martedì 31 gennaio 2012

Il vasaio


Ha un bel dire Scalfari quando scrive che le cause della situazione attuale «sono l'esplosione del debito, la finanziarizzazione dell'economia, l'emergere di nuovi attori nell'economia mondiale e la legge dei vasi comunicanti che la globalizzazione ha reso effettiva». Quella della globalizzazione non è una legge di vasi che comunicano, ma un assioma dietro al quale si nascondono precisi interessi di varia natura, anzitutto quello delle grandi società multinazionali private e statali, ossia si tratta del solito travaso di ricchezza a senso unico.

Provi il giornalista a chiedere alla Cina di vendergli una delle sue 150 maggiori società e vedrà che da quelle parti i vasi comunicano pure in inglese ma con sottotitoli in mandarino. Viceversa l’Italia, su istigazione anche di Repubblica, svende quel poco che le resta dei suoi vasi migliori, mentre lo Stato cinese controlla l’80 per cento del valore del mercato azionario nazionale, "pilotando la propria moneta, dirottando fondi in quei settori che sono favoriti e lavorando strettamente con altre società cinesi che operano all'estero”; lo Stato russo e quello brasiliano controllano allo stesso modo il 62% e il 38% delle loro società. Tanto per citare le parole del bolscevico Economist.

Scalfari scrive che tali paesi, “nostri concorrenti”, operano, “nella divisione internazionale del lavoro, nell'inesistenza dei diritti sindacali”. Del resto, osserva: “come si impedisce in un'economia aperta una concorrenza di questa natura? Con i dazi? […] blindare l'Europa (e l'Italia) con una impenetrabile cinta di protezionismo? […] quei Paesi reagirebbero […] in egual modo alle nostre esportazioni”.

E bravo, ma dov’era il nostro illuminato mentore quando il WTO dettava le “regole” del commercio, perché non ha dedicato mezzo editoriale per denunciare il fattaccio? È per effetto di tali accordi che il capitale multinazionale, ossia quelle 787 grandi corporation che controllano l'80 per cento delle più importanti imprese del mondo, ovvero i 147 gruppi che controllano il 40 per cento delle più importanti multinazionali del pianeta, può agire senza violare alcuna legge, poiché non ci sono leggi che contrastano realmente la sua azione e quelle che ci sono state scritte sotto dettatura. Ciò che per il capitale finanziario integrato è un affare, per tutti gli altri è diventata una dipendenza e una condanna.

E allora come se ne esce, visto che non potrà durare all’infinito questo stato di cose? A opporsi al cambiamento dell’attuale sistema economico non sono solo, com’è naturale, gli interessi cospicui, dominanti e predatori del capitale e di quei multimilionari che nei loro media difendono la propria interpretazione del mondo nel nome presunto della legge dei vasi comunicanti. Si registra altresì una resistenza e uno scetticismo molto diffusi negli strati sociali che più subiscono la crisi del sistema. Questo dipende da più motivi, per esempio dalla paura di perdere ciò che tanto faticosamente si è conquistato ma anche e sicuramente dall’esperienza delle rivoluzioni del Novecento, laddove il potere decisionale era nelle mani della burocrazia di partito, dove la produzione non teneva conto dei bisogni effettivi e dove l’iniziativa individuale non trovava sbocco.

Tuttavia non sarebbe necessario inventarsi nulla di straordinario perché il progresso civile ed economico che ci ha condotti fin qui ci consentisse di cambiare senza dover ripercorrere gli errori della pianificazione centralizzata e anche senza cadere nell’errore opposto in cui sembra credere l’attuale dirigenza cinese, la quale ritiene di poter fare pieno uso delle forze del mercato e di guidare l’economia con politiche macroeconomiche centralizzate. Quando l’economia di mercato sarà abbastanza forte da poter agire indipendentemente la dirigenza del partito si accorgerà, se non dell’errore (perché essa si ritiene immune), almeno dell’illusione.

«Nel cuore dei momenti di esaltazione e di depressione s’incrociano il meglio e il peggio […]. Ci manca la costanza di una volontà di vivere sempre attenta a ciò che la conforta e quella tensione che si snoda in grazia allontanando da noi la paura, la vanità, il senso di colpa e d’impotenza, tutte disposizioni propizie a far prendere una brutta piega alle cose, agli avvenimenti, e alle circostanze».

Due strade, forse nessuna


Scrive il segretario generale CGIL, signora Susanna Camusso, a Eugenio Scalfari in risposta al suo editoriale di domenica:

La Cgil oggi, come Lama ieri, mette al centro occupazione e lavoro, ma mentre allora i salari crescevano, anche se molto erosi dall'inflazione, oggi siamo alla perdita sistematica del loro potere d'acquisto e ciò rappresenta una ragione importante della recessione in atto. La distribuzione del reddito tra profitti e retribuzioni non aveva lo squilibrio di oggi. Tutti, ormai, leggono in questa diseguaglianza la ragione profonda della crisi che attraversiamo e il motivo per cui le politiche monetariste non ci porteranno fuori dal guado.

Cosa significa? Che diminuendo i salari diminuiscono i consumi interni e quindi si assiste a una minore attività produttiva. Questo è vero, ma non lo è altrettanto come “ragione profonda della crisi che attraversiamo”. Su questo dirò dopo aver letto quest’altra affermazione della Camusso:

La diseguaglianza è dettata dallo spostamento progressivo dei profitti oltre che a reddito dei "capitalisti", a speculazione (o si preferisce investimento?) di natura finanziaria. Così si riducono, oltre che la redistribuzione, anche gli investimenti in innovazione, ricerca, formazione e in prodotti a maggior valore e più qualificati.

E questo è un altro elemento di verità, ma anche in questo caso si tratta di una concausa, non della “ragione profonda della crisi che attraversiamo”. La ragione profonda, se ci vogliamo esprimere così, è la crisi che investe il processo di accumulazione capitalistico, laddove i capitali, piccoli e grandi, per sottrarsi alla morsa della caduta dei profitti e della perdita di quote di mercato a causa degli accordi internazionali sul commercio e della concorrenza dei cosiddetti BIRC, sono obbligati: 1) a trasferire la produzione nelle aree di maggior sfruttamento della forza-lavoro; 2) a cercare, lasciando la produzione, la scorciatoia della speculazione finanziaria, fenomeno non nuovo ma diventato esorbitante.

Scrive ancora la Camusso: Senza investimenti, si è scelto di produrre precarietà, traducendo l'idea di flessibilità invece che nella ricerca di maggior qualità del lavoro, di accrescimento professionale dei lavoratori, in quella precarietà che ha trasferito su lavoratori e lavoratrici le conseguenze alla via bassa dello sviluppo. In sintesi: lo spostamento sui lavoratori dei rischi del fare impresa.

Qui le ragioni diventano politiche, ma in realtà seguono scelte economiche. Si approfitta della crisi, del debito, della situazione di smarrimento e idiozia politica creata ad arte con l’uso dei media, per regolare i conti con la forza-lavoro, marcando la manovra con le parole d’ordine di produttività, flessibilità e competitività. Come se nella realtà europea e italiana fosse possibile tornare indietro di mezzo secolo senza causare gli sconquassi sociali dei quali stiamo vedendo solo i primi effetti.

La Camusso queste cose le conosce bene (“Il coro sull'importanza del rilancio della produttività trascura di cimentarsi con le cause del suo declino in Italia”), o almeno si spera. Ma non può dirle perché mettere in luce le contraddizioni fondamentali del capitalismo è considerato tabù. Almeno al suo livello e ancora per un po’.
Nella sua replica, Scalfari può fare agio sulle reticenze della Camusso in capo alle ragioni della crisi, naturalmente svolgendole del suo punto di vista: Le cause sono l'esplosione del debito, la finanziarizzazione dell'economia. L'emergere di nuovi attori nell'economia mondiale e la legge dei vasi comunicanti che la globalizzazione ha reso effettiva. […] Nella divisione internazionale del lavoro, nell'inesistenza dei diritti sindacali nei Paesi nostri concorrenti, nell'inesistenza dei diritti di cittadinanza in quegli stessi Paesi, nella povertà di milioni e milioni di persone nell'Africa centrale e settentrionale, decisi ad affrontare la morte pur di sbarcare sulle sponde mediterranee dell'Europa opulenta.

I lavoratori e le imprese europee (e italiane) debbono fronteggiare le esportazioni cinesi, coreane, indonesiane, prodotte a costi molto più bassi dei nostri e non si tratta più di pigiamini di seta o di chincaglieria di varia amenità, ma di alte tecnologie dove l'invenzione si accoppia con bassissimi costi della manodopera. Come si impedisce in un'economia aperta una concorrenza di questa natura? Con i dazi? La Camusso pensa di blindare l'Europa (e l'Italia) con una impenetrabile cinta di protezionismo? E come pensa che quei Paesi reagirebbero se non rispondendo in egual modo alle nostre esportazioni? Come pensa di fermare la de-localizzazione delle imprese italiane che hanno convenienza a portare all'estero interi settori delle loro lavorazioni? L'esempio di Marchionne non insegna nulla? Vuole la Camusso generalizzare al sistema Italia la politica ideologico-sindacale della Fiom?

Eccolo qui il nodo. Ed è un nodo gordiano che non si può sciogliere se non tagliandolo con la spada. Ma questo non può essere il compito principalmente del sindacato. Il riformismo è fallito, restano aperte due sole strade. E, forse, al punto in cui siamo, nessuna.

lunedì 30 gennaio 2012

L'incubo tedesco genera mostri


Oggi ricorre l’anniversario della nomina del signor Hitler a cancelliere del Reich. Con l’ascesa di questo lucidissimo fanatico (*), moriva la repubblica di Weimar. Come si era arrivati a questo l’ho già scritto – per certi aspetti – nel febbraio del 2010. Quali siano le analogie con l’oggi, mi pare di averlo ripetuto fin troppo spesso. Lo stesso nome del blog rinvia a un antecedente storico di non marginale rilievo per le sorti dell’Europa.

L’ostinazione con la quale la Germania della cancelliera Merkel persegue le sue politiche di “austerità” e “rigore” ricorda molto da vicino quelle del cancelliere Heinrich Brüning (1930-’32) negli ultimi due anni di Weimar. Questi era considerato un esperto di finanza, ossia l’uomo giusto data la situazione della Grande Depressione (non bisogna confondere la famosa iperinflazione tedesca del primo dopoguerra con la fase di deflazione e della crisi dei Trenta). Il parlamento tedesco era allo sbando dopo il fallimento della Grande Coalizione, non si riusciva a trovare una maggioranza stabile e la maggioranza che sosteneva Brüning aveva una politica estera aggressiva.

Per quanto riguarda la situazione finanziaria, il debito della Germania degli anni Venti derivava dalle riparazioni di guerra e dalla difficoltà di commercializzare tale debito (anche gli altri paesi europei erano strozzati dal debito causato dai prestiti di guerra). A partire dal 1928 i prestiti americani di lungo termine alla Germania cominciarono a diminuire a seguito di voci preoccupanti sul rientro dal debito. Il piano Young di pagamento del debito (sul dettaglio degli accordi dell’Aja non mi soffermo, così come non mi soffermo sul ruolo giocato da quel serpente di Horace Greeley Hjalmar Schacht) imponeva che si adottassero misure di austerità interna che gli ambienti politici di destra ed economici consideravano con estremo favore (tanto a pagare sono sempre i soliti).

Brüning, un cattolico che nelle sue memorie scrive di aver lavorato da cancelliere per il ripristino della monarchia, aveva le mani legate, dovendo la Germania rimborsare 2 miliardi di Reichsmark all’anno, una cifra mostruosa. Tra l’aprile e il giugno 1930 il sistema parlamentare si sfaldò. Brüning procedette con una serie di decreti a una riforma finanziaria e fiscale con tagli di bilancio e altre misure di natura fortemente recessiva (**). Sommandosi al tracollo del commercio internazionale e al peggioramento del ciclo economico, i provvedimenti misero in ginocchio la Germania. I disoccupati passarono da 3,5 milioni del 1930 a 6 milioni del 1932. Più Brüning perseguiva nella sua politica di rigore e più si aggravava la situazione economica e si sfaldavano le forze che lo appoggiavano con lo spostamento dell’elettorato verso i partiti nazionalisti e di destra.  Già nelle elezioni del settembre 1930 i nazisti passarono dal 2,5 al 18,3 per cento dei voti, diventando il secondo partito.

Quando Hitler salì al potere la moratoria sulle riparazioni dei danni di guerra c’era già stata, dapprima da parte degli Usa e poi, ma assai tardivamente, anche da parte della Francia e Inghilterra. Il nuovo cancelliere si dedicò a una politica di spesa per gli armamenti, per il miglioramento dell’agricoltura (settore importante del suo elettorato) e ai lavori pubblici (questi ultimi ebbero però un peso minore di quanto vorrebbe la leggenda sulle autostrade).

Torniamo all’oggi. Mario Monti sembra consapevole della sua posizione e dei rischi che la situazione politica corre, come risulta dalla sua intervista a Die Welt e poi, anche se meno esplicitamente, in quella al NYT:

“If this strong movement towards discipline and stability is not recognised as taking place, and a certain approach to financial aspects does not gradually evolve, then there will be a powerful backlash in the countries which are being submitted to a huge effort of discipline”.

C’è però una differenza sostanziale tra la situazione tedesca, europea e mondiale degli anni Trenta e quella di oggi. Magari la racconto un’altra volta.

(*) Non si può spiegare un periodo politico con le categorie dell'assurdo e della follia.

(**) Tra i diversi provvedimenti la ultracontroversa poll tax, imposta non progressiva che si applicava con la stessa aliquota indistintamente a tutti di cittadini. Tuttavia Brüning non mancò di far costruire due nuovi incrociatori per la marina (una faccenda che ricorda i “nostri” aerei F-35). A ciò si aggiunse la svalutazione della sterlina alla quale non seguì quella del Reichsmark con conseguenze catastrofiche. Nell’immaginario popolare la svalutazione era inscindibilmente legata all’esperienza iperinflattiva di alcuni anni prima. Inoltre una svalutazione della moneta tedesca avrebbe comportato un appesantimento delle proprie obbligazioni estere. Il 13 luglio 1931 la Danat-Bank fallì dando l’avvio al tracollo generale.

Compagno Vinh Long



Questa mattina buttando l’occhio sul quadretto dove c’è la lettera del Patriarcato che mi comunica l’esclusione dai sacramenti (can. 843), l’esclusione dall’incarico di padrino e simili (cann. 874 e 893), la necessità dell’autorizzazione al matrimonio cattolico (1071), la privazione delle esequie ecclesiastiche (1184), insomma gli accessori tipici della scomunica latæ sententiæ, ho visto che la data del mio battesimo segue di soli quattro giorni la nascita. Eh già, il mio spread sulle speranze di sopravvivenza era pari all’attuale somma di quello greco e portoghese sul debito. Ma in quel frangente ho avuto dalla mia parte l’angelo custode che poi, in seguito, ha scelto di andarsene a puttane. Comunque pensando a cosa succede in giro dovrei concludere che ho avuto un certo culo (vedi un po' la foto qui sopra). Ho negli occhi per esempio le immagini di quegli operai dei treni licenziati che protestano, tra l’altro con ‘sto cazzo di freddo, sopra un palo di decine di metri. La loro vita non vale nulla e la nostra non fa differenza. E quella di un amministratore delegato quanto può valere?

Noi piccoli borghesi con le chiappe al caldo siamo fatti così, abbiamo la lacrimuccia facile e la rabbia come predisposizione. E allora, per aggravare la situazione, ho messo su un disco di qualche tempo fa. Ascoltandolo non si può non chiedersi come sia stato possibile tollerare tanto e poi arrivare a questa situazione. Dare spago agli estremisti che hanno dichiarato estremista tutto ciò che metteva solo in dibattito un cambiamento della situazione. Una canzone si conclude con queste parole: “il fascismo non passerà”, e un’altra inizia così: “era la sua casa, era il suo paese … ”.

domenica 29 gennaio 2012

Facinorosi


“Nel cervello del capitalista – scrive Marx ne Il Capitale – si rispecchia solo l’apparenza dei rapporti di produzione”; per i giornalisti, in generale e data la loro posizione di classe, va anche peggio poiché devono sublimare encomiasticamente tale apparenza. È il caso di Eugenio Scalfari che intitola il suo editoriale di oggi: Una lettera per la Camusso che viene da lontano. Anche Scalfari viene da lontano, infatti ricordiamo il colore della sua camicia e l’orgoglio per i pantaloni a sbuffo alto, il suo inossidabile odio di classe mascherato da oggettività fattuale e irriducibile necessità. Il topos odierno recita:
 
«Se il livello salariale è troppo elevato rispetto alla produttività, il livello dell'occupazione tenderà a scendere e la disoccupazione aumenterà perché le nuove leve giovani non troveranno sbocco». Poi precisa: «Debbo a questo punto avvertire i lettori che il testo che hanno fin qui letto non l'ho scritto io e tanto meno il ministro Elsa Fornero, anche se probabilmente ne condivide la sostanza. Si tratta invece d'una lunga intervista da me scritta praticamente sotto dettatura di Luciano Lama, allora segretario generale della Cgil». A cui Scalfari fa seguire esplicita una minaccia: «Era il gennaio del 1978, un anno di gravi turbolenze economiche e sociali, che culminò tragicamente pochi mesi dopo col rapimento di Aldo Moro e poi con la sua esecuzione ad opera delle Brigate rosse».

Prendiamo la prima proposizione attribuita alla buonanima di Lama, e cioè “il livello salariale troppo elevato rispetto alla produttività”. Si vuol dire esattamente questo: il livello di sfruttamento, cioè di estorsione del plusvalore, è troppo basso rispetto alla media della produttività della forza-lavoro a livello di competitività internazionale (*). Questo può essere vero, ma a cosa è dovuto? E soprattutto perché se ne dovrebbe fare carico la forza-lavoro, con i licenziamenti e il taglio dei salari, come se fossero gli operai i colpevoli del misfatto? Insomma, da cosa dipende la relativa bassa produttività dell’industria nazionale?

In Germania, le due maggiori industrie di produzione di pannelli solari hanno chiuso. Dato che la vulgata corrente ritiene in generale l’operaio tedesco più produttivo di quello italiano, com’è stato possibile tale fatto? Per la concorrenza cinese. In Europa si stimano ufficialmente 23 milioni di disoccupati e i proprietari di schiavi chiedono di lavorare di più e i salari sono diminuiti. Domanda: la deindustrializzazione, più accentuata in Italia per ragioni di struttura produttiva ma generalizzabile all’Occidente intero, dipende quindi dal livello salariale troppo elevato? Per i capitalisti e i loro servitori è così, ma il “troppo elevato” è in rapporto ai salari cinesi, indiani, turchi, ecc., a condizioni di sfruttamento bestiali. Ecco quindi perché i problemi dei capitalisti diventano problemi dei salariati e le sofferenze che questi ultimi sopportano, semplici cazzi loro (**).

Chi con il proprio agire ha determinato questo stato di cose? L’esosità dei salariati, la malignità operaia? O invece la concreta oculatezza dei signori imprenditori lanciati verso migliori occasioni di “remuneratività”? Tra alcuni anni, diversi paesi d’Europa, forse tutti, saranno nell’abisso di una crisi produttiva irreversibile. Sarà allora urgente trovare un bersaglio diverso da quello dei salari sul quale scaricare la responsabilità della crisi. Pronostici Maya e collasso finanziario permettendo, non mancherà chi dedicherà allora il suo bel canto a una nuova teodicea in sostituzione di quella attuale già logoratissima.

(*) Il valore delle merci sta in rapporto inverso alla forza produttiva del lavoro; e altrettanto il valore della forza-lavoro, perché determinato da valori di merci. Invece, il plusvalore relativo sta in rapporto diretto alla forza produttiva del lavoro. Cresce col crescere della forza produttiva, e cala col calare di essa (Il Capitale, I, cap. 10).

(**) […] entro il sistema capitalistico tutti i metodi per incrementare la forza produttiva sociale del lavoro si attuano a spese dell’operaio individuo; tutti i mezzi per lo sviluppo della produzione si capovolgono in mezzi di dominio e di sfruttamento del produttore, mutilano l’operaio facendone un uomo parziale, lo avviliscono a insignificante appendice della macchina, distruggono con il tormento del suo lavoro il contenuto del lavoro stesso, gli estraniano le potenze intellettuali del processo lavorativo nella stessa misura in cui a quest’ultimo la scienza viene incorporata come potenza autonoma; deformano le condizioni nelle quali egli lavora, durante il processo lavorativo lo assoggettano a un dispotismo odioso nella maniera più meschina, trasformano il periodo della sua vita in tempo di lavoro, gli gettano moglie e figli sotto la ruota di Juggernaut del capitale. Ma tutti i metodi per la produzione di plusvalore sono al tempo stesso metodi dell’accumulazione e ogni estensione dell’accumulazione diventa, viceversa, mezzo per lo sviluppo di quei metodi. Ne consegue quindi, che nella misura in cui il capitale si accumula, la situazione dell’operaio, qualunque sia la sua retribuzione, alta o bassa, deve peggiorare. La legge infine che equilibra costantemente sovrappopolazione relativa, ossia l’esercito industriale di riserva da una parte e volume e energia dell’accumulazione dall’altra, incatena l’operaio al capitale in maniera più salda che i cunei di Efesto non saldassero alla roccia Prometeo. Questa legge determina un’accumulazione di miseria proporzionata all’accumulazione di capitale. L’accumulazione di ricchezza all’uno dei poli è dunque al tempo stesso accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e degradazione morale al polo opposto ossia dalla parte della classe che produce il proprio prodotto come capitale (Ibidem, cap. 23).

Aspettando Godot


“È necessario sognare” (Lenin)

Scrive un attento lettore in un commento:

Siamo al punto cruciale: "il capitale l'unica razionalità riconosciuta è il profitto". Ma non concordo sull'affermazione che gli impomatati di Davos nulla sanno della crisi del capitalismo perché se ne intuissero la portata si interrogherebbero sui motivi di tale fallimento. Questo sarebbe fare loro l'unico torto che non hanno. E' stato raggiunto, nella crisi, il rischioso punto del non ritorno e ne sono freddamente consapevoli. È l'ora dei duri senza esitazioni. Li tradisce la negazione intransigente verso qualsiasi inutile provvedimento che abbia parvenza di equità e di giustizia; il ripetere e far ripetere, ai loro reggicoda, formulazioni tanto tetragone quanto fastidiosamente stolide. E' crisi, mi sembra, tutta interna al sistema del capitale ove le storiche forze oppositive ed alternative del lavoro, sono spettatrici tragicamente passive o colpevolmente distratte. Non c'è spazio per il riformismo socialdemocratico e ce n'è ancora meno per i giovanili sogni di fulgide albe rivoluzionarie. E' uno scontro mortale tra il nuovo capitale della speculazione finanziaria ed il vecchio capitale della produzione delle merci. Il primo guadagna sul fallimento del secondo. Crono mangerà i suoi figli ma non salverà il trono. In attesa di Zeus.

* * *

Vedo di precisare il mio punto di vista. Ho scritto che la produzione per sé stessa, ossia la produzione di plusvalore, è l’unica razionalità riconosciuta dal capitale. La finanza (cioè il sistema economico integrato) è diventata, non da oggi, il modo per controllare il processo di produzione del plusvalore e per spartirsi il bottino a rubamazzo. Fin qui, siamo d’accordo. Non intendevo dire, temo per mancanza di chiarezza, che gli impomatati di Davos nulla sanno della crisi del capitalismo perché se ne intuissero la portata si interrogherebbero sui motivi di tale fallimento. Tutt'altro, i proprietari del sistema e i loro maggiori funzionari sono consapevoli della faccenda. Ci mancherebbe. Tuttavia, ed entro nel merito dell’obiezione sollevata, bisogna tenere conto che anche tra le coscienze più pragmatiche di questo sistema di rapina vale il fatto che non è la coscienza a determinare l’essere ma, viceversa, è la posizione di classe a determinarne la coscienza. In altri termini, la coscienza individuale può divenire coscienza soltanto realizzandosi nelle forme ideologiche dell’ambiente che gli sono date ed è perciò che le idee sociali prevalenti sono mutuate dall’ideologia della classe dominante.

Nel concreto: la borghesia, cioè i padroni del mondo, i proprietari di schiavi, il management del sistema, non può ignorare la natura di rapporti di produzione, così come le contraddizioni che si palesano con la crisi nelle sue varie manifestazioni e i rischi che essa comporta. Tuttavia le forme ideologiche che ispirano nel complesso le risposte della borghesia non possono mettere in causa le ragioni stesse della sua esistenza come classe. E per questo che si avvale di specialisti retribuiti per escogitare risposte corrispondenti ai propri interessi sia sul piano ideologico che pratico. Non per nulla l’economia politica è diventata in misura sempre più pregnante la scienza sociale per antonomasia del capitalismo ed è tutt’altro che fortuito che essa tenda a individuare le cause della crisi soprattutto negli “squilibri” della sfera della circolazione delle merci e della bulimia finanziaria.

I padroni del mondo e i loro funzionari tendono quindi a cogliere e mistificare le manifestazioni più esterne della crisi e a centrare il dibattito su di esse. Ciò non significa che essi non si comportino, in taluni casi, secondo schemi di razionalità tendenti a difendere, sotto la spinta di necessità oggettive, i propri interessi. Ne è un caso, per esempio, un aspetto importante della cosiddetta globalizzazione, ossia la delocalizzazione dei capitali che mira, da un lato, a massimizzare i profitti e perciò, dall’altro lato e al contempo, a contrastare la loro caduta tendenziale. Ne sono un altro aspetto, per motivi in parte analoghi, le privatizzazioni del settore pubblico e le liberalizzazioni che piegano all’agire del capitale speculativo quei settori dei servizi finora esclusi e protetti.

Per non tirarla in lungo e venire alla questione dell’atteggiamento del proletariato e sulla prevalente negatività priva di speranze che colgo nelle parole del nostro amico, osservo, come del resto è noto, che non basta essere dei salariati o essere precipitati in una condizione proletaria per avere una coscienza di classe. Il mutamento ovviamente non può essere così meccanico. La formazione di una coscienza realmente antagonista e non solo genericamente protestataria, implica un processo di lotta, anche contro l’ignoranza e le false rappresentazioni elargite a piene mani dal sistema mediatico dei padroni e che corrompe tutti con la menzogna e l’ipocrisia; contro chi ci divide e ci spinge gli uni contro gli altri creando un inconciliabile antagonismo degli interessi e quindi contro gli agenti della propaganda che mentono cercando di giustificare tale conflitto tra soggetti della stessa condizione sociale; contro le credenze e la morale filistea, la religione che copre con il lenzuolo del mito crocefisso la devastazione morale e materiale causata dal lavoro salariato e dall’oppressione di classe.

Chiaro che avremmo altre cose da dirci, ma forse non è il caso di raccontarcele tutte con troppa franchezza nel blog. Perciò, nel ringraziare il lettore per la sua acuta osservazione, sperando di aver risposto in qualche modo sul punto, richiamo l'attenzione sulla citazione leniniana in esergo. Non è “euristica”, ma di questi tempi, come già in altri, aiuta pure quella.

sabato 28 gennaio 2012

A Davos



A Davos, una cittadina svizzera costruita modernamente negli anni Sessanta da braccia prevalentemente italiane, si riuniscono ogni anno i rappresentanti dei capitalisti, dei funzionari del capitale e la gentaglia che cura i relativi interessi sul piano politico e legislativo. Insomma, non bisogna farsi trarre in inganno dai loro curricula, si tratta della peggiore feccia dell’umanità, di elementi socialmente pericolosissimi.

Questi ceffi impomatati, profumati e blindati (se non fossero scortati lo spread sulle loro vite sarebbe più di quello greco), sono convinti di sapere bene e tutto sulle cause della crisi del capitalismo, in realtà non sanno assolutamente un cazzo. Soprattutto perché essi non hanno alcun interesse a porsi una domanda fondamentale, la quale chiarirebbe loro due cose, sia in generale e anche in dettaglio: 1) i motivi del fallimento del capitalismo e 2) la conseguenza che li riguarda individualmente, ossia l’essere gli zombie di questo fallimento.

Essi sono convinti che il capitalismo, presto o tardi, uscirà dalla crisi e, al pari di altri miserabili, che questo sistema, il modo di produzione capitalistico, si fondi sulla “distruzione - costruzione”. In realtà questo è il solo modo di agire, non il fondamento del sistema. Al capitale non interesserebbe nulla di rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali se non nella misura in cui tale incessante mutamento, la “distruzione - costruzione”, non fosse funzionale all’unico aspetto che realmente è cogente alla sua esistenza: l’accumulazione. La produzione di plusvalore e quindi la creazione di nuovo capitale.

Se questi estimatori crepuscolari del capitalismo avessero per la dialettica un minimo di stima, capirebbero anche che l’enorme processo di sviluppo delle forze produttive capitalistiche costituisce la base contraddittoria di questo processo e che perciò “come il sistema dell’economia borghese si è venuto sviluppando passo a passo, così avviene anche per la sua negazione, che ne è il risultato ultimo”.

Al capitale non interessa nulla se distrugge l’ambiente in cui viviamo per costruire armi o cibo avvelenato. Torno a ripetere ancora una volta anche in questo post: il prodotto del processo di produzione capitalistico non è né semplice prodotto (valore d’uso) né semplice merce, cioè prodotto dotato di un valore di scambio; il suo prodotto specifico è il plusvalore.
Non desidero, anche per brevità e per non ripetermi, addentrami negli aspetti tecnici della crisi, ma porre in evidenza un aspetto precipuo (il reale fondamento !!!), e denso di conseguenze anche sul piano generale, di questo sistema economico e cioè che per il capitale l’unica razionalità riconosciuta è il profitto. È evidente che le forze produttive capitalistiche essendo interessate esclusivamente a questo aspetto, cioè a spremere plusvalore, hanno del tutto trascurato aspetti e problemi che sono invece fondamentali per la semplice sopravvivenza delle specie, in primis quella umana.

venerdì 27 gennaio 2012

Se Zamparini avesse fatto la Bocconi



Ieri sera nello specchio deformato della ex favola italiana si poteva vedere un ex commerciante e attuale presidente di una squadra di calcio dire cose che sembravano dell’altro mondo: per creare ricchezza non basta liberalizzare i servizi, bisogna produrre. Chissà come si sono messi a ridere quelli che hanno fatto la Bocconi! Nella stessa trasmissione a un politico antipaticissimo e arrogante, insomma un leghista, gli capitava di fare una considerazione giusta, perciò storica: all’origine della crisi industriale italiana c’è 1) la delocalizzazione, ossia la globalizzazione dei capitali che possono fare ciò che vogliono, e 2) l’euro. Su questi temi centrali non si è voluto discutere preferendo estendere il conforto mediatico ai camionisti in sciopero e ai pastori sardi, entrambe le categorie sempre in attesa di capire se hanno compiti rivoluzionari reali.

* * *

I dati del 2010 di Bankitalia sulla distribuzione dei redditi e della ricchezza: il 14,4% della popolazione versa in una situazione di povertà a causa di un reddito insufficiente. Oggi la situazione non può essere migliorata, tutt’altro. Il 10% delle famiglie più ricche possiede il 46% della ricchezza totale, stimata in circa 9 mila miliardi di euro. In media circa 6 milioni di italiani possiedono una ricchezza di quasi 4200 miliardi, circa 700 mila euro a cranio, contro 54 milioni di persone che in media hanno un patrimonio di circa 90 mila euro. Tradotto: il 10-20 per cento delle persone più povere non ha nulla di ricchezza e il 70-80 per cento ha un patrimonio che corrisponde al valore di un modesto alloggio. Oltre il 21% delle famiglie non ha neanche quello e vive in affitto con i redditi che sappiamo.

Negli ultimi 20 anni il reddito è cresciuto poco, ma quello reale dei lavoratori autonomi è aumentato del 15,7%, quasi 5 volte di più del 3,3% dei lavoratori dipendenti. La specificità della crisi italiana è in questi dati che confermano come la progressiva pauperizzazione del lavoro dipendente a fronte di un welfare sempre più in via d’estinzione è alla base della caduta della domanda, ossia dei consumi, anche quelli alimentari, come confermano i dati Istat sulla vendite al dettaglio.

Ieri l’altro il massimo dirigente dell'agenzia delle entrate ha denunciato che l'evasione fiscale tocca i 120 miliardi l'anno. Nessun salariato o pensionato può evadere. Ad evadere in massa sono proprio coloro che più guadagnano. E questo spiega perché molti ristoranti sono pieni e ci siano in circolazione centinaia di migliaia di auto di lusso. E anche perché non riesca da mesi a trovare un idraulico meno ladro della media Istat per farmi fare un lavoro in casa. Anzi, non mi fanno nemmeno il preventivo. Figuriamoci il resto.

* * *
Quando si parla di privilegiati non si fa più riferimento, come un tempo, alle prebende dei boiardi di Stato, ma ai salariati disoccupati e ai pensionati che gravano sul rendimento degli interessi del debito pubblico, che intanto diminuisce e lo spread pure, cosicché Scalfari può cantare vittoria. Anche se non può dirlo, la Bce sta comprando su tutti i fronti obbligazioni di Italia e Spagna a valanghe. Naturalmente la Merkel lo sa. Le banche sono state inondate di euro in cambio della garanzia effimera di altre obbligazioni di Stato. A febbraio ci sarà un nuovo maxi prestito alle banche a interessi sempre ridicoli. In questo modo si spera di prendere due piccioni con una fava: salvare il culo alle banche e dal fallimento gli Stati. Quanto potrà durare questo gioco delle tre carte? Non all’infinito.

P.S.: oggi nel blog di Grillo c’è questa frase: Caro Rigor Mortis, a quando la liberalizzazione delle banche italiane, tra le più care d'Europa? Ha capito tutto. Più tardi le nazionalizzano e maggiore sarà il disastro.

1492



Oggi si celebra la Giornata della Memoria e Malvino (ritornato in forma smagliante dopo un periodo di ritiro spirituale) rammenta allo smemorato ministro di turno che i ghetti sono un’istituzione ecclesiastica della quale i cattolici ubi et orbi possono vantare gloria. Da parte mia aggiungo che la data di tale Giornata della Memoria è stata scelta in relazione all’anniversario della liberazione di Auschwitz, avvenuta nel 1945 a opera dell’Armata rossa,  come tutti sanno (tranne il signor Benigni che il lager lo fa liberare dagli americani sennò l’Oscar non glielo davano).

Sarebbe bene però ricollegare tale data anche ad altri fatti e non solo, giustamente, all’istituzione dei ghetti, i quali furono conseguenza diretta, appunto, di un altro episodio che riguarda la data antonomastica con cui si è soliti segnare l’inizio dell’epoca moderna: 1492. Nel nostro caso non per via di Colombo Cristoforo, ma per la cacciata degli ebrei sefarditi (*) dalla Spagna avvenuta subito dopo la reconquista e la conseguente strage di arabi spagnoli (500 dei quali furono inviati come schiavi da adibire alle galee al Papa, quali graziosissimo dono da parte dei cattolicissimi sovrani).

(*) Sefar = Spagna. Invece gli ebrei aschenaziti sono quelli provenienti dall’Est europeo, discendenti non dagli ebrei di Palestina ma dai cazari (vedi qui, ma soprattutto qui e qua).

Ospite lo scoglio

giovedì 26 gennaio 2012

Un teorico ribelle alla gabbia della realtà


di Roberto Ciccarelli - il Manifesto di oggi


Praticare la chirurgia dei tagli su Marx - ha scritto Maximilien Rubel – significa effettuare l'ablazione di ciò che nel suo pensiero si oppone a ogni marxismo inquisitorio e a ogni comodo liberalismo. In questo assunto, collocato da Marcello Musto in esergo al suo volume Ripensare Marx e i marxismi (Carocci, pp.373, euro 33), possono essere riassunte le vicende editoriali, filologiche e politiche che hanno visto protagoniste - per oltre un secolo - le pagine parzialmente edite, o del tutto inedite, dell'opera marxiana. Finalmente sottratto alla conoscenza approssimativa di un testo, di cui a lungo si è conosciuto solo il mito ma non la lettera, oggi Marx sembra tornare a parlare in prima persona.

Musto ne ripercorre l'avventurosa genesi alla luce della nuova edizione delle opere complete - la cosiddetta «Mega 2» che prevede la pubblicazione di 114 volumi. Tra i molti Marx che continuano ad essere indispensabili, ne segnala almeno tre. Quello ossessionato dalla miseria economica, dalle tragedie familiari e dalle tumultuose vicende politiche che videro la nascita della Prima internazionale, insomma il vissuto storico che molti anni fa nutrì un'enorme quantità di biografie e storie politiche. Oggi questi libri è difficile trovarli persino sulle bancarelle dell'usato.

Musto si sofferma anche sul Marx critico del modo di produzione capitalistico, ricercatore enciclopedico che ne intuì la capacità di sviluppo a livello mondiale, meglio di qualunque altro studioso della sua epoca. E, infine, c'è il Marx teorico del socialismo che, sorpresa, aveva tempestivamente ripudiato la possibilità di un «socialismo di Stato» propugnata da Lassalle e da Rodbertus. Alla luce di questo schema, che riporta Marx alla sua lettera e scuote la sua immagine anchilosata da un punto di vista, si direbbe, «libertario», Musto ricostruisce la storia delle «ablazioni» del testo originario di Marx, insieme ad una corretta prospettiva sulla sua opera. Così facendo egli ristabilisce le responsabilità «scientifiche» di Friedrich Engels, co-autore e primo editor di Marx, e non solo dei due volumi inediti del Capitale, diciamo pure le sue intrusioni e incomprensioni praticate sul corpo vivo della lettera marxiana che, in gran parte, il filosofo aveva lasciato in bozze al momento della morte. È a partire dalle responsabilità di Engels che Musto ricostruisce l'ordito di un giallo editoriale e politico.

Già nel 1897 Antonio Labriola scriveva: «Il leggere tutti gli scritti dei fondatori del socialismo scientifico è parso fino ad ora come un privilegio da iniziati». È come la storia della «lettera rubata» di Edgar Allan Poe: tutti ne parlano, nessuno l'ha letta. E così è stato con Marx. Lo scarso interesse, o la vera incoscienza, del partito socialdemocratico tedesco, i conflitti interni, condannarono i suoi scritti all'oblìo. Furono pubblicati manoscritti, frammenti, opere edite parzialmente, o reinventate all'insegna di un determinismo che poco assomigliava al metodo marxiano. Tutto il resto fu messo nei cassetti. Non diversamente accadde dopo la rivoluzione sovietica quando a Mosca venne progettata l'edizione completa delle opere, un periplo infinito mai concluso e poi travolto dal crollo del Muro. Nel turbine di queste vicende, la lettura marxiana ha resistito alle purghe staliniane, rimbalzando in tutto il mondo nelle lotte operaie, scomponendosi nelle trame dei «marxismi occidentali», orientali, eretici o umanistici, confluendo in percorsi originali come ad esempio quelli dei Grundrisse «scoperti» prima da Rjazanov negli anni Venti, poi nel 1948 quando Roman Rosdolsky incappò in una copia rarissima di quelli che sono stati anche, ma non solo, i materiali preparatori del Capitale. Nei Lineamenti fondamentali [Grundrisse], Vitalij Vygoskij nel 1965 scoprì le potenzialità inesplorate dell'ultima stagione marxiana: il metodo dell'astrazione reale, della tendenza, il general intellect o l'individuo sociale. Ciò che colpisce in queste vicende è l'approssimarsi ad una verità che sfugge, ma che lascia dietro di sé tracce ponderose, poi tradotte in tutto il mondo. È stato così per i Grundrisse e, prima, per i Manoscritti economici-filosofici.

Pur incompleto, tradotto male, o occultato, Marx è sempre stato uno e molteplice, pensiero in azione e in conflitto con se stesso, opera in corso di definizione, anche editoriale. Restituirlo, come intende fare Musto, alla sua lettera non significa imprigionarne il pensiero in una filologia, come se la lettera rubata di Poe potesse tornare al suo posto. Ed è proprio questa, in fondo, la «verità» che il «marxismo» - quello «ufficiale», terzinternazionalista da Comintern, oppure quello declinato nei vari comitati centrali «occidentali» e «orientali» - non è mai riuscito a rubare a Marx: l'invenzione di un metodo aperto ad alleanze analitiche e politiche, capace di affermare solo una verità storica, geneticamente costituita a partire dalle potenzialità del reale.

Per questa ragione non esiste una sola lettera in Marx, né una sola lettura di Marx, sebbene oggi sia possibile ricostruire il percorso erratico del suo pensiero in volumi curati in maniera impeccabile. La ricostituzione di questo patrimonio permette di spiegare come il marxismo abbia da subito moltiplicato fonti, destinazioni e specificità del suo messaggio e non possa essere riducibile alla storia di un'opera da mettere in un museo. Il fatto che Marx abbia raramente terminato un libro, dedicandosi all'apertura di nuovi cantieri, esplorando infinite
connessioni dalle scienze naturali all'economia politica, dalla matematica alla filosofia, dimostra l'eclatante modernità di un'opera-mondo, come anche la sua molteplicità al di là di ogni perimetro «marxista». Non si spiegherebbero altrimenti le alleanze che, nel corso del Novecento, sono state siglate tra i marxismi e le scienze umane, gli strutturalismi, o le teorie critiche, i postcolonial studies, e soprattutto le lotte operaie, anti-coloniali, quelle per la «soggettività» (il femminismo o il queer, ad esempio).

Ci vorranno anni per completare la «Mega 2», ma anche questa è un'occasione per ribadire il gesto di Marx: dislocare l'analisi del capitalismo, e la necessità del superamento di questo sistema polimorfo, al di là di un'unica lettura marxista. Secondo Rubel le disiecta membra dell'opera marxiana ieri hanno autorizzato i deliri stalinisti, e oggi restano esposte alle banalità del liberalismo: il marxismo come sociologia della globalizzazione. A parte il fatto che c'è sempre la libertà di opinione, anche quella di dire idiozie, ma questi sono rischi innocui. Ciò che è più importante è che la morte del comunismo in un solo paese, e il suicidio del neo-liberismo, hanno liberato i marxismi da molti equivoci. E tuttavia aspettiamo ancora le prove che dimostrino la loro capacità di ricavarsi un posto nel mondo per trasformarlo, non per rimpiangere ciò che non è ancora stato.

Sulla grande scoperta teorica di Schumpeter e dei suoi seguaci


Per fortuna ci sono loro, i neoilluministi che chiariscono il mondo sia ai “critici che [a]gli apologeti del capitalismo di fronte alle problematiche che vengono poste dalla grande crisi globale” (si riferiscono segnatamente a un articolo pubblicato sul Corriere, ma poi un po’ a tutti coloro che non fanno parte del loro seguito). Brancolavamo nelle nebbie e finalmente una luce ci apre la strada alla comprensione, basta “sapere qualcosa attorno alle idee di un economista importante come Schumpeter per riuscire a capire che “distruzione” e “creazione” sono inestricabilmente unite nella dinamica del capitalismo” (*). Capperi, e dire che noi poveretti eravamo ancora rimasti a Hegel, ad una concezione della realtà come processo che si sviluppa mediante contraddizioni (**). 

E soprattutto non ci eravamo accorti che “la Grande Depressione che seguì il 1929 fu effettivamente risolta solo con la II Guerra Mondiale, non con il keynesismo, che venne attuato dopo, nei primi decenni del nuovo ciclo sistemico di accumulazione in occidente, a direzione Usa, aperto da Bretton Woods”.

Il keynesismo fu attuato dopo? Prendo nota della novità. Credevo, come moltissimi e come ho scritto anche solo tre giorni fa, che il New Deal fosse un fatto reale che attenuò la morsa della depressione. Invece ora scopro che le politiche di sostegno, quelle che vanno sotto il nome di keynesiane (bisogna pur dare un nome alle cose), furono attuate solo dopo la guerra. E anche vero che a mia volta  precisavo che tali politiche economiche non superarono la strozzatura se non “con la guerra proclamata da quell’Hitler che fu il prodotto più genuino della crisi e dell’imperialismo”. E infatti, aggiungevo, ebbero effetti ben maggiori nel dopoguerra con le nuove produzioni di massa, l’urbanizzazione e la ricostruzione. Ma, appunto, non furono una novità del dopoguerra.

Scrivono i nostri esperti: «La Grande Depressione del 1929 è stata, invece, il primo atto della crisi sistemica della nuova fase di sviluppo del capitalismo – quella dei funzionari del capitale – ad egemonia statunitense. La transizione dal ciclo precedente, ad egemonia britannica – che rappresentava il capitalismo del periodo propriamente borghese – iniziò con la Grande Depressione 1873-1896, che sfociò nella finanziarizzazione della Belle Epoque, nella crisi del 1907 e poi nella I Guerra Mondiale».

Ah, ma allora è storia vera quella del “secolo americano”! Noi ingenui si credeva a una boutade, una di quelle frasette tanto per darsi un tono. E quindi è pure degno di considerazione quanto ebbe a scrivere Hobsbawm: «La struttura internazionale formale finì quindi per divergere sempre più dalla struttura reale. La politica internazionale divenne politica planetaria, di cui almeno due potenze non-europee [Usa e Giappone] dovevano intervenire con efficacia» (Il trionfo della borghesia 1848-1875, p. 99). E per il resto basta leggere quanto riporta Lenin citando Vogelstein, il quale scriveva nel 1910, oppure scopiazzare direttamente il suo saggio sull’Imperialismo che è del 1916.
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(*) «Questo processo di 'distruzione creatrice' costituisce il dato fondamentale del capitalismo: è in questo che consiste, in ultima analisi, il capitalismo, ed ogni impresa capitalista deve, volente o nolente, adattarvisi». Schumpeter si riferisce al fatto che il progresso tecnico consista nella creazione di nuovi prodotti e industrie, in tal modo sono eliminati posti di lavoro nelle vecchie industrie e ne sono creati nelle nuove.
Queste sono le “scoperte” a cui si rivolgono i teorici dell’antimarxismo mascherato. Non serve andare a cercare postille in inediti marxiani per trovare decine di citazioni che confermino questa cosa:
«La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l'immutato mantenimento del vecchio sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l'ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l'incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l'epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti.
Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni.
Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un'impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi dell'industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto le materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo dal paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All'antica autosufficienza e all'antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. E come per la produzione materiale, così per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune. L'unilateralità e la ristrettezza nazionali divengono sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale» (Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, I capitolo).
Alla lettera, però, tale processo di 'distruzione creatrice' non costituisce “il dato fondamentale del capitalismo”, come ritiene Schumpeter, ma solo il meccanismo attraverso il quale esso tende a superare le crisi di valorizzazione. Non per nulla il movimento contraddittorio della società capitalistica sono le alterne vicende del ciclo periodico percorso dall'industria, e il punto culminante di quelle vicende la crisi generale. Invece il dato fondamentale del capitalismo, ciò che lo distingue essenzialmente dai precedenti modi di produzione, è la produzione di plusvalore.

(**) «Nella sua forma mistificata, la dialettica divenne una moda tedesca, perché sembrava trasfigurare lo stato di cose esistente. Nella sua forma razionale, la dialettica è scandalo e orrore per la borghesia e per i suoi corifei dottrinari, perché nella comprensione positiva dello stato di cose esistente include simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso, la comprensione del suo necessario tramonto, perché concepisce ogni forma divenuta nel fluire del movimento, quindi anche dal suo lato transeunte, perché nulla la può intimidire ed essa è critica e rivoluzionaria per essenza» (K. Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Poscritto alla II edizione).