giovedì 10 marzo 2011

Le contorsioni degli interpreti della “prassi”


Leggo in un blog (dove sono capitato per caso attratto dal nome del sito): «comporre la filosofia della prassi di Gramsci in termini di "storicismo assoluto, immanenza assoluta e umanesimo assoluto" ... ». A parte l’urgenza e la necessità di assoluto (ha a che fare con la bulimia?), mi chiedo: Grasmsci, nel carcere di Turi, camuffava la locuzione “materialismo storico” con “filosofia della prassi”, mutuando per ragioni di censura l’espressione da Antonio Labriola; ma ora che problemi ci sono a chiamare il materialismo storico e il marxismo con il loro vero nome? Suona male, démodé, oppure è omaggio a Gentile, o ancora necessità di distinguerlo dalla vulgata greve e deterministica di certo marxismo? Chissà se fu proprio questa l'intenzione di Gramsci che comunque se ne occupa proprio ne Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce. Ma forse in fondo è che questi intellettuali  odierni si servono del marxismo e del materialismo storico per altri scopi, e però poi sopra il comodino tengono Bergson per conciliare il sonno.

Scrive Raul Mordenti nell’introduzione (pp. 47-48) ai Quaderni dal carcere:

«”Filosofia della praxis” è il nome che Gramsci dà al suo originale marxismo. Nel “Glossarietto (Alcuni pseudonimi ed espressioni usate da Gramsci in sostituzione di nomi e termini che potevano insosospettire la censura)” che correda l’editio princeps einaudiana del volume dei Quaderni intitolato Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, si interpreta l’adozione del termine “filosofia della prassi” come una perifrasi prudente utilizzata da Gramsci per sfuggire alla censura carceraria: “il caposcuola della filosofia della prassi”, “il fondatore della filosofia della prassi”, “l’autore della economia critica” corrispondono in quel “Glossarietto” al nome di Marx, e l’espressione “la filosofia della prassi” corrisponde a “il  materialismo storico, il marxismo”.

Tutto chiaro, sennonché:

“In realtà ricondurre all’esigenza di sfuggire alla censura l’adozione da parte di Gramsci della “definizione ‘filosofia della prassi’ non sembra affatto persuasivo […] Definire il marxismo ‘filosofia della praxis’ (e non a caso è la medesima espressione che utilizza Giovanni Gentile) costituisce una precisa e intenzionale lettura del marxismo da parte di Gramsci, una lettura di pretta derivazione labriolana”.

Bisogna rompere i coglioni, dire che Gramsci era sì marxista, ma un marxista “originale” e il suo marxismo di stampo labriolano. E Labriola che significato dà del materialismo storico?

E così siamo daccapo nella filosofia della praxis, che è il midollo del materialismo storico. Questa è la filosofia immanente alle cose su cui filosofeggia. Dalla vita al pensiero, e non già dal pensiero alla vita; ecco il processo realistico. Dal lavoro, che è un conoscere operando, al conoscere come astratta teoria: e non da questo a quello. Dai bisogni, e quindi dai varii stati interni di benessere e di malessere, nascenti dalla soddisfazione o insoddisfazione dei bisogni, alla creazione mitico-poetica delle ascoste forze della natura: e non viceversa. In questi pensieri è il segreto di una asserzione di Marx, che è stata per molti un rompicapo, che egli avesse, cioè, arrovesciata la dialettica di Hegel: il che vuol dire, in prosa corrente, che alla semovenza ritmica d'un pensiero per sé stante (- la generatio aequivoca delle idee! -) rimane sostituita la semovenza delle cose, delle quali il pensiero è da ultimo un prodotto.

In fine, il materialismo storico? ossia la filosofia della praxis, in quanto investe tutto l’uomo storico e sociale, come mette termine ad ogni forma d'idealismo, che consideri le cose empiricamente esistenti qual riflesso, riproduzione, imitazione, esempio, conseguenza o come altro dicasi, d'un pensiero, come che siasi, presupposto, così è la fine anche del materialismo naturalistico, nel senso fino a pochi anni fa tradizionale della parola. La rivoluzione intellettuale, che ha condotto a considerare come assolutamente obiettivi i processi della storia umana, è coeva e rispondente a quell'altra rivoluzione intellettuale, che è riuscita a storicizzare la natura fisica. Questa non è più, per alcun uomo pensante, un fatto, che non fu mai in fieri, un avvenuto che non è mai divenuto, un eterno stante che non proceda, e molto meno il creato d'una volta sola, che non sia la creazione di continuo in atto (La concezione materialistica della storia, Laterza, 1971, p. 216-17].

Assolutamente in linea con l’interpretazione marxiana e, se è ancora lecito l’accostamento, englesiana. Proprio per questo Gramsci, nel Quaderno11, dichiara la necessità di richiamarsi a Labriola per far fronte, da un lato, al tentativo di ridurre il marxismo a mero canone storicistico, e, dall’altro, al riduzionismo deterministico. Ma un fatto almeno curioso va rilevato. Nel medesimo “glossarietto”, Gramsci, nell’indicare gli pseudonimi con cui cita Lenin (Vilici, ecc.), scrive accanto: “Il più grande teorico moderno della filosofia della prassi”. Labriolano anche Lenin! E del resto, l’opera del Labriola, Del materialismo storico, delucidazione preliminare, ebbe diffusione internazionale con prefazione di Sorel, lettura ed elogio da parte di Trotzky.

Non vi è dubbio che Gramsci fosse ben consapevole che l’opera di divulgazione all’interno del movimento operaio aveva comportato necessariamente delle semplificazioni e volgarizzazioni del marxismo, ma l’elemento deterministico, fatalistico e meccanico della volgarizzazione popolare è funto però da «arma ideologica della filosofia della prassi», e quindi avvertiva il bisogno di sottolineare che:

Si può osservare come l’elemento deterministico, fatalistico, meccanicistico sia stato un «aroma» ideologico immediato della filosofia della prassi, una forma di religione e di eccitante (ma al modo degli stupefacenti), resa necessaria e giustificata storicamente dal carattere «subalterno» di determinati strati sociali. Quando non si ha l’inziativa nella lotta e la lotta stessa finisce quindi con l'identificarsi con una serie di sconfitte, il determinismo meccanico diventa una forza formidabile di resistenza morale, di coesione, di perseveranza paziente e ostinata. «Io sono sconfitto momentaneamente, ma la forza delle cose lavora per me a lungo andare ecc.». La volontà reale si traveste in un atto di fede, in una certa razionalità della storia, in una forma empirica e primitiva di finalismo appassionato che appare come un sostituto della predestinazione, della provvidenza, ecc., delle religioni confessionali (pp. 13-14, ed. 1974).

Ma anche di precisare:

Ecco perché occorre sempre dimostrare la futilità del determinismo meccanico, che, spiegabile come filosofia ingenua della massa e in quanto solo tale elemento intrinseco di forza, quando viene assunto a filosofia riflessa e coerente da parte degli intellettuali, diventa causa di passività, di imbecille autosufficienza, e ciò senza aspettare che il subalterno sia diventato dirigente o responsabile. Una parte della massa anche subalterna è sempre dirigente e responsabile e la filosofia della parte precede sempre la filosofia del tutto non solo come anticipazione teorica, ma come necessità attuale.

Da rileggere anche il capitolo Quistioni di nomenclatura e di contenuto, laddove Gramsci si occupa di immanenza, trascendenza e coglionerie varie. Ne propongo solo un passo:

La difficoltà di adeguare l'espressione letteraria al contenuto concettuale e di confondere le quistioni di terminologia con le quistioni sostanziali e viceversa è caratteristica del dilettantismo filosofico, della mancanza di senso storico nel cogliere i diversi momenti di un processo di sviluppo culturale, cioè di una concezione antidialettica, dogmatica, prigioniera degli schemi astratti della logica formale.

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