose, che accompagnava la corsa spasmodica agli armamenti, le grandi esercitazioni, il rafforzamento in chiave offensiva e non solo difensiva delle frontiere.

A surriscaldare ulteriormente quest’atmosfera provvedeva la stampa e la pubblicistica, che già allora giocava un ruolo cruciale e tanto contribuirà a esaltare gli animi nella situazione apertasi con la crisi di luglio del 1914. 

Come accennato, nel 1882, tra la Germania, l’Austria-Ungheria e l’Italia fu stipulata la Triplice Alleanza, la quale prevedeva il mutuo soccorso in caso la Francia attaccasse la Germania o l’Italia, oppure due potenze dichiarassero guerra a una delle Parti firmatarie. La Triplice Alleanza prevedeva però la neutralità in caso di dichiarazione di guerra unilaterale di una di esse contro qualsiasi altra Potenza.

Tra il 1905 e il 1907, la Francia, l’Inghilterra e la Russia firmarono a loro volta un trattato d’Intesa. Con Guglielmo II, la dottrina bismarkiana, tendente ad impedire lalleanza tra Russia e la Francia, era stata improvvidamente accantonata, fatto diplomatico questo non trascurabile.

Nel far precipitare la crisi del luglio 1914 in conflitto bellico, contribuì in modo significativo il sistema di mobilitazione adottato da tutte le Potenze, nonché l’ordinamento degli eserciti così com’è si era configurato dopo la guerra franco-prussiana del 1870-‘71. Il servizio militare obbligatorio aveva reso disponibili per la guerra milioni di uomini, per ammassare e inviare alle frontiere i quali era necessaria una vasta e complessa mobilitazione generale. Ciò aveva come risultato quello di far scattare a sua volta l’ordine di mobilitazione della controparte che si sentiva minacciata.

Si pervenne così al fatto che, avendo la Germania proclamato lo “stato di minaccia di guerra”, la Russia, già in svantaggio per la sua scarsa potenzialità ferroviaria e per non correre rischi di trovarsi impreparata, mobilitò contro la Germania, così come già aveva fatto verso l’Austria-Ungheria. In risposta, la Germania dichiarò guerra alla Russia, e a sua volta il generale Joffre scongiurò il governo di Parigi di non frapporre indugi per lintervento nel conflitto. La situazione sfuggì in tal modo di mano alla diplomazia, semmai vi fosse stata la precisa volontà di impedire per tempo il conflitto.

Dal punto di vista politico e diplomatico, è interessante conoscere un autorevole punto di vista tedesco, ossia quello dell’ex cancelliere Berhard von Bülow (Memorie, vol. III) sulla inabilità e leggerezza dimostrata in quel singolare frangente da parte dell’allora cancelliere tedesco Bethmann e dal suo ministro degli Esteri, Jagow. Secondo Bülow, a Berlino erano quasi tutti convinti che l’Inghilterra sarebbe rimasta a guardare. Quanto a Vienna, basti accennare all’atteggiamento assunto dal governo nei confronti della Serbia, segnatamente dal suo cancelliere Leopold Berchtold (si veda il giudizio sprezzante di von Bülow: pp. 143 e 183), e quello altrettanto deplorevole assunto dall’ambasciatore austriaco a Belgrado.

Ad ogni modo, per quanto riguarda la Germania, essa si lasciò prendere docilmente al guinzaglio dall’Austria e trascinare, a motivo della disputa austriaca con la  Serbia, in un conflitto al termine del quale doveva perdere tutto. 

Tuttavia non è possibile aver chiara la situazione nel suo complesso se non con la conoscenza di quanto avvenne subito prima del 1914, ossia nei Balcani con le guerre dei primi Anni Dieci. La bibliografia anche per questo scacchiere bellico è imponente, ma penso sia utile, per un inquadramento di dettaglio della questione balcanica, leggere il libro di un testimone originale, l’ambasciatore Alessandro de’ Bosdari: Delle guerre balcaniche, della grande guerra e di alcuni fatti precedenti ad esse, Mondadori, 1928.


Il confine, punteggiato, italo-austriaco nel 1915

Per quanto riguarda le violazioni dei Trattati della Triplice alleanza nel 1914 da parte dell’Austria-Ungheria, a danno dell’Italia, si veda la Prefazione a Guerra diplomatica di Aldrovandi. Nel secondo volume di Luigi Albertini (Le origini della guerra del 1914, Libreria Editrice Goriziana), si rintraccia un giudizio netto sulla politica dell’allora ministro degli Esteri Antonino Paternò di San Giuliano. Albertini lo accusa di non essersi adoperato per fermare l’aggressione dell’Austria alla Serbia, iniziativa che, se posta in essere, poteva avere un risultato dissuasivo determinante. Vero il fatto che il ministro degli Esteri italiano nell’estate del 1914 fu soprattutto intento a negoziare con l’Austria i compensi territoriali che sarebbero dovuti toccare all’Italia in caso di annientamento della Serbia.

D’interesse la lettera che San Giuliano, il 24 luglio da Fiuggi, diresse a Vittorio Emanuele e che in seguito Salandra, all’epoca dei fatti presidente del Consiglio, rese nota (Albertini, II, p. 347). Rispetto all’ipotesi di guerra austro-serba, San Giuliano ribadì all’ambasciatore austriaco a Roma, Kajetan Mérey, che se l’Austria si fosse presa il Lovecen o regioni serbe, due cose comunque escluse da Mérey, avrebbe dovuto compensare l’Italia, affinché “l’ingrandimento territoriale dell’Austria [non risultasse] dannoso ai nostri interessi perché turberebbe a nostro danno l’equilibrio [adriatico]”. Ciò era previsto dall’art. 7 del trattato di alleanza, che prevedeva, in caso l’Austria avesse annesso territori balcanici, compensi territoriali per l’Italia (territori cosiddetti irredenti).

L’Austria-Ungheria non informò ufficialmente l’Italia dell’attacco alla Serbia, tuttavia le diplomazie italiana, austriaca e tedesca, alla metà del mese di luglio 1914, intrecciarono fitti contatti per trovare un accordo che prevedesse dei compensi a favore dell’Italia in cambio di una sua cooperazione.

Inizialmente da parte tedesca si sottovalutò l’importanza di tale cooperazione, cosa che è stata messa in luce tra gli altri da Luigi Albertini e da Bernhard von Bülow. Il cancelliere tedesco Bethmann-Hollweg, l’imperatore Guglielmo  II e il ministro degli esteri Jagow assecondarono in tutto i piani austriaci, anche quello di porre l’Italia di fronte ad un fatto compiuto per evitare proprio la questione dei compensi.

L’impossibilità di raggiungere un accordo territoriale con l’Austria-Ungheria, sia perché il tempo stringeva e soprattutto per l’atteggiamento negativo e dilatorio di Vienna, assolutamente indisposta a cedere anche solo una parte dei territori rivendicati dall’Italia, portò quest’ultima a dichiararsi per il momento neutrale nel conflitto che già vedeva in campo tutte le grandi potenze europee.

La volontà italiana fu quella di attendere per vedere come volgesse il conflitto militare e intanto procedere con gli armamenti prima di prendere una posizione definitiva. Solo dopo l’insuccesso tedesco nel piegare la resistenza francese e le sconfitte asburgiche in Galizia, a Roma si cominciò a valutare seriamente la possibilità di una guerra contro l’Austria-Ungheria.

Bisogna altresì dire che l’assassinio dell’arciduca ereditario d’Austria era stato visto sul momento come un evento che avrebbe potuto migliorare le stesse relazioni austro-italiane, poiché con la scomparsa di Francesco Ferdinando veniva meno colui che non aveva perso occasione per dimostrare la sua profonda avversione all’Italia (Giampaolo Ferraioli, Politica e diplomazia in Italia tra XIX e XX sec., Rubbettino, p. 815 e ss.).

Il ministro di San Giuliano, in data 2 agosto 1914, scriveva agli ambasciatori italiani a Vienna, Avarna, e a Berlino, Bollati, la seguente lettera: «[…] In un paese democratico come l’Italia non è possibile fare una guerra ed ancor meno una grossa e rischiosa guerra contro la volontà ed il sentimento della Nazione. Ora salvo una piccolissima minoranza la Nazione si è subito rivelata unanime contro la partecipazione ad una guerra originata da un atto di prepotenza dell’Austria contro un piccolo popolo che essa vuole schiacciare, in opposizione ai principî liberali ed al principio di nazionalità, per ambizioni politiche e territoriali più o meno dissimulate e contrarie agli interessi dell’Italia.

«In un paese, come l’Italia, si può forse, senza gravissimi pericoli interni ed esterni trascinare il Paese ad una guerra non rispondente al sentimento nazionale, se al buon senso del nostro popolo si possono chiaramente dimostrare vantaggi corrispondenti al pericolo ed ai sacrifici.

«[…] Superfluo dire quali tristi eventi si sarebbero prodotti in caso di sconfitta della Triplice Alleanza ma se questa avesse riportato una mediocre vittoria non avrebbe avuto la possibilità di darci compensi adeguati, e se avesse riportato vittoria completa, riducendo per molti anni Francia e Russia all'impotenza, non avrebbe avuto né interesse né volontà di darci compensi proporzionati ai sacrifici» (Documenti Diplomatici Italiani, Serie V, vol. I, p. 2).

L’ambasciatore a Vienna, Avarna, pur convinto triplicista, scriveva a Roma in data 2 agosto: «… dubito che il Conte Berchtold sia disposto ad una preventiva discussione dei compensi. Mi risulta però in modo positivo che qualora noi avanzassimo la domanda di ottenere la cessione del Trentino Berchtold risponderebbe negativamente. E mi risulta che S.M. l’Imperatore sarebbe piuttosto disposto ad abdicare che di cedere quella provincia italiana facente parte integrale dei suoi Stati in compenso di un aiuto derivante dall’obbligo assoluto del trattato di alleanza».

Come detto, il trattato del maggio 1882, più volte rinnovato, tra Italia, Austria e Germania, aveva carattere difensivo e non obbligava l’Italia, in assenza del casus foederis, a partecipare alla guerra che era stata motivata dalla provocazione dell’Austria-Ungheria alla Serbia e contro questa unilateralmente dichiarata.

San Giuliano, in un telegramma del 3 agosto all’ambasciatore Guglielmo Imperiali a Londra, chiariva: «Quantunque partecipazione alla guerra sia contraria ai nostri vitali interessi ci saremmo rassegnati a compiere il nostro dovere se il casus foederis esistesse, ma fortunatamente l’azione aggressiva dell’Austria e lo svolgimento ulteriore dei fatti nonché l’assoluta ignoranza in cui fummo tenuti delle intenzioni dei nostri alleati e del tenore della nota austriaca alla Serbia ci danno il diritto incontestabile, secondo la lettera e lo spirito del trattato d’alleanza, a mantenere la nostra neutralità» (DDI, cit., p. 21).

Lo stesso 3 agosto, l’ambasciatore Carlotti da Pietroburgo scriveva a Roma: «Ambasciatore d’Inghilterra in seguito dirette istruzioni del Re si è recato ieri sera presso Czar a Peterhoff con missione cercare terreno accomodamento fra Russia e Austria-Ungheria in quel qualunque modo fosse possibile. Buchanan giunse in presenza Czar poco dopo la dichiarazione di guerra ma comprese che suo tentativo sarebbe stato inutile anche se lo avesse compiuto prima. S.M. era infatti vivamente irritata per la formula improvvisamente minatoria e quasi di ultimatum con la quale l’Imperatore di Germania aveva chiesto smobilitazione russa […]. Buchanan mi ha manifestato sua convinzione che guerra contro Russia fosse da lungo tempo premeditata da Germania ma che Pourtalés e lo stesso Jagow non fossero a cognizione di quanto si preparava nel più grande segreto. Egli crede al pari Sazonoff che Tschirschky [amb. tedesco a Vienna] abbia incoraggiato Austria-Ungheria alla intransigenza […]» (DDI, cit., pp. 13-14).

Il 4 agosto, Carlotti comunicava a Roma: «Risultami in modo positivo che fra Pietroburgo e Parigi furono scambiati e si scambiano vedute circa assicurazioni e soddisfazioni da darsi all’Italia in occasione attuale crisi europea».

Lo stesso giorno, da Londra, Imperiali scriveva a di San Giuliano: «Chiamato oggi da Grey ho avuto con lui un breve colloquio di cui conserverò memoria indelebile. […] porge a V. E. sentitissimi ringraziamenti assicurandola che le disposizioni dellItalia sono da lui cordialmente reciprocate. Queste reciproche disposizioni, confida Grey, saranno per dare il loro frutto al termine di questa guerra, grazie alla quale regna ora in Europa il caos e non è possibile di edificare solidamente».

Il 5 agosto, Carlotti scrive a di San Giuliano: «Nel corso nostro odierno colloquio Sazonoff mi ha confidato a titolo personale che Russia e Francia si applicherebbero indurre Inghilterra ad assicurare insieme con esse all’Italia completo dominio dell’Adriatico con tutte le condizioni a ciò necessarie, e salvo soltanto qualche concessione alla Serbia, qualora Italia con decisione pronta e chiara assumesse tale atteggiamento da immobilizzare presso confini nazionali considerevoli forze austriache o addirittura si impadronisse del Trentino la cui annessione le verrebbe poi riconosciuta. […] Quanto alle isole e ad una alta posizione italiana nell’Egeo [la] questione dovrebbe essere dibattuta in primo luogo a Londra ma Russia e Francia non solleverebbero difficoltà» (DDI, cit., p. 37).

Per quanto riguarda la posizione del ministro degli esteri di San Giuliano, Giampaolo Ferraioli nel suo citato libro, scrive: «il primissimo obiettivo del marchese non era sicuramente quello di assicurare all’Italia chissà quali annessioni territoriali. Ciò era forse dovuto alla circostanza che egli non voleva che il re e Salandra pensassero che l’Italia, intendendosi con l’intesa, avrebbe potuto ricevere territori superiori a quelli che poteva ottenere con l’accordo sui compensi con gli alleati [della Triplice]» (p. 900).

In sintesi, il primo di agosto, il presidente Raymond Poincaré aveva fatto sapere a Sazonov che, secondo la Francia, l’Intesa avrebbe potuto offrire Valona all’Italia. Il ministro degli Esteri russo aveva prontamente accolto questo suggerimento, ma aveva aggiunto all’offerta di Valona il Trentino (non sarebbe costato nulla alla Russia!). Pertanto e sostanzialmente a quel momento non si era andati oltre quanto offrivano i tedeschi, che erano poi quelli che conducevano il gioco sulla sponda opposta.

Bollati, da Berlino, il 5 agosto telegrafava: «Nel parlarne questa mattina con Jagow gli chiedevo come mai non fosse stato fatto tutto ciò che era umanamente possibile per evitare questa catastrofe: “Dalle dichiarazioni di Grey e dal passo fatto da Goschen [amb. Inglese a Berlino] risultava che ieri ancora Inghilterra si sarebbe astenuta se avesse ricevuto l’assicurazione formale del rispetto della neutralità del Belgio. Jagow [ministro Esteri] mi rispose che ciò non era più possibile di fronte alle supreme esigenze delle operazioni militari; per poter compiere il suo programma di concentrare da principio massimo sforzo contro la Francia per rivolgersi poi contro la Russia, esercito germanico aveva bisogno di una straordinaria rapidità di movimenti e per non perdere un tempo prezioso nel superare ostacoli frapposti alla frontiera franco-tedesca fortemente difesa dovevasi penetrare in Francia verso Belgio od il Lussemburgo senza preoccuparsi della neutralità di questi due paesi”».

Soggiunse Bollati nello stesso telegramma una propria considerazione: «In realtà la direzione degli avvenimenti qui sfugge oramai completamente al Ministero degli Affari Esteri ed anche al Cancelliere e si trova tutto in mano dei militari risoluti a giuocare la carta suprema. La Germania sente che si tratta di tutta la sua potenza, della sua stessa vita di Nazione. Le questioni che furono causa immediata della guerra, la posizione dell’Austria in Oriente, sono ormai passate in seconda linea; dellAustria Ungheria stessa non si parla quasi più. La lotta è impegnata da tutte le parti contro un popolo che a spese e senza il permesso dei suoi vicini si era in quaranta anni elevato ad una grandezza forse non mai vista nella storia dellumanità e non aveva saputo farsela perdonare».

Nel giro di pochi giorni s’instaurò una gara a chi offriva di più all’Italia. Grey fece sapere a Pietroburgo e Parigi che si sarebbe potuto dare all’Italia anche Trieste. Tale prospettiva non piaceva però a Paul Cambon, ambasciatore francese a Londra e fratello di Jules, ambasciatore francese a Berlino. Paul Cambon temeva che l’Italia, avendo già il porto di Genova, con quello di Trieste potesse diventare una potenza mediterranea di prim’ordine.

Il 6 agosto, Carlotti telegrafava: «Paléologue mi ha poi ripetutamente accennato alla posizione singolarmente favorevole in cui, a suo avviso, si trova lItalia per realizzare le sue antiche rivendicazioni nazionali per terra e per mare e riacquistare la signoria in Adriatico. Ambasciatore di Francia crede che guerra non sarà lunga e che prontezza decisioni Italia sarà di capitale importanza per la sua sorte futura, essendo certo che questa volta più che mai non la Conferenza ma le armi e il fatto compiuto decideranno del nuovo assetto europeo» (DDI, p. 54).

Sotto la stessa data, Imperiali a di San Giuliano: «È venuto testé a vedermi Alfredo Rothschild. Nel massimo segreto mi ha detto riteneva doveroso rendersi presso di me interprete dell’impressione che va sempre prendendo piede nei circoli politici, finanziari e militari, che noi (?) se l’Italia si schierasse a fianco dell’Inghilterra, Francia e Russia renderebbe incalcolabili vantaggi alla causa della pace di cui senza dubbio affretterebbe il momento, non potendo certo Austria e Germania resistere a lungo contro tutte le grandi Potenze. Ha aggiunto che in memoria di passate benemerenze acquistate dalla Casa Rothschild verso il paese nostro osava sperare Governo di S. M. non si sarebbe avuto a male della libertà da lui presa di venirmi ad intrattenere di così delicato argomento» (DDI, 48-49).

Il 7, di San Giuliano comunicava, tra l’altro, a Bollati: «Gradirei si sapesse da codesto Governo quanto altamente io apprezzi Flotow [amb.re tedesco a Roma] e V. E. può anche dire a Jagow se lo crede opportuno quanto segue: “Non esistere affatto in Italia sentimenti ostili alla Germania, anzi se non ci fosse di mezzo l’Austria la maggioranza dell’opinione pubblica sarebbe stata favorevole a venirle in aiuto anche non avendone l’obbligo. Non si approva però che non abbia cercato di evitare la guerra, che si sia resa solidale d’una prepotenza reazionaria dellAustria contro un piccolo popolo libero e che abbia tutto concordato con l’Austria senza nostra saputa tentando di coinvolgerci in una grande guerra nel momento meno opportuno per noi e per una causa contraria ai nostri sentimenti ai principi liberali ed al principio di nazionalità”».

Non meno interessante il seguito: «Difatti anche nella poco probabile supposizione che l’Austria vittoriosa si contentasse di una sistemazione dei suoi interessi balcanici senza acquisti territoriali tutto dava a prevedere che questa sistemazione avrebbe segnato, nonostante la partecipazione dellItalia alla guerra a fianco dell’Austria, un enorme aumento d’influenza austriaca nella penisola balcanica e una corrispondente enorme diminuzione della influenza italiana» (DDI, p. 55).

Ancora Carlotti da Pietroburgo il 7: «Dalla stessa sicura fonte del mio telegramma n. 43 mi viene affermato che scambio di vedute franco-russe relative all’Italia è stato esteso all’Inghilterra, la quale ha già aderito al riconoscimento dell’annessione all’Italia del Trentino e di Trieste e in generale della signoria italiana sull’Adriatico, salvo qualche concessione alla Grecia e alla Serbia, qualora Italia si decida prontamente ad occupare il Trentino e Valona».

L’11 agosto, San Giuliano, in un lungo telegramma a Imperiali, lo informava che «Sazonoff gli ha offerto [a Carlotti, amb.re d’It. a Pietroburgo] anche la Dalmazia ma noi crediamo che non ci convenga estenderci sino alla Dalmazia che è fuori dei confini geografici d’Italia». Pertanto, per quanto riguarda l’inizio delle trattative, il ministro italiano non aveva mire di compensazioni per quanto riguardava la Dalmazia.

Sempre il 7 agosto, di San Giuliano scrisse in una breve lettera da Fiuggi a Salandra: «Intanto, manteniamo buoni rapporti con tutti i belligeranti e cerchiamo di addormentarli e di far sì che non pensino a noi per qualche tempo. Il momento d’un’energica risoluzione forse verrà, e le probabilità che venga mi paiono accresciute».

Il governo italiano aveva ben chiaro quali erano gli interessi in gioco e da che parte stare per trarne il massimo eventuale vantaggio. Attendeva solo di vedere quale piega avrebbero preso gli avvenimenti sui campi di battaglia. Tuttavia non si poteva aspettare troppo a lungo. Antonino di San Giuliano, malato di gotta, morì il 16 ottobre e fu sostituito da Sonnino. Le trattative accelerarono e le richieste di compensazioni aumentarono, ma sempre sulla traccia del “telegrammone” del defunto ministro.

(Sulle trattative fra i Governi dell’Intesa, scarsamente ricordate nei Documenti diplomatici italiani, si diffondono più ampiamente i documenti russi. Una sintesi nel I vol. della V Serie degli stessi DDI, p. 118; vds. anche Ferraioli, cit., p. 905).

*

Riassumendo: il Patto di Londra fu concluso il 26 Aprile 1915 tra le potenze della Triplice Intesa e l’Italia. Le trattative che portarono alla firma del Pattto furono portate avanti per parte italiana dal ministro degli Esteri Sonnino e da Salandra presidente del Consiglio. Una traccia dettagliata di tale Patto era stata dapprima elaborata dal ministro Antonino di San Giuliano (il citato “telegrammone” da inviarsi a Imperiali), poi deceduto nell’ottobre 1914. A siglare il Patto, in rappresentanza dei rispettivi governi, furono l’ambasciatore Guglielmo Imperiali, i suoi omologhi russo e francese Aleksandr Konstantinovič Benkendorf e Pierre-Paul Cambon, il ministro degli Esteri inglese, Edward Grey.

Scopo dell’Italia, firmando il Patto, fu quello del compimento dell’unità, il predominio nell’Adriatico, l’equilibrio nel Mediterraneo con altre potenze e un incremento dei possessi coloniali, ossia nulla di particolarmente e sfacciatamente “imperialistico” alla luce del frangente storico.

Se l’Italia fosse rimasta fedele alla Triplice alleanza, tali obiettivi sarebbe stato in gran parte impossibile da realizzare. Il rovesciamento dell’alleanza fu  inevitabile e realistico, poiché una neutralità protratta non avrebbe dato buoni frutti né in caso di vittoria degli Imperi centrali, né in caso di loro sconfitta.

La posizione della classe dirigente italiana nel merito era tutt’altro che univoca e compatta. Se la posizione del ministro degli Esteri Antonino di San Giuliano fu estremamente cauta in considerazione dello stato d’impreparazione militare e per le resistenze sul piano politico, per contro vi fu chi, come Antonio Salandra, che alla morte di San Giuliano resse ad interim il dicastero, temeva che l’Italia potesse essere esclusa dai benefici derivanti dal conflitto, con viva preoccupazione di entrare nel conflitto troppo tardi, o quando fosse conclusa una eventuale pace separata tra l’Austria e l’Intesa. Solo nei mesi seguenti si vide che la guerra di posizione avrebbe protratto lo scontro a lungo e con enorme dispendio di risorse.

Come non manca di osservare Luca Polese Remaggi (in Ferdinando Imperiali, Diari, 1915-1919, Rubbettino): «Nella scelta a favore dell’intervento, contarono motivi di prestigio (le prospettive di un’espansione mediterranea), ma anche motivi di politica interna quale il rilancio dell’industrializzazione, il riassorbimento della disoccupazione e con essa della minaccia rivoluzionaria. Da un punto di vista specificatamente politico, si trattava di una strategia che doveva preparare una svolta conservatrice nella politica italiana, con lo scopo di impedire il ritorno al potere di Giolitti e dunque in prospettiva una partecipazione socialista al Governo del paese » (pp. 80-81).

Mia considerazione: ciò che vale per il periodo immediatamente precedente la guerra, varrà anche per gli anni successivi al conflitto (il ruolo del Vaticano, la nominatività dei titoli al portatore, e tanto altro). Si voleva, sul piano politico interno, sfruttare la guerra per ottenere una ricomposizione nazionale intorno a un centro politico forte, un blocco liberal-nazionalistico-cattolico che attuasse un controllo potente sulle masse popolari e ritrovasse il consenso del ceto medio. A tale disegno aderivano i più cospicui interessi della borghesia, e vi si prestarono Mussolini, D’Annunzio, Prezzolini e altri  reazionari e conservatori, in quello che fu poi il cosiddetto maggio radioso, in realtà un vero e proprio colpo di Stato favorito in modo decisivo dalla monarchia.

Scrive Guido Melis in Il Parlamento dalla Grande Guerra al fascismo in Italia, «con la legge 22 maggio 1915, n. 671, erano stati conferiti poteri straordinari al Governo “in caso di guerra e durante la guerra”, sicché il Parlamento italiano (“solo tra i parlamenti del mondo”, come ebbe a notare Tommaso Tittoni), si era spogliato delle sue principali prerogative, consentendo al Governo di autoristrutturarsi per semplici decreti (nuovi ministeri, istituzione di commissariati generali e di sottosegretariati, l’inedita figura del ministro senza portafoglio, i comitati di governo ecc.» (pp. 14-15).

Oltre alle notorie carenze sul fronte industriale e produttivo, finanziario e organizzativo, faceva da freno all’entrata in guerra il fatto che la maggioranza del paese rimaneva estranea alle passioni interventiste. Sul piano politico e parlamentare vi fu la netta contrarietà non solo dei socialisti ma di larga parte del Parlamento, schierato con la posizione neutralista di Giolitti. Per quanto riguarda la posizione del leader politico, bisogna considerare i suoi rapporti con la Banca commerciale italiana e la rete d’interessi finanziari italo-tedeschi, motivo forse non estraneo alla ritardata dichiarazione di guerra alla Germania, ma valide restavano anche le riserve già sostenute dal ministro di San Giuliano, che voleva tenersi buona la Germania per il dopoguerra.

Ad ogni modo, alla morte di San Giuliano fu impressa un’accelerazione agli approcci con gli Alleati a Londra tra Guglielmo Imperiali e Edward Grey, titolare del Foreign Office (cfr. Guglielmo Imperiali, Diari, cit., pp. 78 e ss).

*

Il Patto impegnava il Regno d’Italia a rompere “la neutralità poderosamente armata e pronta ad ogni eventualità”, come scrisse Salandra, ed entrare in guerra entro un mese contro l’Austria-Ungheria a partire dalla sua sottoscrizione, ad aderire alla dichiarazione del 5 settembre 1914, che impegnava le potenze alleate nell’Intesa a non concludere la pace separata con la Germania (l’Italia entrerà in guerra con la Germania solo nel 1916, e tale ritardo non garberà molto agli alleati).

Il testo del Patto di Londra, il cui art. 16 prevedeva fosse mantenuto segreto, e infatti fu pubblicato per la prima volta dalla Russia sul finire del 1917 (la pubblicazione dei trattati segreti stipulata tra il 1914 e il 1917, prevista dal decreto sulla pace del 26 ottobre 1917, iniziò il 10 novembre 1917 sulla Pravda e la Izvestija e dal 1922 sul Krasny Arkiv. L’on. Giuseppe Bevione ne leggeva una traduzione al Parlamento italiano nella seduta del 13 febbraio del 1918. Il testo fu poi presentato in via ufficiale al Parlamento nell’originale francese, nella seduta del 4 marzo 1920 dall’allora ministro degli Esteri Scialoia, come libro verde (per il testo francese qui proposto: Mario Toscano, Il Patto di Londra, Zanichelli, 1934, Appendice; sull’origine e funzione dei cosiddetti “libri di colore”, cfr. Toscano, St. dei trattati e politica internazionale, Giappichelli, 1968, da p. 99).

In esecuzione dell’art. 1 del Patto fu stipulata a Pietroburgo, il 10-21 maggio 1915, una convenzione militare italo-russa sulle modalità di conduzione della guerra contro l’Austria-Ungheria.

L’art. 4 del Patto, il più importante, sanciva:

«Dans le traité de paix, l’Italie obtiendra le Trentin, le Tyrol cisalpin avec sa frontière géographique et naturelle (la frontière du Brenner); ainsi que Trieste, les Comtès de Gorizia et de Gradisca, toute l’Istrie jusqu’à Quarnero et y compris Volosca et les îles istriennes de Cherso, Lussin, de même que les petites îles de Plavnik, Unie, Canidole, Palazzuoli, San Pietro di Nembi, Asinello, Gruica, et les îlots voisins».

«Nel trattato di pace l’Italia otterrà il Trentino, il Tirolo cisalpino con la sua frontiera geografica e naturale (la frontiera del Brennero), e ancora Trieste, le contee di Gorizia e di Gradisca, tutta l’Istria fino a Quarnaro compresa Volosca e le isole istriane di Cherso, Lussino, Plavnik, Unie, Canidole, Palazzuoli, San Pietro di Nembi, Asinello, Gruica e gli isolotti vicini».

Seguivano ragguagli su come dovessero delinearsi le future frontiere:

«Il confine necessario ad assicurare il presente Articolo 4 dovrà essere tracciato come segue: Dal Piz Umbral fino a nord dello Stelvio, dovrà seguire la cima delle Alpi Resie fino alle sorgenti dell’Adige e dell’Eisach, seguendo poi i monti Brennero e Reschen e le alture Oetz e Ziller. Il confine dovrà poi piegare verso sud, attraversare il Monte Toblach e congiungersi all’attuale confine delle Alpi Carniche. Esso dovrà seguire questa linea di frontiera fino al Monte Tarvisio e dal Monte Tarvisio lo spartiacque delle Alpi Giulie attraverso il Passo del Predil, il Monte Mangart, il Tricorno e lo spartiacque dei Passi Podberdo Podlaniscam ed Idria. Da questo punto il confine dovrà seguire una direzione sud-orientale verso lo Schneeberg, lasciando l’intero bacino del Sava e dei suoi affluenti al di fuori del territorio italiano. Dallo Schneeberg il confine dovrà scendere fino alla costa in modo tale da comprendere nel territorio italiano Castua, Mattuglie e Volosca».

L’art. 5 stabiliva i territori, le isole e le città della Dalmazia da attribuire alla sovranità italiana (nota 4), quindi le zone che sarebbero state neutralizzate e, in Nota, le zone che gli Alleati avrebbero assegnato alla Serbia, Croazia e Montenegro:

«Les territoires de l’Adriatique énumérés ci-dessous seront attribués par les quatre Puissances allées à la Croatie, à la Serbie et au Monténégro. Dans le Haut-Adriatique, tute la côte depuis la baie de Volosca sur les confins de l’Istrie jusqu'à la frontière septentrionale de la Dalmatie comprenant le littoral actuellement hongrois et toute la côte de la Croatie, avec le port de Fiume et les petits ports de Novi et de Carlopago, ainsi que les îles de Veglia, Pervichio, Gregorio, Goli et Arbe. Et, dans le Bas-Adriatique (dans la région intéressant la Serbie et le Monténégro) toute la côte du cap Planka jusqu'à la rivière Drin, avec les ports importants de Spalato, Raguse, Cattaro, Antivari, Dulcigno, et Saint-Jean de Medua, et les îles de Zirona Grande, Zirona Piccola, Bua, Solta, Brazza, Jaclian et Calamotta. Le port de Durazzo resterait attribué à l'Etat indépendant musulman d’Albanie».

«I seguenti territori adriatici dovranno essere assegnati dalle quattro Potenze Alleate alla Croazia, alla Serbia e al Montenegro. Nell’Adriatico Settentrionale, l’intera costa dalla Baia di Volosca ai confini dell’Istria fino alla frontiera settentrionale della Dalmazia, compresa la costa che è attualmente ungherese e l’intera costa della Croazia, con il Porto di Fiume ed i piccoli Porti di Novi e Carlopago, oltre che le isole di Veglia, Pervichio, Gregorio, Goli ed Arbe. E, nell’Adriatico meridionale (nella zona che interessa la Serbia e il Montenegro) l’intera costa da Capo Planka fino al Fiume Drina, con gli importanti Porti di SpaIato, Ragusa, Cattaro, Antivari, Dulcigno e San Giovanni di Medua e le Isole Zirona Grande e Piccola, Bua, Solta, Brazza, Jaclian e Calamotta. Il Porto di Durazzo dovrà essere assegnato allo Stato indipendente mussulmano di Albania».

(La redazione di questa nota esplicativa all’art. 5 fu molto laboriosa nella sua messa a punto: vds. Aldrovandi, pp. 76-78, il quale richiama l’intervento dell’ambasciatore Imperiali per quanto riguarda specificatamente questa parte: “Les territoires de l’Adriatique énumérés ci-dessous seront attribués par les quatre Puissances allées à la Croatie, à la Serbie et au Monténégro”).

Il destino della città di Fiume fu preso in considerazione dal di San Giuliano e da Sonnino in seguito. Posto che la città si trova al fuori del confine geografico naturale dell’Italia, data l’incertezza sul futuro assetto politico della zona alla fine del conflitto, nonché di fronte alla richiesta russa di dare per scontato che l’Austria e l’Ungheria dovessero lasciare tutte le terre adriatiche, si accettò di precisare che quanto non andava all’Italia sarebbe stato attribuito a Croazia, Serbia e Montenegro.

Significativa e preveggente la posizione di Imperiali che si ricava dal suo diario in data 6 marzo 1915: «Vi è forse troppa Dalmazia, mentre si lascia fuori Fiume città incontestabilmente italiana. Questa omissione ci potrà cagionare serie complicazioni all’interno al momento della pace vittoriosa. Ricordo ad ogni buon fine che nel colloquio di novembre a Roma con Salandra e Sonnino, accennai a Fiume. Ed il primo mi redarguì dicendomi non si poteva strozzare un paese privandolo di ogni accesso al mare. “Vivere e lasciare vivere”. Io però mantengo la mia opinione» (Diari, cit., pp. 131-32).

Apparentemente curioso l’art. 15: «La France, la Grande-Bretagne et la Russie appuieront l’opposition que l’Italie formera à toute proposition tendant à introduire un représentant du Saint Siège dans toutes les négociations pour la paix et pour le règlement d es questions soulevées par la présente guerre».

Tutti sapevano per chi parteggiasse il clero cattolico romano.

Altra clausola del trattato (art. 14) prevedeva il prestito inglese all’Italia di 50 milioni di sterline. Ciò venne perfezionato con l’accordo finanziario del 14 novembre 1915, reso definitivo il giorno 19. Il prestito però fu concesso alle condizioni volute dal cancelliere dello scacchiere britannico Reginald McKenna, il quale riuscì a convincere il governo italiano a cedere 300.000 fucili Vetterli alla Russia (munizioni.eu/italiane2/13-italiane/206-le-10-4-x-47r-vetterli.html), impose inoltre una clausola per la garanzia in oro dei prestiti inglesi e infine riuscì a stabilire il principio del controllo della spesa italiana: i soldi prestati dovevano essere impiegati almeno per una parte sul mercato britannico.

Si disse e scrisse che in quel momento l’Italia avrebbe potuto ottenere dalle potenze dell’Intesa tutto quello che avesse chiesto, ma Salandra (L’Intervento, pp. 161-62), Sonnino e altri risposero successivamente in modo circostanziato negando fondamento a questa diceria.

Nel 1918, a conclusione del primo conflitto mondiale, l’Italia aveva sconfitto l’Austria-Ungheria. L’atto di armistizio, stipulato a Villa Giusti presso Padova il 3 novembre 1918, in buona sostanza permetteva di occupare i territori che erano stati pattuiti a favore dell’Italia dalle potenze dell’Intesa per la sua entrata in guerra al loro fianco (nota 3). Va ricordato che Trieste fu annessa formalmente all’Italia solo nel 1921 con il Trattato di Rapallo, che definiva i confini orientali. La città per diversi secoli era stata sotto la dominazione austriaca, seppure con lo status di porto-franco.

Per contro, nel 1915, la proposta austriaca prevedeva:

Art. 1 – L’Autriche-Hongrie se conformant au désir exprimé par l'Italie d'entrer en pos- session des parties du Tyrol dont les habitants sont de nationalité italienne accepte une nouvelle ligne-frontière qui se détachera de la frontière actuelle près de Zufallsspitze et suivra pour un trait la frontière entre les districts de Cles d’une part et les districts de Schlanders et de Meran de l'autre, c'est-à-dir la ligne du partage des eaux entre le Noce et l’Adige jusqu’à l’Illmenspitze.

Art. 2 – L’Autriche-Hongrie consent en plus à céder à l’Italie les territoires situés sur la rive occidentale de l’Isonzo en tant que la population est purement de nationalité italienne. En partant de l'embouchure de l’Isonzo (Sdobba) la nouvelle frontière suivra le talweg de ce fleuve en amont jusqu’au delà de la ville de Gradisca qui sera comprise dans le terrain cedé à l’Italie. Elle se détachera en amont de cette ville du cours de l’Isonzo, en suite elle se tournera au nord-ouest vers Medea et rejoindra le Iudrio dont le thalweg continuera à former la frontière.

Art. 3 – Le titre de «Ville libre Impériale» sera conféré à la ville de Trieste. Elle sera munie d’une université et obtiendra un nouveau statut municipal qui tout en mainte- nant les droits de pleine autonomie, dont elle jouit actuellement, assurera en plus le caractère italien de cette ville. La zone actuelle de port frane sera maintenue et, au cas de besoin, élargie.

Tali proposte austriache vennero comunicate, da ultimo, dall’ambasciatore dell’Austria-Ungheria a Roma, Macchio, al ministro degli Esteri, Sonnino, in data 19 maggio 1915 (DDI, Serie V, vol. III, pp. 566 e ss.; anche in Salandra, L’intervento, pp. 292-96).

Pertanto, secondo la proposta di Vienna, le zone del Tirolo (in realtà del Trentino), ma solo quelle abitate da italiani e comunque entro un determinato confine, sarebbero state assegnate all’Italia; di poi anche il territorio sulla riva occidentale dell’Isonzo, compresa Gradisca ma non Gorizia (sulla sponda opposta), e quanto a Trieste sarebbe rimasta sotto la “libera sovranità imperiale” [sic!]. Il tutto, semmai, dopo la fine del conflitto bellico!

Questo è il famoso “parecchio” del neutralista Giolitti e dei suoi 300 parlamentari sostenitori. Né va dimenticato che l’Italia importava il 90% del suo carbone dall’Inghilterra e dipendeva da G.B. e Francia anche per altre importanti materie prime.

Da non sottovalutare, per ciò che accadrà in seguito, e cioè alla Conferenza di Parigi del 1919, che l’accordo sottoscritto dagli Alleati (compreso il Giappone) il 15 novembre 1915, si esprimeva contro una eventuale pace separata.  Tra l’altro, si legge:

«I cinque Governi convengono che, quando sarà il caso di discutere i termini della pace, nessuna delle Potenze Alleate potrà porre delle condizioni di pace senza preventivo accordo con ciascuno degli altri Alleati».

Pertanto era necessario che i Trattati di pace fossero firmati congiuntamente dai rappresentanti degli Alleati e Associati (gli Stati Uniti non erano alleati ma “associati”, una finezza lessicale che fecero pesare).

Da segnalare che nel marzo 1917, l’imperatore Carlo di Asburgo, tramite suo cognato, Sisto di Borbone, aveva presentato al presidente della Repubblica francese, Poincaré, una proposta di pace. Tale proposta aveva trovato ascolto presso gli ambienti diplomatici sia francesi che inglesi, i quali tuttavia dovevano tener conto dell’opinione dell’Italia. L’11 aprile Ribot e Lloyd George si erano incontrati a Folkstone, dove avevano deciso di convincere l’Italia ad accettare la proposta austriaca in cambio di un miglior assetto degli interessi italiani in Asia. Sonnino rifiutò recisamente la proposta di pace separata dell’Austria, in quanto la rinuncia alla vittoria italiana avrebbe significato la messa in discussione del patto di Londra per quanto riguardava sia i confini a nord che la situazione adriatica.

*

Orlando, presidente del Consiglio, e Sonnino ministro degli Esteri, avevano vedute diverse, anzi molto distanti, per quanto riguarda il destino di Fiume. A Sonnino non importava granché di Fiume, voleva il rispetto integrale del Patto, mentre ad Orlando interessava acquisire Fiume anche rinunciando ai territori dalmati assegnati dal Patto all’Italia. Orlando non poteva privarsi dell’appoggio parlamentare di Sonnino, che gli permetteva di mantenere in piedi il suo gabinetto. Pertanto, la delegazione italiana arrivò a Parigi molto divisa.

Il presidente Wilson oppose nel 1919 una vigorosa e anzi accanita resistenza verso le richieste italiane relative a Fiume e alla Dalmazia, e fu sostenuto soprattutto dal primo ministro francese e presidente della Conferenza, Clemenceau, il quale in più di un’occasione ebbe a dichiarare apertis verbis tutto il suo disprezzo per gli italiani. Più in generale Wilson contestava il patto di Londra, ritenendolo non più valido per le mutate condizioni del dopoguerra (nota 5).

La “nuova diplomazia” wilsoniana stava cambiando tutto. L’intransigenza di Sonnino, fautore di un rigido rispetto del patto di Londra, non favoriva le simpatie del presidente americano verso l’Italia, né del resto quelle della Francia e dell’Inghilterra, alleate dell’Italia ma non amiche. La Francia, da parte sua, intendeva articolare un sistema di alleanze nell’area danubiano-balcanica, mentre Lloyd George non aveva alcun interesse a contraddire Wilson nelle faccende italiane.

La cosiddetta linea Wilson (Memorandum del 14 aprile 1919) confermava il confine nord così come stabilito dal Patto, mentre il confine orientale vedeva l’Istria tagliata in due con una parte all’Italia e la Dalmazia che andava alla Jugoslavia con le isole, ad eccezione soltanto di Lissa e del controllo di Valona. Per Fiume s’ipotizzava una città libera ma dentro il sistema doganale jugoslavo.

In generale si deve tener conto che l’Italia alla fine della guerra era prostrata, con 700 milioni di sterline di debito, l’inflazione più alta dopo quella russa, 600.000 morti e a un numero ancor maggiore di feriti e mutilati. Imperversava l’epidemia della Spagnola, si doveva smobilitare il mastodontico esercito e l’apparato industriale bellico. Nemmeno tanto sotto-sotto ci si chiedeva a quale scopo fosse servita quella guerra tanto dispendiosa.

Sostiene Raoul Pupo nel suo Fiume città di passione: “l’Italia aveva vinto la guerra, ma il suo contributo alla vittoria è stato più modesto di quanto preconizzato nel 1915, quando si sperava che il suo apporto potesse far pendere la bilancia dal lato dell’Intesa” (p. 51). È questa una posizione critica assai diffusa, specie all’estero dove cera (e c’è tuttora) interesse ad alimentarla. Non deve far specie, in un paese così contraddittorio, che tale tesi sia ancor oggi sostenuta in sede storiografica in Italia.

In realtà il contributo dell’Italia alla guerra fu decisivo per le sorti della Francia e della guerra stessa. Nel novero delle possibilità reali: se l’Italia si fosse mantenuta neutrale, la Francia, per ogni evenienza, avrebbe dovuto mantenere un corpo militare cospicuo sul fronte delle Alpi italiane; l’Austria-Ungheria sarebbe stata libera di agire contro la Russia con forze nettamente superiori a quelle che in effetti poté dispiegare nel periodo della neutralità italiana e sia poi ovviamente con l’entrata in guerra dell’Italia. Se invece lItalia si fosse poi decisa, per calcolo o per costrizione, a intervenire in guerra a fianco dell’Austria-Ungheria, allora per la Francia sarebbe stata inevitabile la disfatta. Sulle Alpi si sarebbero presentate decine di divisioni italiane e altrettante austro-ungariche. Non solo le sorti della guerra in corso, ma la storia del Novecento avrebbe preso un’altra piega.

Inoltre, alla dichiarazione di neutralità italiana, la frontiera francese era stata in gran parte sguarnita e le relative truppe trasferite sulla Marna. Durante la neutralità del 1914-’15 gli italiani arruolati nell’esercito francese costituirono il contingente straniero più numeroso (4.913 effettivi su 28.266). Il corpo d’armata italiano sul fronte francese, comandato dal generale Albricci, ottenne le lodi di Clemenceau, notoriamente poco tenero verso l’Italia e gli italiani (J.B. Duroselle, La grande guerre des Francais 1914-1918, Perrin, 1994, pp. 331-35).

Dello stesso avviso fu Bernhard von Bulow: «La dichiarazione di neutralità dell’Italia offrì alla Francia l’enorme vantaggio di poter distogliere dalle Alpi meridionali tutte le sue truppe dislocate lungo il confine italiano, gettandole contro la Germania. Ciò preparò la situazione per la battaglia della Marna, come ha assodato unanime lo studio retrospettivo dei critici militari della guerra mondiale, fu decisiva per le sorti della conflagrazione» (Memorie, III, p. 171).

Tutto ciò con la sola dichiarazione di neutralità!

Bisogna aver chiaro, per quanto riguarda Fiume, che la città rappresentava un porto commerciale di reale importanza per i Balcani e l’Ungheria, mentre Trieste era stata per il passato favorita in tutti i modi da Vienna, con tariffe preferenziali e sussidi. Quale fosse la sorte di Fiume nel dopoguerra, resta il fatto che il porto di Trieste si avviò ad un’inarrestabile decadenza (6).

Ci pensò Gabriele D’Annunzio, un coglione secondo la definizione di Hemingway, ancor oggi suscitatore di patetiche nostalgie, “a martellare sull’italianità di terre non annoverate nel Patto di Londra”, con l’appoggio di Mussolini, di reduci delusi e di disperati. 

È vero che la maggioranza della popolazione di Fiume era di ceppo italiano, e però tutto l’entroterra fiumano era a grande prevalenza slavo. Difficile questione, tanto più che, come detto, nel Patto la città non era assegnata all’Italia e fino al 1919 mai fu rivendicata. Invece il D’Annunzio, nel 1919, non rivendicava solo Fiume, ma l’intera Dalmazia!

Orlando, dopo la Conferenza d Parigi, fu travolto da ciò che sulla stampa veniva considerato un fallimento e dovette lasciare il campo a Nitti. Tuttavia, visto come si stavano mettendo le cose, la Conferenza fu tutt’altro che un fallimento per l’Italia, che ottenne effettivamente il completamento dell’unità nazionale con l’annientamento della sua storica nemica, l’Austria; la sicurezza nell’Adriatico con Zara, le neutralizzazioni e Valona, il ridimensionamento della potenza austriaca senza che essa venisse sostituita da quella tedesca (divieto di Anschluss, stabilito dal trattato di Versailles e Fiume Stato libero. Per contro, è risaputo che i miti (la “vittoria mutilata”) suggestionano le plebi e la realtà è questione di pochi.

Il confine adriatico, che non fu fissato durante la Conferenza del 1919, venne regolato nel 1920 con il trattato di Rapallo fra Italia e il Regno di Serbia, Slovenia e Croazia (da non confondere con lo Stato, fantoccio, di Serbia, Slovenia e Croazia, vigente per solo 29 giorni alla fine del conflitto). In tale sede si decise per lo Stato libero di Fiume. Il D’Annunzio, che in quel momento occupava la città, negò la validità del trattato di Rapallo, ma fu cacciato dalle truppe regolari italiane la vigilia di natale del 1920. Bastò qualche cannonata e gli intrepidi legionari si squagliarono.

Da notare che il 24 aprile 1921, alle prime elezioni parlamentari fiumane, alle quali parteciparono gli autonomisti e i Blocchi nazionali pro-italiani, il Movimento Autonomista ricevette 6.558 voti e i Blocchi Nazionali (Partito Nazionale Fascista, Partito Liberale e Partito Democratico) solo 3.443. La maggioranza dei votanti voleva una città libera dalle ingerenze italiane e in specie di quelle dannunziane.

Dopodiché, nel gennaio 1924, col Trattato tra l’Italia e il Regno di Serbia, Slovenia e Croazia, all’art. 2 fu stabilito:

«Le Gouvernement des Serbes, Croates et Slovènes reconnalt la souveraineté pleine et entière du Royaume d’Italie sur la ville et sur le port de fiume ainsi que sur le territoire qui est attribué d’après la ligne de frontière indiquée dans l’article suivant.»

Ovvero, come sostiene Mario Toscano riprendendo in parte le parole del Trattato, “Rivelatasi insostenibile la situazione di Fiume qual era stata regolata dal Trattato di Rapallo, il Governo Fascista otteneva con questo trattato rincorporazione dell’italianissima città nel Regno d’Italia. Con questo atto aveva termine la questione Fiumana” (Il Patto di Londra, cit., Appendice, p. 218, in nota).

Annotava a tale riguardo l’ambasciatore Mario Luciolli nel suo Mussolini e l’Europa, la politica estera fascista: «... la creazione dello Stato Libero di Fiume, prevista dal trattato di Rapallo, si rivelò praticamente inattuabile a causa della persistente agitazione degli animi nella disgraziata città. Mussolini si accordò con Pašic nel dare al problema una soluzione veramente salomonica: la spartizione del territorio conteso, Fiume propriamente detta restò allItalia e Sussak e una parte del porto restarono alla Jugoslavia [vedi qui sotto nota 6]. Quando i partiti di opposizione criticarono laccordo, Mussolini lo difese strenuamente; e la stampa fascista, da parte sua, fece una specie di congiura del silenzio sugli aspetti svantaggiosi di esso, ch’erano molti sopra tutto dal lato economico» (p. 39).

(1) Luigi Aldrovandi-Marescotti, Guerra diplomatica, Mondadori, 1940, 2a ediz., p. 290. 

In quel tempo in Germania si moriva letteralmente di fame, la malnutrizione e la miseria favorivano il diffondersi della influenza “spagnola”. Le autorità francesi, infine si dichiararono non contrarie affinché la Germania si rifornisse di derrate alimentari all’estero, e avevano sancito, nero su bianco nelle ripetute riscritture dell’armistizio, che i pagamenti di quelle merci non potevano venire usando oro, titoli esteri o altre disponibilità liquide. Tali valori dovevano restare congelati in vista delle riparazioni destinate agli Alleati.

Tuttavia tale posizione intransigente creava dei problemi agli Alleati stessi. Per esempio, gli americani dovevano far fronte alla sovrapproduzione di carne di maiale. Keynes, nel suo ruolo di rappresentante finanziario britannico in seno al Supremo Consiglio Economico presso la Conferenza di Parigi, inviò a tale riguardo un suo rapporto al cancelliere dello scacchiere:

«Gli americani hanno proposto che si riversino sulla Germania i grandi stock di pancetta di bassa qualità in nostro possesso, e li si rimpiazzi con stock più freschi e vendibili. Dal punto di vista alimentare sarebbe chiaramente un buon affare per noi».

Si temeva, sottolineava Keynes, che la Germania, finito l’embargo nei confronti dei paesi neutrali, dato per imminente, potesse “rifornirsi di grassi su scala molto generosa”.

A riguardo del presidente Wilson, scrive Keynes, egli “è stato molto eloquente circa la necessità di un’azione tempestiva” al fine di evitare che la Germania cadesse preda del “bolscevismo”. In realtà, scrive ancora il nobile inglese, “a ispirare le sue parole sono le abbondanti e costose scorte di carne di maiale, da scaricare a ogni costo su qualcuno, nemici o alleati che siano” (Melchior: un nemico sconfitto, in Le mie prime convinzioni, Adelphi 2012, p. 53). 

(2) Margaret MacMillan, Parigi 1919, Mondadori, pp. 35 e 51; l’Autrice di questo poderoso lavoro è molto di parte, anche in modo vergognoso, nei giudizi sull’Italia e il suo contributo alla guerra, distorcendo la realtà dei fatti, per esempio anche sull’affondamento della Viribus Unitis (p. 364).

(3) In quegli stessi giorni nasceva anche uno Stato nuovo, sorto dalla fusione di una Serbia vittoriosa e delle province asburgiche abitate dagli slavi del sud, ovvero da sloveni, croati e serbi, caratterizzato da instabilità interna e spinte espansioniste. Da quel momento, pertanto, le preoccupazioni strategiche dell’Italia, fino ad allora rivolte alla monarchia degli Asburgo, si rivolsero al nuovo Stato jugoslavo.

L’unificazione jugoslava del 1918 era frutto dall’operato di vari organismi istituzionali: il primo per ordine cronologico fu un “Comitato jugoslavo”, creato nel 1915 a Londra e sostenuto dagli inglesi come strumento di propaganda atto a destabilizzare l’Austria-Ungheria. Per secondo fu il Governo serbo, il quale, grazie alla vittoria riportata nel conflitto, aveva peso in sede diplomatica ma, in realtà, non era interessato all’unificazione jugoslava e piuttosto a consolidare gli acquisti del 1913 in Macedonia e Kosovo, puntando ad espandersi a meridione sino a Salonicco. Fu solo dopo la Rivoluzione russa e l’uscita di scena del potente alleato, che il capo del governo serbo, Nikola Pašic, intavolò un negoziato a Corfù con gli esponenti del Comitato jugoslavo londinese. Dopo faticose trattative, Pašic, sotto pressioni inglesi, acconsentì di denominare “Jugoslavia” il futuro Stato dei Serbi, Croati e Sloveni, rinunciando solo formalmente a dar vita ad una Grande Serbia. Il terzo organismo fu il Consiglio nazionale degli Sloveni, Croati e Serbi, costituitosi assai tardivamente dopo la pubblicazione del Manifesto del 16 ottobre 1918 con il quale l’imperatore Carlo I autorizzava una riforma costituzionale della monarchia in senso federale. Nell’ottobre del 1918 il Consiglio nazionale jugoslavo attivò proprie sezioni presso gli uffici delle amministrazioni provinciali, distrettuali e comunali nei territori della Monarchia danubiana dove la maggioranza degli jugoslavi era assicurata, ma anche in città che costituivano obiettivi di rivendicazioni pur non essendo gli slavi in maggioranza. I rapporti tra i tre organismi non furono mai improntati alla reciproca fiducia, né tantomeno ad una condivisione dei fini strategici, anche se a guerra conclusa tutti e tre proclamarono la liberazione nazionale per i propri “fratelli” da realizzarsi a spese della sovranità asburgica (cfr. William Klinger, Germania e Fiume, La questione  fiumana nella diplomazia tedesca, 1921 - 1924, Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia, 2011).

(4) Rispetto all’originale francese, si possono rilevare non lievi differenze nella traduzione italiana dell’articolato del Patto riportata nel III capitolo del libro di Salandra, L’intervento, Mondadori, 1930.

(5) Dal Memorandum relativo alla questione delle rivendicazioni italiane nell’Adriatico. Consegnato dal presidente Wilson il 14 aprile 1919 (la sintassi è quella della traduzione del documento dattiloscritto del ministero degli Esteri italiano):

«Personalmente, io sono completamente disposto ad ammettere che l’Italia ottenga lungo tutta l’estensione delle sue frontiere del nord e dunque essa viene in contatto con territorio austriaco, tutto ciò che le è stato accordato nel cosiddetto [?!] Patto di Londra, ma io ho la netta opinione che il Patto di Londra non si può più applicare nell’assetto delle sue frontiere orientali. La linea fissata nel Patto di Londra era concepita allo scopo di stabilire una frontiera assolutamente adeguata alla sicurezza dell’Italia contro ogni possibile ostilità od aggressione da parte dell’Austria Ungheria. Ma l’Austria-Ungheria non esiste più. Queste frontiere orientali toccheranno paesi privi della potenza navale e militare dell’Austria, costituiti in intera indipendenza dall’Austria, organizzati allo scopo il soddisfare le legittime aspirazioni nazionali, e formanti stati non ostili al nuovo regime europeo […].

[…] Entro questa linea  [di confine], sul lato italiano saranno compresi considerevoli nuclei di popolazione non italiane, ma le loro sorti sono così naturalmente commesse dalla natura del Paese stesso con le sorti del popolo italiano, da lasciarmi considerare pienamente giustificata la loro inclusione. Tale giustificazione non vi sarebbe a mio parere nell’includere Fiume od altra parte della costa giacente al sud di Fiume entro i confini del Regno d’Italia. Fiume è per ubicazione e per tutte le circostanze del suo sviluppo, un porto non italiano, ma internazionale che serve i paesi dell’est ed a nord del golfo di Fiume […]».

Quando Wilson afferma che l’Austria-Ungheria non esisteva più, e che la linea fissata nel Patto di Londra ad est era concepita allo scopo di stabilire una frontiera assolutamente adeguata alla sicurezza dell’Italia contro ogni possibile ostilità od aggressione da parte dell’Austria Ungheria, non diceva una cosa esatta, in quanto già nel Patto si adombrava esplicitamente la costituzione di un’entità statale jugoslava, compresa la Croazia. Di più, all’art. 7 del Patto, viene detto che l’Italia, qualora ottenesse il Trentino e l’Istria secondo quanto disposto dall’articolo 4, assieme alla Dalmazia e le isole dell’Adriatico entro i limiti specificati negli articoli 5 e 6, non dovrà opporsi alla divisione dell’Albania Settentrionale e Meridionale tra il Montenegro, la Serbia e la Grecia, qualora questo fosse il desiderio di Francia, Gran Bretagna e Russia. Dunque, i confini dell’Italia non sarebbero più coincisi con l’Austria-Ungheria, già nel 1915 data per spacciata. Anche in questo caso i confini vennero predeterminati dal Patto.

Si scrive che gli Alleati volessero Fiume “assegnata alla Croazia asburgica, in modo da lasciare a Vienna almeno un fiorente porto sul mare”. Si sapeva bene, e se ne accennò anche alla Conferenza di Parigi, che l’Austria non avrebbe avuto un proprio porto; tuttavia Fiume, restituita nel 1867 all’Ungheria, avrebbe funto da porto internazionale “che serve alla Romania, Ungheria e Cecoslovacchia” (Wilson, in Aldrovandi, p. 227). Come dimostrò Orlando citando dati della Camera di commercio di Fiume, il porto solo per circa il 7-8 per cento serviva alla Jugoslavia, molto di più invece all’Ungheria, alla Galizia e alla Boemia (ibidem, 224).

Per quanto riguarda la frontiera del Brennero da assegnarsi all’Italia, la prima idea fu proprio americana con una concessione di un’autonomia agli abitanti di lingua tedesca dell’Alto Adige. Tale idea risale al colonnello House, il quale la espose al presidente Wilson il 29 ottobre 1918, cioè prima ancora dell’armistizio di Villa Giusti. Questa idea trovò subito dei fautori fra gli esperti americani dell’Inquiry, vale a dire dell’organismo istituito durante la guerra dal presidente per formulare pareri sulle varie questioni che sarebbero state discusse alla Conferenza della pace (Mario Toscano, St. diplomatica della questione dell’Alto Adige, Laterza, 1968, p. XI).

Ed è sempre Mario Toscano a rivelare un fatto poco noto, ossia che “durante la Conferenza di pace di Parigi, da parte italiana venne lasciata cadere l’offerta segreta allora effettuata dai rappresentanti di tutti i partiti della Dieta di Innsbruck della corona dell’intero Tirolo al re Vittorio Emanuele III” (Ib., p. X).

(6) Fino allo scoppio della guerra mondiale, Fiume fu un porto di considerevole importanza strategica e centro principale del sistema ferroviario che serviva Belgrado, Praga, Budapest e Zagabria. Era una delle città più floride dell’impero austroungarico, lo sbocco naturale del commercio che si svolgeva tra questa città dell’Occidente.

Il 1848 fu l’anno che segnò l’inizio d’un lungo periodo di dominazione croata, durata sino al 1867. L’anno dopo Fiume fu dichiarata un “corpo speciale” unito alla corona d’Ungheria. L’aiuto economico ungherese per realizzare programmi di rinnovamento e di modernizzazione del porto fu tempestivo, attrezzandosi per ricevere il naviglio moderno. Tra il 1869 il 1881 il tonnellaggio del traffico a vapore nel porto aumentò di sette volte e il numero delle navi entrate nel porto triplicò (M. A. Leeden, D’Annunzio a Fiume, Laterza, p. 35).

Nella città non esisteva quasi disoccupazione e la vita degli operai era veramente invidiabile grazie alla tradizione umanitaria del sistema di assicurazioni sociali ungheresi. Gli operai di Fiume godevano di un’assicurazione contro le malattie, di pensione di vecchiaia e di assistenza sanitaria. Per legge tutti gli appartamenti costruiti dopo il 1912 dovevano avere un bagno o una doccia.

Nel 1851, quasi tutta la popolazione di Fiume, grossomodo circa 12.600 persone, era  croata, popolazione che componeva la maggior parte della classe lavoratrice, con residenza a Sušak, la parte litoranea orientale della città di Fiume.  Nella seconda metà dell’Ottocento approdarono in città molti italiani che tendevano a entrare a far parte della borghesia attiva. Il censimento del 1910 mostrò che dei circa 50.000 residenti in città quasi 24.000 erano italiani, 15.000 croati e il resto di altre nazionalità. Ciò dipese dal fatto che Sušak, a grande maggioranza croata, era separata dalla città di Fiume e costituiva un comune a sé stante. Infatti, dal 1924, quando Fiume divenne parte del Regno d’Italia, Sušak fu inclusa nel Regno degli Sloveni.