lunedì 20 maggio 2024

Altrimenti non si spiegherebbe

 

Leggo dai giornali: «Hanno perso un giorno in una scuola di Roma a parlare di un felino vissuto in Messico 40 milioni di anni. Ma che me ne frega, scusatemi.

«I dinosauri è importante sapere che sono esistiti ma se noi siamo italiani – ha aggiunto Valditara – forse lo dobbiamo al Risorgimento che va studiato, come va studiata la Seconda guerra mondiale, la Guerra fredda e l’epoca del terrorismo. [...] Ripristinare l’autorità a scuola e sconfiggere la cultura sessantottina. Il ‘68 nega le radici dell’autorità. Si studino gli anni ‘70, oggi troppi elementi li ricordano.»

*

La prendo larga: la scuola non serve per crearsi una posizione o per rafforzare un’identità nazionale, bensì per imparare. E dunque non basta studiare il risorgimento e gli anni del terrorismo; ci si arriva per gradi, partendo da quello che c’è stato prima e molto prima ancora. Magari senza dimenticarsi di citare il fascismo, signor ministro in orbace, che non fu una minuzia del giurassico, così come non lo furono gli etiopi gasati, i libici impiccati, gli spagnoli fucilati. Solo per mantenerci sull’estero e a ridosso delle leggi razziali.

Quanto ai dinosauri, il ministro se lo faccia raccontare come si diventa fin da piccoli dei Stephen Jay Gould, per esempio. È così che si forma una cultura ricca e varia, non solo una cultura che funzioni a scopo produttivo o di maneggio politico.

Dalle dichiarazioni dei troppo loquaci che oggi stanno al potere traspare l’irresistibile fregola di rivincita, il cruccio di riscrivere il menu delle vicende novecentesche e delle opinioni sull’universo mondo, per cui, scusateli, non hanno tempo per dettagli sulle lucertole del Cretacico e i Neanderthal. Il loro piatto forte è il “terrorismo”, del quale conoscono la verità, con gli ingredienti esatti, e hanno fretta di farla conoscere ballando in cucina alla luce del frigorifero.

Anch’io conosco un po’ di quella storia, che non è stata una delizia. A chi non ne fu testimone diretto dico che non è indispensabile aver fatto da cavie a Porto Marghera, aver poi vissuto gli anni delle bombe e delle stragi, ma basta aver letto qualche libro per sapere della crisi di quel modello sociale e delle sue forme di rappresentanza politica, delle trame e dei tentativi eversivi, della P2 e della mafia, dei golpe e di Gladio, di un paese imbalsamato dai vincoli geopolitici e dai patti consociativi.

Per sapere che le cose non andarono come ci vengono cucinate da una visione perfettamente congeniale, che vuole mostrare quella ribellione, ogni ribellione, solo come fuga dalla realtà e inganno. Basta una poesia di Franco Fortini per distinguere le buone e le cattive ragioni, altrimenti non si spiegherebbe come in tanti, più di quanti si potrebbe credere oggi, pensassero che fosse cosa buona e giusta “prendere le armi contro un mare di triboli e combattendo disperderli”.

Che poi ai più non importi sia delle minuzie che dell’insieme, sia di quello che è accaduto appena ieri e sia di ciò che succede oggi, non può indurci alla resa, a essere pavidi di fronte ai redivivi dinosauri odierni.

domenica 19 maggio 2024

Il mondo di ieri e quello di oggi

 



Bella scoperta. Oggi il giornale di Elkan fa campagna elettorale, ma dov’era quando ciò avveniva, e non solo per quanto riguarda la sanità? Tutto il “pubblico”, per decenni, è stato descritto come cacca, ossia come un sistema inefficiente, sprecone e corrotto. L’intervento privato con la sua bacchetta magica ci avrebbe condotto in un domani di efficienza e prosperità per tutti (i meritevoli, ovviamente).

Come non ricordare la teoria dei “vasi comunicanti” descritta negli editoriali domenicali di Eugenio Scalfari, quando citava i “redditi dei Paesi di antica opulenza”. Limitandosi a prendere atto degli effetti e degli influssi più manifesti delle dinamiche della globalizzazione, richiamava la necessità, da parte delle classi lavoratrici, di trasferire una parte della loro “opulenza” verso i Paesi di “antica povertà”, con un chiaro riferimento alla Cina, India, eccetera (*).

Un vegliardo, Scalfari, intriso di pragmatismo e buon senso, di lucida consapevolezza dei rapporti di classe, di chiara visione dello stato di cose presente e in divenire. Un processo di livellamento che “deve essere realizzato con la massima energia e tempestività”, scriveva il sociologo, economista e filosofo della domenica.

In realtà, l’erompere in tutti gli ambiti dell’articolazione sociale del conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione costituisce una contraddizione di carattere oggettivo, è il conflitto che sta alla base della crisi generale del modo di produzione capitalistico.

Spiego: la crisi generale, non significa semplicemente crisi del processo di accumulazione e caduta del saggio medio del profitto (possono aumentare i profitti, ma non in ragione del capitale investito), sovrapproduzione di capitale e di capacità produttiva. Il capitale è un rapporto sociale e non semplicemente una cosa. La crisi mostra, al livello di sviluppo attuale delle forze produttive, ossia a fronte di una capacità sociale inedita e traboccante ricchezza, quanto le condizioni sociali della sua distribuzione siano soggette a dei rapporti sociali ristretti e miserabili.

Mostra ogni giorno di più quanti siano, a fronte delle possibilità e delle potenzialità, gli esclusi, e come ciò ormai venga a toccare inevitabilmente le sorti di quelle classi che credevano superate le contraddizioni del passato e vivevano il presente come un tempo assoluto dove sarebbe stato possibile solo migliorare le proprie condizioni di vita, di lavoro e di consumo. Secondo, appunto, la narrazione degli ideologi borghesi.

E a tale riguardo mi viene in mente l’inizio de Il mondo di ieri di Stefan Zweig. Sono poche pagine, leggerle o rileggerle può far solo del bene (**).

Emmanuel Macron quelle pagine le legge tutte le sere prima di coricarsi, perciò parla della nostra come di un’epoca che “si è aperta come nessun’altra, vale a dire con un’indiscutibile opulenza”, e oggi “si chiude come nessun’altra”, ossia con la “fine dell’epoca dell’abbondanza”. Il refrain è sempre lo stesso, epoca dopo epoca, cambiano solo le maschere.

(*) Quante volte nel decennio scorso ho scritto della pericolosità di teorici alla Scalfari? Nemo profeta in patria. Scalfari faceva il paio con tale Franco Roberti, allora procuratore antimafia, il quale sosteneva che “Bisogna essere disposti a cedere una parte delle nostre libertà”. Siamo marmaglia opulenta e oziosa.

(**) Nel 1925, Zweig scrisse un racconto meraviglioso e crudele, La collezione invisibile. È la storia di un vecchio collezionista la cui moglie e figlia, per sopravvivere nella Germania di Weimar schiacciata dall’inflazione, rivendevano inconsapevolmente le straordinarie stampe (di Rembrandt, Dürer e altri) che il vecchio collezionista aveva acquisito, con gusto sicurissimo, nel corso di tutta la sua vita. Egli ignora la svendita, perché è diventato cieco; e mostra con orgoglio al narratore, un mercante, i fogli bianchi o le croste che hanno sostituito i capolavori. Il vecchio vive nei ricordi precisi di un mondo scomparso.

In un altro racconto, sempre dello stesso anno, scriveva: “Ciò che richiede solo il minimo sforzo, mentale e fisico, e il minimo di forza morale deve necessariamente prevalere tra le masse, nella misura in cui suscita la passione della maggioranza”. Chissà cosa direbbe oggi che la comunicazione scritta è ridotta all’osso, a una battuta di spirito o a un insulto.

Zweig deplorava l’improvvisa scomparsa delle particolarità culturali, schiacciate e unite secondo lui dalle tecniche di riproduzione e di intrattenimento di massa, che per lui provenivano dall’America. Un passatista, un amico di Putin e di Xi ante litteram.

sabato 18 maggio 2024

Lo stato dell'arme

 

Il 2023 ha registrato il record storico della spesa mondiale per la guerra toccando i 24.430 miliardi di dollari, pari a 6,7 miliardi di dollari al giorno, registrando un incremento del 6,8%, il più marcato dal 2009. La spesa mondiale per la difesa pro-capite risulta la più alta dal 1990, raggiungendo i 306 dollari a persona (compresi gli abitanti del Sudan, eritrea, ecc.).

Il 37,5% della spesa globale fa capo agli Stati Uniti ($916mld), seguiti da Cina con il 12,1% (296), Russia (4,5%), India (3,4%) e Arabia Saudita (3,1%); l’Italia è dodicesima con l’1,5% del totale mondo: 35,5mld, pari a 97mln al giorno, con incremento del +5,5% atteso per il 2024. Che cosa non si potrebbe fare altrimenti con quei soldi.

La classifica cambia se si considera l’incidenza sul PIL: di gran lunga al primo posto si colloca l’Ucraina con il 36,7%. Le guerre per procura costano, in ogni senso. Costa Rica, Islanda e Panama non sostengono alcuna spesa per la difesa.

I cittadini che spendono maggiormente per la difesa del proprio Paese sono Qatar (15,7 dollari pro-capite al giorno nel 2023), Israele (8,2) e Stati Uniti (7,4).

Le trenta multinazionali delle armi hanno occupato oltre 1,4 milioni di persone nel 2023 (+20,9% sul 2019 pari a oltre 243mila unità in più), di cui il 69% in forza ai gruppi a stelle e strisce.

Nel primo trimestre 2024 il rendimento azionario delle multinazionali mondiali vede sul podio i big degli armamenti e della guerra (+22,8%). Il rendimento dei player della guerra risulta tre volte superiore al +7,1% dell’indice azionario mondiale, con i gruppi europei nella parte del leone (+42,3%).

Rheinmetall AG è la maggiore industria tedesca nel campo degli armamenti, con 266.000 dipendenti opera anche in altri settori, come gli autoveicoli (camion militari). Da inizio anno le sue azioni sono passate da 299 euro a 511, toccando i 550 euro il 15 aprile. Hensoldt GmbH, multinazionale tedesca ma di proprietà del fondo speculativo americano KKR, concentra le sue attività nel settore dell’elettronica militare. Ad inizio anno quotava 25,24, ieri 39 euro, il 26 marzo aveva toccato i 43,90.

I primi cinque posti per ricavi stimati generati dal comparto delle armi sono occupati esclusivamente da gruppi statunitensi: Lockheed Martin (55,0mld nel 2023), RTX (36,8), Boeing (31,0), Northrop Grumman (30,6) e General Dynamics (26,8). La distribuzione di dividendi è aumentata del 5,0% sul 2022, con il 77% del totale assorbito dagli azionisti dei gruppi statunitensi. Forse c’è qualche connessione con la propensione statunitense all’esportazione della democrazia tra i barbari.

Non solo tedeschi e statunitensi. Anche Leonardo (già Finmeccanica) è nella top 10 per rendimento azionario nel primo trimestre 2024, esattamente al quarto posto con un +55,9%; l’anno scorso all’ottavo posto per ricavi: 11,5 miliardi. Il suo maggiore azionista è il Ministero dell'economia e delle finanze italiano, che possiede circa il 30% delle azioni. Segue

Fincantieri, al nono posto, con +21,9% nell’azionario, in 25esima Fincantieri con 2 mld. L’Italia conta per il 19% del giro d’affari europeo e per il 4,2% di quello mondiale (*).

Dovremmo essere contenti, fregarci le mani. E però bisogna considerare che i cittadini italiani investono 1,7 dollari al giorno per la difesa, oltre il doppio della media mondiale. 1,7 dollari al giorno a cranio, ma poi se andiamo a vedere chi paga davvero ... il solito discorso.

(*) Le italiane sono fra le meno valorizzate dalla Borsa: Fincantieri quota 2,2 volte il capitale netto e Leonardo registra un valore di Borsa allineato ai mezzi propri. Succulenti bocconi!

(Fonte dei dati: Mediobanca)

venerdì 17 maggio 2024

Morire ricchi (con l'uranio)

 

Le sanzioni contro la Russia hanno finito per danneggiare i produttori europei (quelli italiani nel 2021 vantavano esportazioni per un valore di oltre 10 miliardi di euro), mentre gli Stati Uniti, paladini delle sanzioni stesse, hanno continuato a importare uranio arricchito dalla Russia. Solo lunedì scorso Joe Robinette Biden ha firmato la legge, precedentemente approvata dal Congresso, che vieta l’importazione di tale metallo prodotto nella Federazione Russa o da un’impresa affiliata alla Russia.

Attenzione: nel caso della Russia, più che “prodotto” bisognerebbe dire: “arricchito”. La Russia ne produce solo il 5%, ma ne arricchisce molto di più (circa il 35% dell’offerta globale, seguono la Cina e la Francia). Da 100 kg di uranio metallico pronto per l’arricchimento si possono ottenere al massimo 12,5 kg di uranio arricchito al 3,6% (*).

Quasi un terzo del combustibile nucleare utilizzato dalle centrali nucleari americane proviene da fornitori russi. Ogni anno sono necessarie circa 27 tonnellate di uranio per un reattore ad acqua pressurizzata da 1.000 MWe. Come ha osservato il New York Times, è estremamente difficile trovare alternative a un tale volume. 

Il regolatore dei servizi comunitari della California (CPUC) ha convalidato a dicembre scorso la proroga di cinque anni della vita dei due reattori del Diablo Canyon, situati a nord- ovest di Los Angeles e la cui chiusura era inizialmente prevista nel 2024 e nel 2025. Per dire.

A Washington sono furbi: hanno iniziato a prepararsi per il divieto già dall’anno scorso, acquistando uranio con un aumento di spesa del 43%. In termini assoluti, la Russia ha fornito 702 tonnellate di uranio rispetto alle 588 tonnellate dell’anno precedente. Inoltre, le restrizioni entreranno in vigore 90 giorni dopo la pubblicazione della legge. Dunque la Russia può continuare ad esportare uranio arricchito negli Stati Uniti almeno fino ad agosto.

(*) La stragrande maggioranza dei reattori nucleari utilizza come combustibile l’isotopo dell’uranio-235; tuttavia costituisce solo lo 0,7% dell'uranio naturale estratto e deve quindi essere incrementato attraverso un processo chiamato arricchimento. Ciò aumenta la concentrazione di uranio-235 dallo 0,7% al 3%-5%, che è il livello utilizzato nella maggior parte dei reattori.

L’uranio fu scoperto nel 1789 dal chimico prussiano Martin Heinrich Klaproth, dall’analisi della pechblenda, un pezzo di roccia. Klaproth propose di chiamarlo “uranite”, in riferimento al pianeta Urano, scoperto pochi anni prima. Il francese Henri Becquerel scoprì la radioattività dell’uranio solo nel 1896, quando notò che le lastre fotografiche poste accanto ai sali di uranio erano rimaste impresse, anche se non erano state esposte alla luce.

L’uranio è più abbondante sul nostro pianeta dell’oro o dell’argento. Si trova nell’acqua dei fiumi e, soprattutto, nella crosta terrestre: il seminterrato di un piccolo giardino può contenerne diverse decine di chili. La specificità dell’uranio è che può dividersi in due nuclei: la fissione nucleare è la gioia delle centrali elettriche e delle bombe A e H. La combustione nucleare rilascia energia come nessun’altra, un milione di volte maggiore di quella rilasciata dai combustibili fossili.

Fin dalla sua scoperta, l’uranio è stato utilizzato come pigmento nella vetreria, nella ceramica e nella terracotta. Serviva anche come catalizzatore nelle pellicole fotografiche. Ce l’hai anche in bocca (a dosi bassissime), infatti si trova nella colorazione delle ceramiche dentali. La produzione mondiale, dell’ordine di 60.000 tonnellate annue, è inferiore al consumo. Nel 2022 in tutto il mondo sono state estratte circa 58.000 tonnellate di uranio. Oltre l’85% dell’uranio viene prodotto in sei paesi: Kazakistan, Canada, Australia, Namibia, Niger e Russia. Il primo produttore è il Kazakistan (43% della fornitura nel 2022, secondo la World Nuclear Association, Australia (13%), Namibia (11%) e Canada (8%). La metà della produzione proviene da sole dieci miniere nel mondo e il singolo sito di Cigar Lake in Canada produce più di Niger e Russia messi insieme. Ci sono riserve per ... un secolo!

Gli incidenti collegati all’impiego dell’uranio sono inevitabili; i lavoratori delle miniere di uranio sviluppano tumori molto graziosi; l’energia nucleare rilascia CO2 (poca), a causa dell’estrazione e della raffinazione del minerale; quanto ai rifiuti nucleari sono il vero e irrisolto problema, non esiste una soluzione affidabile per contenere i rifiuti per secoli, distruggono le botti più resistenti, anche quelle del prosecco.

Il prezzo dell’ossido di uranio (Octaossido di triuranio, chiamato U3O8), che, una volta arricchito (viene convertito in esafluoruro di uranio UF6), funge da combustibile nucleare, viaggia attorno ai 90 dollari per libbra (circa 450 grammi), ma raggiunge e supera facilmente i 100 dollari (il doppio che nel 2023).

Sono stati lanciati anche nuovi progetti, soprattutto in Cina (25 reattori in costruzione), ma anche in India, Turchia ed Egitto. Per non parlare delle flotte nucleari in rapido sviluppo (Cina, Giappone e, ovviamente, la Francia, che com’è noto ha vinto la II GM quasi da sola).

Un consiglio per i vostri investimenti? ETF sull’uranio. Morirete ricchi.

giovedì 16 maggio 2024

La minaccia cinese: mito e realtà

 

C’è chi vede il “pericolo giallo” annidarsi dappertutto, specie quando si tratta di auto elettriche. È realmente così? Prendiamo l’esempio offertaci dal più grande mercato automobilistico europeo, ossia la Germania. Secondo quanto riportato dal quotidiano Handelsblatt, nel mese di marzo il produttore cinese BYD ha venduto 160 veicoli. Con le 139 vendute a gennaio e le 94 vendute a febbraio, BYD ha “invaso” il mercato tedesco con un totale di 393 veicoli elettrici nel primo trimestre 2024! In percentuale del mercato automobilistico complessivo in Germania, questo dato è leggermente superiore allo 0%. I piazzali del porto di Bremerhaven sono pieni da settimane di auto BYD invendute.

In realtà, le vendite di veicoli elettrici cinesi stanno subendo la stessa sorte delle case automobilistiche europee. Se BYD piange, i produttori tedeschi di veicoli elettrici non ridono. Con 31.384 unità vendute a marzo, le vendite di veicoli elettrici in Germania sono crollate del 28,9% su base annua. La fine dei sussidi statali sui prezzi (a proposito di “aiuti” di Stato), la mancanza di infrastrutture di ricarica e la dura verità: sempre meno persone vogliono o possono permettersi di acquistarli.

Ma c’è un’altra notizia: la città di Oranienburg, nel Brandeburgo, ha posto il veto alla costruzione di nuovi punti di ricarica per veicoli elettrici, pompe di calore e aree industriali, perché la rete ad alta tensione non ha capacità sufficiente per questo. La transizione energetica fatta con i piedi.

Veniamo alla mitica sovracapacità produttiva cinese grazie agli aiuti di Stato. Andiamo a un altro esempio e a un altro marchio automobilistico cinese: Leapmotor. Attraverso una joint venture con Stellantis, Leapmotor venderà due modelli in Europa a partire da settembre 2024. Leapmotor è stata fondata a Hangzhou nel 2015 e produce auto elettriche dal 2019. L’anno scorso Leapmotor ha venduto 144.155 veicoli. In Europa? No, complessivamente nel mondo e dunque principalmente in Cina.

I tedeschi nicchiano a proposito di dazi da applicare alle auto elettriche cinesi. Ne hanno motivo, le auto “cinesi” UE più vendute (gennaio-febbraio 2024) sono: Tesla Modello 3: 14.300; Dacia Primavera: 6.155; Volvo EX30: 5.980; Polestar 2: 2.418; BMW iX3: 2.195, Smart 1: 1.833; Lynk & Co 01: 1.240, eccetera.

E per quanto riguarda il più grande mercato mondiale dell’auto, ossia gli Stati Uniti? Leggiamo cosa dice il New York Times: «Gli Stati Uniti importano solo poche marche – elettriche o benzina – dalla Cina. Una è la Polestar 2, un veicolo elettrico prodotto in Cina da una casa automobilistica svedese di cui la società cinese Zhejiang Geely ha una partecipazione di controllo. Nel primo trimestre di quest’anno, Polestar ha venduto solo 2.200 veicoli negli Stati Uniti. Entro la fine dell’anno, tuttavia, è previsto l’avvio della produzione di un nuovo modello, la Polestar 3, in uno stabilimento della Carolina del Sud gestito da Volvo Cars, di proprietà di Geely». Mamma i musi gialli.

Poche migliaia di auto. Sempre il NYT: «Volvo vende negli Stati Uniti una berlina ibrida plug-in di fabbricazione cinese, la S90 Recharge, e prevede di iniziare quest’anno a importare un nuovo piccolo SUV, l’EX30, dalla Cina negli Stati Uniti». Anche in tal caso si tratta di poche migliaia di auto, poco più dello 0% di quelle prodotte e vendute negli Usa.


Leggiamolo sempre sul NYT: BYD, un’azienda cinese leader nel settore delle automobili e delle batterie in rapida crescita, vende già un’auto elettrica compatta, la Seagull, per meno di 15.000 dollari in Cina. E martedì ha detto che avrebbe iniziato a vendere un pick-up ibrido plug-in in Messico, anche se ha aggiunto che non ha ancora intenzione di vendere il veicolo negli Stati Uniti.

La Cina esporta un numero molto limitato di veicoli elettrici negli Stati Uniti e dunque la presenza minima delle auto cinesi nel mercato statunitense non giustifica l’esasperato protezionismo. E allora per quale motivo Washington ha deciso di elevare dal 25 al 100% il dazio per l’importazione di auto cinesi? Un’azione preventiva perché si teme che in un prossimo futuro gli americani preferiscano le piccole utilitarie elettriche con gli occhi a mandorla?

Cito ancora dall’articolo del NYT: «Nei primi tre mesi dell’anno, la divisione veicoli elettrici di Ford ha perso 1,3 miliardi di dollari prima di tenere conto di alcune spese. Sia Ford che G.M. hanno rallentato la produzione di veicoli elettrici e ritardato l’introduzione di nuovi modelli. [...] G.M. sta perdendo soldi con le auto elettriche [...]».

Già ora stanno perdendo mercato e soldi con i veicoli elettrici, pur con una concorrenza cinese pressoché inesistente! E infatti il NYT sottolinea: «L’entusiasmo degli americani per le auto elettriche è diminuito nell’ultimo anno, principalmente perché tali veicoli vengono venduti a prezzi relativamente alti. Alcuni acquirenti sono riluttanti a comprare anche perché non sono sicuri che ci saranno abbastanza posti dove ricaricare quelle auto in modo facile e veloce».

Sui reali motivi del protezionismo bisogna tener conto che gli Stati Uniti hanno effettuato centinaia di miliardi di dollari di investimenti pubblici (quelli non sono aiuti di Stato, è concorrenza leale) nel settore della cosiddetta “transizione energetica”. Inoltre, ci offre uno spunto lo stesso articolo del NYT:

«Contemporary Amperex Technology Company Limited, o CATL, il produttore cinese che è il più grande produttore mondiale di batterie per auto elettriche, ha dichiarato il mese scorso di aver sviluppato una batteria che potrebbe caricarsi in 10 minuti abbastanza da consentire a un’auto di percorrere circa 370 miglia [quasi 600 km] – un grande passo avanti rispetto alle batterie utilizzate dalle affermate case automobilistiche occidentali e asiatiche, tra cui Tesla».

Ecco il reale motivo: il temuto sorpasso tecnologico e industriale della Cina sugli Stati Uniti, ovviamente non solo per quanto riguarda le batterie per auto elettriche. Dopo decenni, i politici e la grassa borghesia statunitensi si sono svegliati dai postumi di una sbornia di consumismo e alti profitti ottenuti grazie alle delocalizzazioni e ora vogliono ripristinare la loro base industriale, ricostruire la propria capacità produttiva a colpi di dazi.

Già a cominciare dagli anni Settanta praticamente tutte le principali aziende statunitensi produttrici di elettronica di consumo come registratori, macchine fotografiche, sistemi televisivi, computer, telefoni e così via, abbandonarono quelle attività di produzione, furono vendute o chiusero i battenti. Favorito fu, allora, principalmente il Giappone, in seguito la Corea del Sud e poi Taiwan.

Per esempio, nel 1982 la quota statunitense del mercato mondiale dei semiconduttori scese dal 70 al 51%. La quota del Giappone aumentò al 35%, rispetto al 15% del 1972. Nel 1989, la quota statunitense del mercato dei semiconduttori era scesa al 35% e quella del Giappone era aumentata al 51%. Altro esempio: Zenith Corporation vendette la sua tecnologia televisiva ad alta definizione a LG in Corea del Sud negli anni ’90 per circa 360 milioni di dollari.

Il risultato dello spostamento offshore di questi settori tecnologici è ora evidente, non ci sono più televisori e display prodotti negli Stati Uniti. Per quanto riguarda i semiconduttori, l’83% della capacità produttiva totale di semiconduttori risiede ora in Corea del Sud, Taiwan, Cina e Giappone, così come gran parte della produzione di elettronica di consumo e di elettronica in generale.

Tesla ora ha una capitalizzazione di mercato tre volte superiore a quella di tutte le altre case automobilistiche statunitensi messe insieme. Tuttavia, Tesla deve ancora ottenere i propri chip dall’Asia (principalmente da TSMC).

Pertanto, più che alle auto, pensiamo ai semiconduttori, che sono il vero motore che fornisce la funzionalità a quasi tutti i prodotti elettronici e il cui dazio su quelli cinesi passerà dal 25 al 50%. All’inizio gli Stati Uniti rappresentavano il 100% della capacità produttiva di semiconduttori. Oggi quella capacità è circa il 10%, e rimane per ora conservata nei chip logici avanzati. Se gli Stati Uniti perdessero il loro vantaggio competitivo nel settore dei semiconduttori rispetto alla concorrenza, diventerebbero asserviti a quel concorrente: economicamente, politicamente e, certamente, militarmente.

Nel 1983 fu possibile costruire un impianto per la produzione di semiconduttori con una spesa di 50 milioni di dollari. Mezzo secolo dopo, un impianto di fabbricazione di chip avanzati può costare tra i 20 e i 30 miliardi di dollari. La dimensione del chip GPU di elaborazione è approssimativamente quella consentita dagli strumenti di produzione dei chip. Negli anni ‘80 un’apparecchiatura per fotolitografia progettata per produrre semiconduttori su un wafer di silicio poteva costare circa 450.000 dollari. Oggi, per i chip più avanzati, le più recenti apparecchiature di litografia possono costare 400 milioni di dollari, ma anche molto di più (la tecnologia CoWoS: chip-on-wafer-on-substrate, combinata con tecnologia SoIC 3D). In prospettiva la fotonica del silicio diventerà una delle tecnologie più importanti nel settore dei semiconduttori.

Che cosa diceva l’anno scorso Liu Deyin (alias Mark Liu), presidente di TSMC, la più grande società del settore dei chip? La creazione di fabbriche negli Stati Uniti è impegnativa a causa delle difficoltà nell’assumere lavoratori locali e per gli alti costi operativi, che si traducono in un aumento dei costi del prodotto, sottolineando che non è economicamente fattibile per l’azienda di chip produrre beni negli Stati Uniti (salvo non arrivino cospicui aiuti di Stato e, dicono le malelingue, le dimissioni di Liu Deyin, previste per il prossimo mese).

mercoledì 15 maggio 2024

Il diritto di lamentarsi

 

In Missing, il celebre film di Costa-Gavras, un americano va in Cile per ritrovare suo figlio scomparso durante il colpo di stato militare di Pinochet. Arrivato lì, mentre chiacchiera con la nuora in un ristorante, tra la portata principale e il dolce, in strada risuonano degli spari, colpi sparati dai militari. I sospetti “comunisti” vengono arrestati, rinchiusi negli stadi o nelle celle delle prigioni, torturati e assassinati. Il piccolo mondo tranquillo di questo buon padre americano si scontra con un altro di cui non sospettava l’esistenza, quello di una dittatura sanguinaria.

Cosa succede dall’altra parte del mondo mentre qui, comodi, ci occupiamo della nostra vita quotidiana? La sorte di Gaza, davvero spaventosa, mi ricorda la sorte dei neri in Sud Africa. Molti non conoscono la Palestina più di quanto generalmente conoscano il Sud Africa. Tuttavia per quasi tutti noi Nelson Mandela ha incarnato senza restrizioni, dal profondo della sua cella e con la sua forza d’animo, la lotta contro l’ingiustizia, la disuguaglianza, il razzismo. Si dimentica che per le autorità sudafricane, ossia per i bianchi sudafricani, Mandela era un terrorista. Israele forse non è il Sud Africa di allora (o peggio?), ma quanti Nelson Mandela ci sono nelle sue prigioni?

Mentre sediamo a guardare i partecipanti all’Eurovision schiamazzare quelle che chiamano canzoni, quante persone in Iran sono state arrestate, imprigionate forse anche giustiziate? Mentre ascoltiamo, quasi con le lacrime agli occhi, la commovente difesa di Toti da parte di Crosetto, quanti uomini, donne e bambini, non solo a Gaza o nello Yemen, sono uccisi o mutilati dalle armi, munizioni e mine fornite dall’Italia? L’attualità assomiglia ad un insieme di universi paralleli, disposti uno accanto all’altro senza mai che s’incontrino. E quando ciò accade, l’intrusione di un mondo in un altro non può che essere violenta e traumatica.

Ormai è diventato un truismo che ogni evento apparentemente banale della nostra vita è collegato da un filo invisibile a un altro che accade a centinaia o migliaia di chilometri di distanza. Non dico questo per demoralizzarvi e farvi sentire in colpa. Abbiamo tutto il diritto di lamentarci di avere il colesterolo alto mentre altrove dei bambini soffrono la fame o sono devastati dal colera. Lamentarsi di tutto e di tutti è un diritto fondamentale che dovrebbe essere sancito dalla Costituzione. Ma l’ignoranza, l’indifferenza e l’oblio, no.

martedì 14 maggio 2024

Il ruolo di Stalin nella creazione di Israele

 

Oggi ricorre l’anniversario della proclamazione dello Stato d’Israele.

Poco prima di mezzogiorno del 14 maggio 1947, Andrei Gromyko, rappresentante permanente dell’Unione Sovietica presso le Nazioni Unite, salì sul palco della Sala dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a Flushing Meadows, nel Queens.

Gromyko disse che il popolo ebraico era stato sottoposto a “dolore e sofferenza indescrivibili. È difficile esprimerli in aride statistiche”. E ora “centinaia di migliaia di ebrei vagano in vari Paesi d’Europa”, molti dei quali nei campi per sfollati dove “continuano ancora a subire grandi privazioni. [...] È giunto il momento di aiutare queste persone, non con le parole, ma con i fatti. [...] Questo è un dovere delle Nazioni Unite”.

L’Unione Sovietica, disse ancora Gromyko, preferirebbe un “unico stato arabo-ebraico con uguali diritti per ebrei e arabi”, tuttavia se la commissione delle Nazioni Unite riteneva che ciò fosse “impossibile da attuare, in considerazione del deterioramento delle relazioni tra ebrei e arabi”, c’era un’alternativa “giustificabile”: “la spartizione della Palestina in due singoli stati indipendenti, uno ebraico e uno arabo”.

Per i due anni successivi, l’Unione Sovietica si dimostrò la più ferma grande potenza sostenitrice dello Stato ebraico in formazione e poi di Israele.

È poco noto, ma non solo l’Unione Sovietica sotto Stalin votò per la spartizione della Palestina, riconoscendo anche Israele (il primo Stato a farlo de jure, tre giorni dopo l’indipendenza, dunque il 17 maggio 1948) ma si era espressa a favore di uno Stato ebraico ben prima degli Stati Uniti.

Truman aveva sì riconosciuto immediatamente Israele (de facto ma non de jure), ma aveva già imposto un embargo sulle armi in Medio Oriente, costringendo Israele a cercare armi altrove (*).

Infatti, gli Stati Uniti votarono a favore della spartizione nel novembre 1947, ma nel marzo successivo dichiararono la spartizione impossibile da attuare e proposero al suo posto un’amministrazione fiduciaria “temporanea” dell’ONU (**). Alla vigilia del ritiro ufficiale della Gran Bretagna da Israele, nel maggio successivo, il massimo diplomatico americano stava ancora mettendo in guardia i leader israeliani dal dichiarare l’indipendenza.

L’Urss aveva mantenuto il suo sostegno sia prima che dopo il voto all’ONU, e aveva indirettamente assicurato che il neonato Stato avrebbe avuto il materiale bellico di cui aveva disperatamente bisogno per difendersi. Secondo Abba Eban, il primo ambasciatore israeliano all’ONU, senza il voto sovietico a favore della spartizione (insieme ai voti di Bielorussia, Ucraina, Polonia e Cecoslovacchia, mentre la Jugoslavia si astenne), e senza le armi fornite dal blocco sovietico, “non ce l’avremmo fatta, né a livello diplomatico né a livello militare”.

Stalin aveva due obiettivi, il primo dei quali si è in parte realizzato: senza cambiare la sua posizione ufficiale antisionista, dalla fine del 1944 fino al 1948 e anche dopo, adottò una politica estera filosionista, apparentemente credendo che il nuovo paese sarebbe stato socialista e avrebbe accelerato il declino dell’influenza britannica in Medio Oriente. Inoltre sperava che Israele, con una forte leadership socialista, potesse diventare un alleato dell’Unione Sovietica. Anche se ciò non è accaduto quando il Partito unificato degli operai non ottenne buoni risultati alle prime elezioni, Israele si è rifiutato di inviare un distaccamento militare a combattere a fianco degli Stati Uniti nella guerra di Corea. Nel 1950 Golda Meir dichiarò Israele neutrale nella Guerra Fredda.

Primo Maggio a Tel Aviv

Oggi la faccenda può apparirci poco verosimile, ma essa va inquadrata nella lotta per la supremazia mondiale e se guardiamo ai fatti di Suez (1956), ossia all’occupazione anglo- francese, troviamo conferma del sostanziale accordo tra Urss e Usa nello stoppare le mire di Londra e Parigi. Se in Medioriente non vi fosse il Canale e al posto del petrolio si producessero datteri, le cose, ieri come oggi, sarebbero molto diverse.

Ad ogni modo, il sionismo aveva altri obiettivi. Lo Stato di Israele, alimentato dall’imperialismo americano a cui è legato a filo doppio e di cui rappresenta la fortezza di controllo in Medioriente, con la sua politica coloniale (occupazione dei territori e installazione dei propri coloni: si chiamano così) e razzista (l’apartheid), ha distrutto il tessuto sociale ed economico della Palestina araba (varrebbe la pena, per esempio, raccontare la storia del “sindacato” sionista, l’Histadrut, che boicottò i lavoratori palestinesi, ecc.) e ha espulso dalla sua terra (già prima e dopo il 1948: vedi alla voce Nakba) la maggior parte della popolazione autoctona. Questo è un fatto storico che non si può negare.

Dagli anni Cinquanta in poi, l’Unione Sovietica fece tutto il possibile per cancellare il fatto del sostegno sovietico alla creazione di Israele dalla storia ufficiale e dalla memoria araba. Sia negli Stati Uniti che in Israele, avvenne un processo uguale e contrario, cancellando dalla memoria l’incostanza del sostegno americano alla creazione di Israele.

(*) All’inizio del 1948, l’Unione Sovietica, pur non inviando mezzi propri, accettò gli accordi cruciali sugli armamenti tra Cecoslovacchia e Israele, assicurando a quest’ultimo un vantaggio nella battaglia già in corso con gli arabi palestinesi, permettendo all’Haganah di passare all’offensiva in vista dell’indipendenza (“Piano Dalet”). “Hanno salvato il Paese, su questo non ho dubbi”, avrebbe detto Ben-Gurion vent’anni dopo. “L’accordo sulle armi ceco è stato di grande aiuto, ci ha salvato e senza di esso dubito fortemente che saremmo riusciti a sopravvivere al primo mese”. Golda Meir, nelle sue memorie, scrisse allo stesso modo che senza le armi del blocco orientale, “non so se avremmo potuto resistere fino a quando la marea non cambiò, come avvenne nel giugno 1948”. Nell’ottobre 1948, Moshe Sharett, riferì al governo israeliano che “il blocco orientale ci sostiene fermamente [...]. Nel Consiglio di Sicurezza i russi operano non solo come nostri alleati, ma come nostri emissari”. Abba Eban osservò che in questi “due o tre anni”, i sovietici “sono stati più costanti nella loro assertività a sostegno di Israele rispetto anche agli Stati Uniti. Non ci sono stati vacillamenti, nessuna esitazione”.

(**) Nel marzo 1948, mentre gli Stati Uniti si ritiravano dall’idea della spartizione, l’Unione Sovietica si schierò fermamente a suo favore e attaccò la proposta americana alternativa di un’amministrazione fiduciaria dell’ONU. Il 20 aprile, mentre il tempo scadeva sul mandato britannico, Gromyko denunciò l’amministrazione fiduciaria come un’idea che avrebbe posto la Palestina “in uno stato di virtuale schiavitù coloniale”.

lunedì 13 maggio 2024

Al gusto di Fabbrini

 

Centodieci anni dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale e 85 anni dopo quello della Seconda guerra mondiale, stiamo assistendo all’espansione di una terza guerra mondiale che è già iniziata e minaccia di degenerare in un conflitto diretto tra potenze e dunque in un potenziale conflitto nucleare.

Dalla storia non vogliamo imparare nulla. Quando Napoleone mise piede a Mosca, i russi incendiarono la città. È necessario leggere la cronaca dei testimoni di quell’episodio per comprendere la determinazione dei russi e il grave rischio che corsero le truppe napoleoniche e il dittatore stesso, che si salvò per caso e mezzo bruciacchiato.

Centoventinove anni dopo, l’assedio germanico a Leningrado durò 2 anni e 5 mesi, dall’8 settembre 1941 al 27 gennaio 1944. La città non cedette. Si arrivò a nutrirsi del grasso lubrificante. Le vittime civili furono più di 600.000, l’Armata Rossa perse 1.017.881 uomini morti, catturati o dispersi e 2.418.185 feriti o ammalati.

Quanto accadde a Stalingrado è abbastanza noto. Complessivamente le perdite tedesche in Russia si stimano in non meno di 6,5 milioni. Senza il tritacarne russo qualunque ipotesi di successo degli alleati in Europa è da escludere. Gli Stati Uniti, nel 1945, si sarebbero risolti all’impiego delle armi nucleari, così come accadde effettivamente per il Giappone.

In generale, le vittorie sul campo con armi convenzionali appartengono a un’altra epoca, che ha avuto termine per l’appunto nel 1945.

Dalla fine della scorsa settimana, unità dell’esercito russo hanno attaccato da nord verso sud in Ucraina, conquistando le aree a nord di Kharkov, la seconda città più grande dell’Ucraina (fu la prima capitale dell’Ucraina sovietica). La città e la sua oblast’ fanno parte della zona geografica del paese a maggioranza russofona. Secondo una statistica ufficiale ucraina, nel 2001 circa il 66% dei residenti urbani parlava esclusivamente il russo.

È ormai evidente che si tratta di un’offensiva significativa, che minaccia di smantellare l’intera linea del fronte dell’esercito ucraino e di provocare un disastro per il regime fantoccio a Kiev, dove si susseguono, secondo fonti interne, i tentativi di eliminare Zelenskyj.

L’esercito ucraino sta attualmente dirottando forze da altre parti del fronte per rinforzare le unità che difendono i caposaldi settentrionali di Kharkov. Zelenskyj invita i suoi padrini americani ed europei ad inviare altre armi, ma in realtà è a corto di truppe. Se cade Karkov si apre la strada per Poltava e dunque per il bacino del Dnepr, a mio avviso il vero obiettivo strategico russo. Tuttavia, l’attacco a nord di Kharkov potrebbe avere lo scopo di difendere la vicina città russa di Belgorod dai lanci ucraini, mentre il vero massiccio attacco russo potrebbe venire da est (Chasiv Yar e Krasnohorivka) e da sud verso il Dnepr.

Staremo a vedere. Ciò che già oggi è un fatto, riguarda la situazione delle forze ucraine, che da sole non possono più reggere lo sforzo bellico, quali che siano i rifornimenti in armi ed equipaggiamenti, quali che siano i colpi ad effetto. Per intavolare serie trattative con i russi è necessario porre Zelenskyj fuori scena, ormai un personaggio ingombrante anche per la Nato. Se però a prevalere sarà l’ala dei falchi (non solo sul tipo di Macron, ma sul tipo di chi comanda davvero negli Usa), è inevitabile un’escalation con l’invio di truppe in Ucraina. Sarà necessario innescare un nuovo caso “Tonchino”, ma su questo fronte la propaganda occidentale può contare su un fronte unitario dei grandi media. In tal caso si aprirebbe uno scenario del tutto nuovo.

P.S.: il solito Sergio Fabbrini, sul 24ore di ieri, scrive, a riguardo dei leader che rimangono “consistenti nel pericolo”, un elogio a: «Joe Biden, presidente degli Stati Uniti, la cui decisione di schierarsi con gli ucraini rilanciando il ruolo della Nato ha consentito di preservare il confine politico tra l’Europa e la Russia di Putin». Ciò significa non solo fingere di non aver capito un cazzo della reale strategia americana, ma anche ficcare la lingua nel buco del culo di Biden e dire che sa di vaniglia.

domenica 12 maggio 2024

Il monopolio della sofferenza e i suoi eredi

 

Shlomo Sand, già professore ordinario e ora emerito all’Università di Tel Aviv, è uno dei più reputati storici israeliani. Nel 2008 pubblicò L’invenzione del popolo ebraico. Osserva: «Vedendo sulla carta geografica dove vivono gli arabi tra il fiume e il mare e dove vivono gli ebrei israeliani tra il fiume e il mare, si capisce che i due popoli sono oggi inseparabili. Ci sono più di due milioni di arabi cittadini israeliani, ce ne sono altri cinque milioni a Gaza e in Cisgiordania, più o meno c’è uno stesso numero di ebrei che vivono su questa terra. Non ho nulla contro l’idea di uno Stato palestinese, però è irrealizzabile. Lo è da tempo, lo è ancora di più dopo il 7 ottobre. Ma il 7 ottobre ha mostrato che anche uno Stato ebraico non ha futuro: serve uno Stato israeliano, in cui i palestinesi siano cittadini a pieno titolo [...]».

Roberto Della Seta, lo intervista per il manifesto e gli chiede: «Lei si considera sionista?

No, non sono sionista perché non credo che Israele debba appartenere agli ebrei del mondo. Ho desiderato per tutta la vita che Israele fosse lo Stato dei suoi cittadini e non lo Stato degli ebrei nel mondo. Uno Stato come l’attuale Israele che dichiara di appartenere non ai suoi cittadini ma agli ebrei di tutto il mondo, per esempio anche agli ebrei italiani, non è uno Stato democratico.

«[...] In parte ha già risposto ma glielo chiedo di nuovo: Israele è uno Stato democratico?

No, non lo è. Non lo è nei territori occupati e non lo è neanche dentro le sue frontiere legittime. È uno Stato liberale. Il fatto che io possa insegnare liberamente dimostra che siamo uno Stato liberale. Ma uno Stato democratico è un’altra cosa: è uno Stato che appartiene a tutti i suoi cittadini.

«[...] Ecco: uno Stato così non è democratico. Io mi batto per l’uguaglianza tra tutti i cittadini israeliani. E so che gli ebrei israeliani potranno continuare a vivere in Medio Oriente solo insieme ai palestinesi.

«Lo racconto nel mio ultimo libro [Deux peuples pour un État, da poco uscito in Francia]: grandi intellettuali ebrei del passato avevano già chiaro che uno Stato esclusivamente ebraico in Palestina sarebbe stato condannato a una guerra perpetua. Tra questi Hannah Arendt, contraria ai due Stati e favorevole a una federazione arabo-ebraica: per lei la nascita di uno Stato esclusivamente ebraico era la premessa inevitabile di guerre continue.»

In un suo libro, Come ho smesso di essere ebreo, Sand scriveva:

«Ottenere che l’Olocausto fosse riconosciuto come uno snodo chiave del rapporto memoriale tra l’Europa e la seconda guerra mondiale diventava un’esigenza morale. La nuova politica sionista e pseudo-ebraica, però non poteva accontentarsi di così poco: marchiare a fuoco il ricordo delle vittime nella coscienza occidentale era solo il primo passo. Si trattava in primo luogo di rivendicare il monopolio della sofferenza proprietà specifica ed esclusiva della nazione ebraica. È in quegli anni che muove i primi passi quella che oggi, non a torto, alcuni chiamano “industria della Shoah”.

«Tutte le altre vittime del nazismo furono relegate ai margini, e il genocidio si trasformò in un’esclusiva ebraica. Da quel momento risulto inammissibile paragonare la tragedia degli ebrei allo sterminio di qualunque altro popolo. Quando gli armeni americani di seconda e terza generazione chiesero che fosse introdotta una ricorrenza ufficiale per commemorare il genocidio dei loro antenati per mano dei turchi ottomani, la lobby filosionista prese le parti della Turchia e cercò di bloccare a tutti i costi il progetto.

«A partire dagli anni 70 il numero dei discendenti di sopravvissuti non ha fatto che aumentare: di punto in bianco si è iniziato a sgomitare per fare parte dei superstiti. Moltissimi americani di origine ebraica, gente che non aveva mai messo piede in Europa negli anni della seconda guerra mondiale né offerto alcun aiuto materiale alle vittime all’epoca del massacro, si sono dichiarati eredi diretti dei sopravvissuti dei campi di sterminio. I figli di ebrei iracheni e nordafricani hanno finito per considerarsi a tutti gli effetti vittime del nazismo, e non sono stati gli unici. Negli stessi anni in Israele si è iniziato a parlare di una “seconda generazione della Shoah”, poi di una “terza generazione”. Il capitale simbolico rappresentato dalla sofferenza di un tempo, come tutti i capitali, doveva passare ai discendenti in quanto legittima eredità.

«A poco a poco la vecchia identità religiosa, quella del popolo eletto, ha lasciato il posto al duplice culto della vittima eletta da un lato e della vittima esclusiva dall’altro [...].»

*

È in nome di quel monopolio della sofferenza e di quella eredità che Israele si sente autorizzata a far vivere in un regime di apartheid milioni di arabi palestinesi (e non solo). Ad occuparne le terre, demolirne abitazioni, confiscarne i beni, a non riconoscere il loro diritto sulle risorse naturali (acqua e giacimenti di idrocarburi). Soprattutto il diritto, in nome della eredità capitalizzata con la Shoah, di poter impunemente massacrare una popolazione inerme. E tutto ciò avviene con il consenso della maggioranza degli israeliani, dell’autoidentificazione di essere “un popolo” (si pretende per discendenza di un’antica tribù!), un club etnico d’élite, ed eredi di una memoria dolorosa spesso sfruttata in malafede, pronti a rinfacciare di antisemitismo chiunque si opponga alle loro pretese e ai loro crimini.


sabato 11 maggio 2024

Che cosa dipingerebbe oggi Picasso?

 

C’è un potere oscuro, invisibile, che governa le nostre vite. La tecnologia ci lascia nel bisogno; peggio, lo allarga a dismisura. Più che di bravura, ci manca gentilezza. Non c’è via d’uscita, le persone si comportano nel modo in cui gli viene detto di comportarsi. Da folla gregaria. Non c’è modo per sfuggire al collante sociale, di essere altrove. Non basta mettersi in disparte contro la volgarità ideologica: posso capire che un prete sia contro l’aborto, ma contro i contraccettivi è palese la sua contraddizione; che poi paragoni questi ultimi agli armamenti, denota tutta la sua volgarità.

Anche il nostro sentimento anti-establishment è per la maggior parte vago e informe, anzi, conforme. Penso all’assenza di reazioni al voto di “astensione” dell’Italia all’Onu che prevedeva concretamente per il rappresentate palestinese di poter stare seduto all’assemblea tra gli altri rappresentanti degli Stati membri, in ordine alfabetico, oppure di presentare proposte, emendamenti e sollevare mozioni procedurali su tutti gli argomenti, non solo, quindi, quelli strettamente legati alla Palestina o al Medio Oriente. Senza peraltro avere diritto di voto, né poter presentare la propria candidatura per i principali organi delle Nazioni Unite, come il Consiglio di sicurezza, il Consiglio economico-sociale e nemmeno per quello per i diritti umani (continuerà ad avere solo lo status di “osservatore”).

La ragion di stato, ossia gli affari dell’ENI e altre meschinità. La comprensione della storia e della società oggi non è all’altezza del compito. Per tacere dell’arte. Che cosa dipingerebbe oggi Picasso in riferimento a ciò che accade?

venerdì 10 maggio 2024

Un modello memoriale egemone

 

Quando vi capita di stare in compagnia con persone vostre conoscenti, provate a chiedere loro a bruciapelo: “quante persone hanno massacrato in tutto i nazisti nei campi di concentramento, nei campi di sterminio e con altri metodi non convenzionali?”.

Ogni volta, invariabilmente, di primo acchito la risposta sarà: “Sei milioni”. Se poi specificate che la domanda era riferita a persone in generale e non soltanto ad ebrei, allora vedrete che i vostri interlocutori il più delle volte non sapranno rispondere o resteranno nel vago.

E accade la stessa cosa per quanto riguarda la filmografia che ha ad oggetto i campi di concentramento e di sterminio. Quasi sempre gli internati, le vittime, sono ebrei, o prevalentemente ebrei. Che in quei campi siano morti cinque milioni di polacchi, e che due milioni e mezzo fossero cattolici, lo spettatore non lo sospetta.

Auschwitz, per esempio, era stato istruito in origine per detenere prigionieri polacchi, e non ebrei, ma anche questo è un dettaglio che non merita di essere citato quando si parla di Shoah. Passi poi che un soggetto istruito ma poco acculturato come Barack Obama abbia potuto definirlo senza un’ombra di esitazione come un “campo di sterminio polacco”.

Che gli ebrei polacchi siano stati in grandissima parte cancellati dalla faccia della terra dalla ferocia germanica non dovrebbe far dimenticare che, quando si parla di proporzioni, il numero di rom (tzigani) assassinati in Polonia è molto vicino a quello delle vittime ebree. E però queste vittime raramente sono nominate e sempre en passant.

I crimini nazisti (e fascisti) sono stati trasformati in una tragedia esclusivamente ebraica. Ci si dovrebbe chiedere perché si è giunti a dare un carattere esclusivo alla morte ebraica, dimenticando in un silenzio assordante la morte degli altri. Tzigani, comunisti e socialisti, testimoni di Geova, resistenti e avversari politici, soldati e funzionari sovietici, omosessuali e altre vittime ancora sono state quasi tutte espunte dal fenomeno.

Un esempio è il Giorno della Memoria, che risponde a un modello memoriale egemone (basta leggere cosa dice Wikipedia). Quanto ha influito dal dopoguerra a oggi questo modello egemone sulla ridefinizione dell’entità ebraica contemporanea?

L’obiettivo dalla politica sionista dello Stato di Israele è stato quello di «accumulare un capitale di prestigio esibendo un passato doloroso nel modo più drammatico possibile. Tutte le altre vittime del nazismo sono state relegate ai margini, il genocidio si è trasformato in un’esclusiva ebraica».

Queste parole, che faccio mie, appartengono a un professore israeliano dell’università di Tel Aviv, il più grande ateneo pubblico d’Israele. Antisemita pure lui?

giovedì 9 maggio 2024

Uno Stato di "eletti"

 

Troppo spesso ancora oggi gli ebrei sono descritti come portatori di caratteri loro propri, addirittura sui generis, trasmessi per via ereditaria. Uno speciale corredo genetico distinguerebbe gli ebrei da tutti gli altri esseri umani.

Questa è una teoria cara ai sionisti e, paradossalmente e per altri opposti motivi, all’antigiudaismo.

Nei registri anagrafici israeliani un cittadino può risultare di nazionalità “ebraica”. Del resto Israele si autodesigna ufficialmente come Stato del popolo ebraico. Lo Stato di Israele designa ebreo un suo cittadino non perché parli l’ebraico, racconti barzellette ebraiche, mangi cibo ebraico, scriva in ebraico o pratichi attività specificatamente ebraiche. Nulla di tutto questo.

Si è censiti come ebraici perché quello Stato, ossia Israele, ha esaminato l’albero genealogico di quel determinato cittadino, appurando che è figlio di una madre ebrea, che sua nonna era ebrea e così pure sua bisnonna, di generazione in generazione fino alla notte dei tempi. Un po’ come se per essere cittadino italiano si dovesse essere figli di una madre cattolica, a sua volta discendente di una nonna, una bisnonna e così via, cattoliche.

Quel cittadino considerato ebreo dallo Stato di Israele potrebbe aver avuto un padre e un nonno ebrei, ma ciò non lo farebbe diventare ipso facto un cittadino ebreo dello Stato d’Israele. Parlare e imprecare in ebraico non gli sarebbe servito a nulla, così come non gli sarebbe servito a nulla aver frequentato fin da bambino le scuole israeliane. Fino alla fine dei suoi giorni sarà etichettato dalle autorità come un immigrato polacco, tedesco, italiano, russo, e che dir si voglia. E così anche se fosse nato in Israele ma non da madre ebrea.

Non solo. Quel cittadino non può rinunciare di essere ebreo, e ciò stando alle leggi in vigore nello Stato israeliano, conformi in questo ai canoni della halakhah, ossia alle leggi religiose ebraiche. Il fatto di essere o non essere ebreo non ha nulla a che vedere con il libero arbitrio. Soltanto in casi limite l’anagrafe israeliana potrebbe accettare di modificare la nazionalità di un cittadino, ossia nel caso si convertisse a un’altra religione.

E se quel cittadino fosse laico e non credente, ossia un cosiddetto ateo? Se non credesse nelle balle sulla trascendenza, di essere creatura di Dio e non viceversa? Ancora nel XXI secolo, in Israele e nel resto del mondo, i sionisti respingono senza perdere l’idea stessa di una nazionalità israeliana di matrice puramente civile: si può parlare sempre soltanto di nazionalità “ebraica”.

Scrive lo storico israeliano Shlomo Sand: «A chi desidera considerare Israele come il proprio Stato nazionale di appartenenza restano due sole possibilità: essere figlio di madre ebrea, oppure sottoporsi a un lungo e tortuoso cammino di conversione religiosa secondo i canoni della legge ebraica, anche se in cuor suo l’aspirante cittadino è ateo al cento per cento».

Molti degli studenti di Shlomo Sand sono di origine palestinese, parlano correntemente l’ebraico e a norma di legge dovrebbero essere considerati israeliani a tutti gli effetti. Eppure nei registri del ministero dell’Interni risultano censiti una volta e per tutte come “arabi” e non come israeliani. Non è in loro potere modificare questa situazione, né oggi né mai. Qualcuno, penso a campioni come Chiaberge e altri, che propugna (giustamente) lo jus soli per i nostri immigrati, ha avuto mai da dire qualcosa a riguardo dello status dei palestinesi nati e residenti in Israele?

Per contro, s’immagini che in qualunque altro Paese le autorità imponessero a chi si riconosce come ebreo di farlo scrivere sulla sua carta d’identità, per non parlare di un ipotetico censimento nazionale condotto con simili criteri. Ma è esattamente ciò che avviene in Israele, e di ciò nell’occidente liberale e democratico non si parla.

mercoledì 8 maggio 2024

Di quale antisemitismo stanno parlando?

 

Comprendo le preoccupazioni per il caso Falcinelli, ma del resto è noto che gli Stati Uniti sono un regime a larghi tratti fascista (sì, proprio fascista). E la cosa è ben rappresentata dai 2500 arresti di manifestanti del Gaza Solidarity Encampment e altre organizzazioni studentesche. Del resto, la storia degli Stati Uniti è la storia di un regime di segregazione razziale, di linciaggi, di assassinio di popolazioni autoctone e poi di oppositori interni ed esterni, eccetera. Dunque non c’è da stupirsi. Semmai ci sarebbe da stupirsi perché Repubblica dia così ampio risalto al caso Falcinelli e tratti i manifestanti dei campus universitari dapprima alla stregua di terroristi e poi copra i loro arresti col silenzio. Stupore in realtà immotivato se si considera la proprietà del giornale e la sua direzione.

In molti casi, studenti e docenti sono stati accusati di “violazione” per essersi seduti sull’erba o aver occupato gli edifici del campus, mentre sono stati incarcerati anche i giornalisti che hanno filmato gli studenti arrestati. In molti casi si parla di “rivolta” quando invece si tratta di pacifiche manifestazioni o semplicemente di presenza nei campus. Quanto al presidente Joe Biden, in molteplici dichiarazioni continua a ripetere la grande balla secondo cui l’opposizione allo sterminio sionista del popolo palestinese è un’espressione di antisemitismo. Tutto ciò sta avvenendo da mesi senza che la libera stampa (salvo eccezioni) dell’occidente democratico sollevi sopracciglio, senza che la UE si pronunci per delle sanzioni contro Israele, nel silenzio di molti che diventa complicità.

Di fronte alla tragedia palestinese, di quale antisemitismo stanno parlando? Oggi nessun uomo politico può sognarsi di esprimere pubblicamente posizioni antiebraiche, se non forse in qualche zona dell’Europa centrale e nella sfera islamico-nazionalista. Nessun organo di stampa credibile accetterà di propagandare frottole antisemite, nessuna casa editrice degna di questo nome è disposta a pubblicare autori che predicano l’odio nei confronti degli ebrei. Nessuna emittente radiofonica e nessuna rete televisiva, pubbliche o private che siano, concedono spazio a opinionisti ostili alla popolazione ebraica. Se ogni tanto capita che i mass-media lascino passare per sbaglio frasi diffamatorie nei confronti degli ebrei, l’errore viene immediatamente rettificato, senza eccezione possibile.

Dunque? Sopravvivono sacche di odio antiebraico, residui di un passato remoto che bisbigliano nel segreto, figure marginali o di spostati, ma il grande pubblico si guarda bene dall’attribuire a quelle parole la benché minima plausibilità. La giudeofobia imperante di un tempo nelle civiltà cristiane occidentali fino ad anni recenti era, purtroppo per chi l’ha patita allora, tutt’altra cosa. Il termine stesso di “antisemitismo” è stato coniato da uomini che odiavano gli ebrei: la qualifica di “semita”, chiaramente razzista, è priva di qualunque fondamento storico.

Allora, perché tanta ferocia repressiva, che cosa motiva questo clima ideologico? D’accordo, il solito appoggio al sionismo, che tanta parte ha nella finanza e nei media, ma c’è dell’altro. Serve a stoppare preventivamente l’emergere di un’opposizione politica all’imperialismo occidentale e alle sue guerre.

Il 4 maggio 1970 quattro studenti della Kent State University, nel nord-est dell’Ohio, manifestanti disarmati furono assassinati e altri nove rimasero feriti sotto il fuoco della Guardia Nazionale. Protestavano contro la decisione del presidente Richard Nixon di intensificare la guerra in Vietnam inviando truppe statunitensi nella vicina Cambogia.

Quegli omicidi hanno strappato la maschera della “democrazia” e della “libertà” dal volto dell’imperialismo americano, mostrando che la classe dirigente americana era disposta a usare in patria contro l’opposizione politica gli stessi metodi feroci che stava usando nei suoi massacri nel sud-est asiatico.

I quattro studenti uccisi avevano tra i 19 o 20 anni. In quel momento i loro assassini non stavano reagendo ad un attacco improvviso o ad una carica da parte degli studenti, o in risposta al lancio di sassi, bottiglie o altri oggetti. Due degli assassinati erano addirittura dei passanti, si trovavano a 130 metri dalle truppe. La maggior parte dei feriti si trovava a decine di metri e il più lontano a 200 metri dagli assassini in divisa, i quali spararono a raffica. Nessuno degli assassini, né i loro comandanti, né il governatore dell’Ohio, James A. Rhodes, che ordinò loro di occupare il campus e li incitò, fu mai assicurato ai tribunali. Anzi, Rhodes, al suo secondo mandato (1963-1971), fu poi rieletto per altri due mandati (1975-1983).

Il governatore descrisse i manifestanti come “peggio delle camicie brune e degli elementi comunisti. Sono il peggior tipo di persone che ospitiamo in America. Penso che ci troviamo di fronte al gruppo più forte, ben addestrato, militante e rivoluzionario che si sia mai riunito in America”.

Erano gli anni in cui il Dipartimento di Stato, attraverso la CIA, con la complicità del comando Nato in Italia e la rete Gladio, organizzava la strategia della tensione avvalendosi della manodopera fascista. Erano gli anni delle bombe e delle stragi.

Il pilastro della nostra democrazia

 

Nel 1789, per la prima volta, i rivoluzionari francesi proclamarono che il principio della libertà di espressione è uno dei diritti più preziosi e fondamentali dell’uomo e del cittadino. Si dimenticarono di chiarire che è sempre un diritto, come tutti gli altri diritti, condizionato dalle circostanze, tipo il mondo politico che non vede male limitare la libertà di espressione.

Basti pensare all’art. 21 della costituzione, che al primo comma sancisce solennemente tale libertà, dicendo che non può essere soggetta autorizzazioni o censure, ma di fatto smentendosi nei commi successivi quando il solenne principio di fatto può essere revocato “per legge”.

En passant: anche l’operaio ha diritto di diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero dicendo chiaro e tondo al suo padrone che le condizioni di lavoro non rispettano, per esempio, le norme antinfortunistiche? Ma certo che lo può fare, liberamente e senza censure.

Non è possibile alcuna libertà di espressione senza indipendenza economica. Il denaro è il nerbo anche della libertà d’espressione anche nel settore dell’informazione. Quando gente d’affari compra il media in cui lavori, media che spesso ha bilanci cronici in rosso, non nasconderti dietro il tuo mignolo, sta comprando anche la tua libertà di espressione. Non è perché scrivi sul giornale di De Benedetti o di Elkan invece che su quello di Cairo o Angelucci che puoi scrivere quello che vuoi e su chi vuoi tu.

Specie negli ultimi tempi, non mancano le polemiche e anche le proteste di giornalisti in nome e per conto della libertà e pluralità di espressione. Ci vengono presentate come prova della loro integrità professionale e ciascuno dei protagonisti s’immagina di essere il campione della invocata libertà di espressione. Certo, nella restrizione o manipolazione di questa libertà vi sono livelli diversi, e indubbiamente quello di decenza è stato superato.

Ma non da oggi, quando invece viene solo allo scoperto per i modi arroganti e maldestri. Diciamo che c’è modo e modo di manipolare l’informazione. È una questione di stile. E di giornalisti di grande stile ne vedo assai pochi di questi tempi. E neanche di coraggio: se non puoi esprimerti come vorresti nel mezzo che stai utilizzando, lascialo.

Chi può farlo? Solo le grandi “firme”, i giornalisti milionari, ma non quelli che invece remano nella stiva. Anche in tal caso, come in ogni caso, la propria libertà è condizionata dal denaro, il vero pilastro della nostra democrazia. Pertanto e in via principale è la situazione economica dei media e dei giornalisti a rendere difficile l’esercizio di questa libertà fondamentale.

A tirarci su il morale c’è l’Iran: il rapper Toomaj Salehi è appena stato condannato a morte per avere a più riprese denunciato le torture e i maltrattamenti subiti dai detenuti che si oppongono al sistema. La sua libertà di espressione non è stata molto supportata dalla nostrana intellighenzia, men che meno da quella altrimenti sempre pronta a twittare cose stupide durante le polemiche stupide.