Districarsi tra le notizie false o solo più verosimili è sempre un’impresa, specie quando ne sei sommerso e i tempi della riflessione s’annullano e la risposta diventa emozionale e deformata a comando della grande regia. Quanto è successo e ancora accade in Libia, solo per fare una situazione che ci sta davanti alle porte di casa, avrebbe dell'inverosimile se non si trattasse invece della pratica corrente del neocolonialismo. Dei “ribelli”, dei quali si dice di conoscere poco o nulla, insorgono contro uno dei tanti regimi dittatoriali, la Libia appunto, e le principali potenze imperialistiche occidentali si premurano di farsi dare dall’Onu (di cui la Libia è paese membro a ogni effetto) il premesso di bombardare le truppe regolari e le infrastrutture di quel paese in difesa “dei civili” e in appoggio ai “ribelli”. Un’assurdità giuridica, sul piano del diritto internazionale, che però diventa evanescente quando in gioco c’è il petrolio.
Appariva chiaro che le bande dei “ribelli”, molti sotto la bandiera dell’ex famigerato re Idriss, non ce l’avrebbero fatta da soli, e quindi, contro la stessa risoluzione dell’Onu che autorizzava il massacro dal cielo, alcuni paesi della Nato inviano le proprie truppe speciali. E così un paese che aveva il più alto reddito pro capite dell’Africa (dopo i bianchi del Sudafrica) è stato devastato al solo scopo di sostenere un’ala ribelle del grande gioco del petrolio, estromettere Gheddafi e i suoi dalla holding libica che controlla giacimenti e contratti (come ho già scritto in febbraio, quando la vicenda non era ancora di moda: qui e qui), causando decine di migliaia di morti, centinaia di migliaia di profughi e fuggitivi, ridotto molte zone della Libia in macerie.
Allo scopo andava bene tutto (la contesa tra “vincitori” si regola dopo, a bottino conquistato), ed ecco una vecchia conoscenza tra coloro che si sono fatti avanti come i capi della "liberata" Tripoli: Abdelhakim Belhadj, che si è descritto come il capo del Consiglio militare di Tripoli, cioè il comandante militare dei ribelli. Il quotidiano arabo Asharq Al-Awsat ha giustamente notato che Belhadj «è anche un ex emiro del Gruppo combattente islamico libico (LIFG), vietato a livello internazionale come organizzazione terroristica a seguito dei fatti del 9 settembre».
Una lunga carriera quella di Belhadj, iniziatoa come jihadista al fianco di Osama bin Laden e con la CIA dei mujaheddin islamici in Afghanistan nel 1988. È tornato in Libia nel 1990, fondando la LIFG e per lanciare un'insurrezione armata contro il governo di Gheddafi. Quindi ha organizzato dei campi di addestramento in Afghanistan. Dopo l'invasione dell'Afghanistan nell'ottobre 2001, Belhadj è riparato in Pakistan e poi in Iraq, dove ha collaborato con il leader di Al Qaeda Abu Musab al-Zarqawi. Catturato dalla CIA nel 2003 in Malesia, è stato sottoposto ad extraordinary rendition di una prigione segreta in Thailandia dove è stato interrogato sotto tortura. È stato poi consegnato (non sembri un paradosso) al regime di Gheddafi nel 2004. Nel 2010, fu rilasciato dopo che lui e altri leader LIFG hanno dichiarato di rinunciare alla lotta armata, se non in paesi musulmani invasi, tra cui Iraq, Afghanistan e Palestina.
Capirci qualcosa in questi intrecci è sempre difficile, ma è evidente che a muovere le fila del terrorismo internazionale non è qualche sprovveduto beduino del deserto. Resta il fatto che la banda di Abdelhakim Belhadj ha saccheggiato i depositi di armi di Gheddafi. Potete scommettere che sentiremo ancora parlare di lui poiché lo scontro tra fazioni (vedi la faccenda dell’uccisione del generale Abdul Fatah Younis) è ancora aperto e parlare di filoisalmisti e filoccidentali in tale contesto ha poco senso. La domanda è sempre la stessa: chi controlla chi?
Queste guerre naturalmente hanno costi economici altissimi anche da parte degli aggressori, proprio nel momento in cui i governi americano e europei tagliano le spese sociali e riducono ogni tipo di prestazione. Non una sola manifestazione di protesta c’è stata contro questa guerra imperialista, e anzi si è assistito al plauso di sostegno convinto da parte di un ferrovecchio dell’internazionalismo sovietico dall’alto del suo scranno istituzionale.
La foto è di 2 anni fa, scattata in Italia. Grazie a Luca per averla segnalata.