domenica 10 dicembre 2023

Il destino nella culla

Dal giornale di Confindustria di oggi: il manager più pagato tra le società italiane quotate in Borsa nel 2022 è Mike Manley (successore di Marchionne), con 51.184.773 euro al lordo delle tasse ricevuti da Stellantis, di fatto un indennizzo per la mancata conferma alla guida del gruppo nella fusione tra Fca e Psa. Il secondo è Fulvio Montipò, a.d. di Interpump, con 49.120.360. Terzo Marco Tronchetti Provera con 19.966.260 dalla Pirelli e dal cda di Rcs. Dei 20 manager più pagati, a metà classifica si piazza Marco Gobbetti, a.d. di Ferragamo con 13.915.350. Ultimo della classifica, Claudio Berretti, plebeo con soli 8.484.005.

Siamo passati dall’aristocrazia del sangue a quella del denaro. Queste classifiche reddituali portano a disuguaglianze sociali intollerabili che in molti casi sono difficili da spiegare con il merito: infatti rinviano alla dominazione di classe.

Le condizioni di nascita continuano a determinare il destino degli individui, e allora che cosa c’è di meglio che inventarsi una “teoria” come quella della meritocrazia? La meritocrazia è un’idea potente, un concetto che trova risonanza in un’ampia gamma di attori sociali.

I manager aziendali e i loro galoppini sono particolarmente appassionati a questa visione, a questa dottrina che è una fede quasi religiosa. Il merito è la buona coscienza dei vincitori del sistema, il principio di legittimazione per le categorie sociali dominanti che possono proclamare di meritate la loro sorte: se siamo lì è perché siamo, nella sostanza, diversi dagli altri, da quelli che non sono niente. Noi siamo dalle eccellenze.

Dunque, il filo conduttore della “meritocrazia” si basa sul mito del merito personale per giustificare il successo di ogni persona: quelli che stanno più in alto nella scala sociale pensano di aver raggiunto tale posizione per il loro merito, mentre quelli che non ce l’hanno fatta sono indotti a credere che avrebbero, per esempio, dovuto studiare di più e meglio a scuola.

I più bravi a scuola hanno successo e di conseguenza chi ha successo è chi ha studiato e lavorato bene. Il funzionamento della scuola e della società in generale mira a mantenere questo mito, l’illusione della perfetta equità. Un messaggio che incolpa i meno “fortunati” per la loro situazione, sollevando la società dalla sua responsabilità collettiva. Ecco che, ipso facto, i bambini provenienti da contesti svantaggiati che faticano già nella scuola primaria risultano meno meritevoli.

Un po’ come quello che Max Weber proponeva con il concetto di profezia che si autoavvera. Sentiamo fin dalla più giovane età dire dalle persone intorno a noi che i percorsi migliori per i meritevoli sono possibili, che i meritevoli possono diventare ciò che vogliono: “quando vogliamo possiamo”. Questo mantra l’abbiamo sentito innumerevoli volte e si presenta come un credo attraente e motivante, lusinga il nostro ego, fa vibrare dentro di noi la corda dell’ambizione e dell’autostima.

Certo, le eccezioni, i successi individuali assolutamente meritocratici (tipo Fulvio Montipò) danno sostanza e “realtà” al mito che chiunque sia meritevole può salire dal basso in alto, portano felicità al sistema. E se guardiamo al successo nei concorsi, anche questo dà una dimensione dinamica al mito. In generale a nessuno piace dire che deve la sua traiettoria a fattori che poco hanno a che fare col merito individuale.

Lungi dal ridurre le disuguaglianze, l’ideologia meritocratica tende a rafforzarle. Focalizzandosi sull’individuo, minimizza il peso dei determinismi socio-culturali e territoriali, sposta l’attenzione dai fattori economici e di classe che influenzano in modo decisivo l’accesso alle opportunità. È un modo per mascherare le ingiustizie, per giustificare la discriminazione, per rafforzare privilegi ereditati e immeritati che nella generalità dei casi accelerano la corsa verso il successo.

Meglio far credere che regni la meritocrazia, un mito rassicurante e in realtà inquietante. Diversamente, significa mettere in discussione il ruolo dell’individuo e quello della società, i nostri valori, il nostro rapporto con gli altri, la nostra visione di successo. Tutte idee che modellano le nostre vite, che non abbiamo interesse e voglia di sfidare o anche solo di discutere a fondo, giammai di ripensare il mondo strutturato e organizzato in modo radicalmente diverso.

sabato 9 dicembre 2023

Si raccoglie ciò che si semina

 

Nel 1970, Almirante, in un suo discorso ebbe a dire: «Se i comunisti hanno vinto la guerra del linguaggio, noi l’abbiamo finora perduta [...] Dobbiamo stare molto attenti a non rappresentare, proprio noi, in modo grottesco il fascismo, comunque in modo inattuale, anacronistico, stupidamente nostalgico.» (*)

Il “padre fondatore” più di mezzo secolo fa dettava la linea: abbiamo bisogno di un neofascismo trendy, disinibito, che faccia dimenticare le polverose origini. I suoi discepoli l’hanno preso in parola e sono diventati maestri della espropriazione semiologica delle classi subalterne. Da cui slogan come: “Costruiamo nelle scuole l’alternativa culturale per costruire nel paese l’alternativa al sistema”.

Il neofascismo al potere non è cosa piovuta dal cielo, un fatto occasionale e transeunte. Giorgia Meloni rappresenta un prodotto genuino di quella “costruzione” dal basso del neofascismo e portatrice di un nuovo linguaggio. Non semplicemente un aggiornamento verbale e d’immagine: essa ha saputo presentarsi non come una forza eversiva, ma come proposta alternativa e allo stesso tempo conservatrice, vittima d’una oppressione “di regime”.

Poi vi sono i vecchi e nuovi tromboni con le loro allusioni esplicite e più o meno patetiche, a rassicurare i nostalgici duri e puri che il cambiamento, il camuffamento, è tattico e di superficie, che non c’è stato nessun rinnegamento delle origini. A questi sopravvissuti risponde l’isolato grido di protesta di un loggionista, mantenendo gli altri un silenzioso assenso, incuranti che al centro del prestigioso palco sedesse un simile ceffo.

Siamo di fronte alla vittoria di una coalizione guidata da una formazione di ispirazione fascista. Non è solo l’estrema destra: è il fascismo eterno che torna al potere, ma indossando altri vestiti e altre sembianze, spudoratamente sostenuto dai media un tempo antifascisti e dai partiti conservatori.

Sulla vittoria incontrastata della Meloni, passata dal 4,4% dei voti nel 2018 al 26,2% nel 2022, sul suo zoccolo duro elettorale attorno al 30% che non deflette nei sondaggi, liberali e sinistra non si sono ancora interrogati a fondo. Non si vuole confessare apertamente che le devastazioni della globalizzazione liberista non sono una reminiscenza del fascismo. Per cui è stato facile per il neofascismo proporsi all’insegna dell’alternativa al sistema, un sistema a lungo governato dalla “sinistra”.

La vittoria del neofascismo italiano rappresenta la definitiva normalizzazione dei partiti neofascisti nel cuore dell’Europa. Non si tratta più della lontana Ungheria o della Polonia ultracattolica. L’Italia non è un paese qualsiasi dell’Europa. Il trionfo di Fratelli d’Italia segue l’abbandono delle politiche redistributive e della antica vocazione di socializzazione della sinistra, lo stretto inequivocabile abbraccio al dogma di un capitalismo che più sadico di così non si potrebbe.

Il successo delle estreme destre europee è, nel senso più profondo, un clamoroso fallimento del progetto europeo rispetto alla sua promessa di lunga data di promuovere la democrazia, i diritti umani, la cultura e l’inclusione sociale per tutti.

Le dinamiche della guerra e delle dispute geopolitiche accelerano l’involuzione dell’Europa, e l’Italia è sempre stata storicamente il primo dei laboratori politici. Ai padroni, alle corporazioni, ai rentier, alla Chiesa più reazionaria e alle altre forze che vogliono meno democrazia e niente più, la Meloni piace e fa il loro gioco, perciò sono disposti a chiudere gli occhi sulle sciocchezze e scelleratezze del suo tragicomico parterre ministeriale (**).

Si raccoglie ciò che si è seminato.

(*) Il testo del discorso fu pubblicato dal Secolo d’Italia il 7 aprile 1970, a pagina 3 con il titolo: Noi siamo la nostalgia dell’avvenire. Cit. da Maurizio Dardano, Il linguaggio dei giornali italiani, Laterza, 1981, p. 184, nota 62.

(**) Vale ricordare che nel 1922 Benito Mussolini formò e guidò un governo di coalizione composto da vari partiti non solo di estrema destra, e ciò nonostante avesse ottenuto solo l’8,15% dei voti.

Comunicazioni dallo spazio


Senza saperlo, ogni europeo utilizza 47 satelliti ogni giorno. Lo spazio è diventato essenziale nella nostra vita quotidiana: per comunicare; spostarsi senza dover ripescare vecchie mappe; sincronizzare le reti elettriche, bancarie o semplicemente i semafori stradali; prevedere il tempo o per cercare alieni a cui comunicare che il nostro sistema sociale è il migliore di quelli possibili, nel caso lassù non ne fossero ancora persuasi.

L’orbita bassa non è altro che un’enorme costellazione di satelliti privati. Siamo condannati a vedere brillare di notte solo i segnali satellitari invece delle stelle? No, ci hanno detto già nel 1962 gli yankee con il Starfish Prime; no, ci ripetono ora i francesi, ci sono anche i loro esperimenti con i missili, come quello della settimana scorsa, o il lancio di 43 anni fa nel Tirreno (*).

I satelliti inviati in massa in orbita bassa inizieranno rapidamente a scontrarsi e ad aumentare la probabilità di collisione in orbita. Sono bastati sessantasei anni di conquista dello spazio per generare 36.000 detriti di larghezza superiore a 10 cm e 130 milioni di oggetti superiori a 1 mm.

La guerra commerciale è al centro del problema della congestione nell’orbita bassa. Per ottenere l’autorizzazione a dispiegare le proprie costellazioni satellitari, gli operatori devono rivolgersi alle autorità nazionali di regolamentazione. Tuttavia, per mantenere il primato americano in termini di connettività in orbita bassa, la Federal Communications Commission convalida quasi ciecamente lo spiegamento di migliaia di satelliti. L’Europa è, anche in tale caso, solo un’espressione di una civiltà per larghi tratti esausta e morente.

I media hanno coltivato per decenni l’immagine dell’imprenditore che costruisce dal nulla il suo impero industriale nel suo garage, di cui Elon Musk è uno dei più spiccati prototipi. Senza la NASA, SpaceX non esisterebbe. Ha ricevuto più di 22 miliardi di dollari in appalti pubblici dalla NASA e dalle forze armate statunitensi. È una cifra enorme che mette a distanza l’industria spaziale europea che non può contare su simili finanziamenti.

La storia d’amore tra Musk e il contribuente americano è solo agli inizi, dal momento che la NASA conta sulla sua compagnia SpaceX per riportare gli americani sulla Luna. Nonostante i ripetuti fallimenti. Lo spazio è stato a lungo visto come un luogo di cooperazione, la Stazione Spaziale Internazionale è il risultato di una collaborazione senza precedenti tra Stati. Ma i tempi cambiano.

Dal punto di vista economico, ciò che sta accadendo nello spazio è ciò che avviene sulla Terra: le aziende private sono fortemente sovvenzionate dal pubblico. Quella di Musk non solo in prospettiva lunare, ma anche marziana (ricordiamoci che l’atmosfera marziana ha una densità di circa l’1 per cento di quella terrestre, da qui una delle maggiori difficoltà di atterraggio).

Ciò che più mi impressiona in questa storia di colonizzazione marziana è il tour de force propagandistico grazie al quale Musk è riuscito a coinvolgere una folla di sostenitori nel suo delirio. Il tenace miliardario ha deciso che ciò che resterà dell’umanità dovrà stabilirsi su un pianeta che non ha assolutamente nulla da offrirci. C’è della gente che accarezza l’idea di trascorrere la vita in tute spaziali, o sottoterra, proteggendosi dai letali raggi cosmici. In ogni caso è tecnicamente irrealistico.

Come non bastasse Musk, gli Stati Uniti, il Lussemburgo (!), il Giappone e gli Emirati Arabi Uniti si sono dati un quadro giuridico che dà loro il diritto di sfruttare e commercializzare le risorse spaziali, dalla Luna o dagli asteroidi, ad esempio, in violazione con l’articolo 2 del Trattato Spaziale Internazionale dell’ONU ratificato da tutte le principali nazioni spaziali, che vieta “appropriazioni nazionali” di corpi celesti.

Penso proprio che oltre all’Anomalia del Sud Atlantico, ve ne sia una di altrettanto pericolosa a Boca Chica Village.

(*) Documenti desecretati rivelano che tra il 1945 e il 1992 gli Stati Uniti hanno effettuato 1.051 test atomici esplodendo in totale 180 megatoni, pari a 11.250 bombe di Hiroshima; 12 test hanno contemplato il lancio di razzi fino a 700 km di quota, nella magnetosfera, con l’obiettivo di verificare se la struttura stessa del sistema Terra potesse essere utilizzata come arma. Quali sono state le conseguenze a lungo termine sull’equilibrio terrestre e sul clima? 

venerdì 8 dicembre 2023

Mucha a Firenze

 

A Firenze, presso il Museo degli Innocenti, è in corso una mostra dedicata ad Alphonse Mucha (1860-1939). Segue quella del 2016, più varia e corposa, allestita al Complesso del Vittoriano a Roma. Mucha è stato uno dei più importanti e celebrati artisti dell’Art Nouveau (da non confondere con l’Art déco). Memorie a cavallo tra Ottocento e Novecento, fantasmi di quella Belle Époque in cui chi aveva vinto la battaglia per l’esistenza se la spassava alla grande.

Piaccia o no, si tratta in ogni caso di arte e di un gusto per la decorazione ispirato a temi semplici e universali. Infatti, Mucha, in un’epoca di grandi e spesso assai discutibili cambiamenti nell’arte e nel gusto, credeva nell’arte come valore immutabile e universale. Scriveva che «L’arte non può essere nuova. L’idea di arte “moderna” come moda passeggera è offensiva».

Le opere pittoriche di maggiori dimensioni non sono presenti in mostra, ma sono visibili nei video, dove si può apprezzare il talento di Mucha come pittore. Si possono così vedere le grandi tele dell’Epopea slava (oggi presso il castello MoravskKrumlov), tra le quali L’incoronazione del bulgaro zar Simeon (1923), dipinto dedicato al sovrano del I Impero bulgaro, uno dei più potenti regnanti slavi dell’area balcanica nel X secolo.

Le immagini del dipinto mi hanno ricordato Barbara Tuchman (I Cannoni d’agosto, ora finalmente riedito da Neri Pozza), la sua indimenticabile descrizione dei funerali di Edoardo VII: «Dietro, venivano i due fratelli della regina Alessandra, re Federico di Danimarca e re Giorgio di Grecia; suo nipote re Haakon di Norvegia; e tre sovrani che presto avrebbero perduto il trono: Alfonso di Spagna, Manuel di Portogallo e, con in capo un turbante di seta, Ferdinando re di Bulgaria, che metteva in imbarazzo gli altri sovrani facendosi chiamare zar e che teneva in serbo un abito da imperatore bizantino completo di tutte le insegne, comperato da un fornitore di costumi teatrali per il giorno in cui avrebbe ricostituito, sotto il suo scettro, l’impero d’Oriente.»

Con lo stesso biglietto della mostra, si può visitare, nello stesso complesso monumentale progettato da Filippo Brunelleschi, il museo dedicato al primo orfanatrofio del mondo. Quindi la pinacoteca, dove, tra le altre opere, si può ammirare L’adorazione dei Magi di Domenico Ghirlandaio. L’ampio terrazzo offre una veduta dal lato della cupola della sinagoga fiorentina (in stile moresco, visitata l’anno scorso, non tenuta benissimo, merita un passaggio; viceversa le sinagoghe veneziane – sono cinque, dedicate ai vari riti – non sono facilmente visitabili). Nella stessa piazza del museo, l’imperdibile basilica dell’Annunziata (celebrazione messe permettendo).


Lirriverente Paul Gauguin

giovedì 7 dicembre 2023

Goyim

 




Con la storia dell’antisemitismo, della sicurezza d’Israele e molti altri pretesti, i sionisti hanno dapprima occupato un territorio, la Palestina, che non gli apparteneva, poi hanno reagito, durante il mandato britannico, col terrorismo verso i palestinesi che si opponevano all’occupazione, quindi hanno violato impunemente decine di risoluzioni dell’Onu. Hanno come obbiettivo la “Grande Israele”, e infatti hanno occupato abusivamente e stabilmente vasti territori e ora stanno radendo al suolo Gaza, abitata di oltre due milioni di abitanti costretti a “sfollare” (come se stessero uscendo da un cinema o una manifestazione di piazza). Poi toccherà, siamone certi, alla Cisgiordania. Se rilevi questi fatti, sei tacciato di essere antisemita e filopalestinese. Beh sì, il motivo per diventare filopalestinesi c’è. Che mi siano simpatici i sionisti proprio no. Quanto all’antisemitismo, molti ebrei dovrebbero interrogarsi sull’origine storica del loro razzismo.

mercoledì 6 dicembre 2023

Un potere che non può essere superato

 

Stefan Zweig, il “salisburghese volante”, annunciava ciò che stiamo vivendo e ciò che ci minaccia. Quando le civiltà dimenticano il meglio di sé per abbandonarsi al peggio. Nel 1919, scriveva: «Ciò che rende la nostra epoca così terribilmente tragica, così detestabile e così disperata, è proprio il fatto che essa non crede più ad altro che allo scetticismo, tutti gli ideali nazionali e politici che vengono proclamati in modo così forte e chiaro suonano sempre falsi da qualche parte e non provengono da un’intima convinzione, ma da un’intenzione politica.»

Nel 1929, annotava: «Il successo genera successo, la ricchezza chiama sempre più ricchezza, e in questo flusso ininterrotto e inesauribile c’è anche un vero culto, con la venerazione spontanea dei discepoli e delle anime stanche.» Col senno di poi si può chiosare: troppo stanchi per reagire a ciò che presto li renderà anime morte.

E continuava: “Il potere costituisce infatti la materia stessa della storia; esercita un’attrazione misteriosa sugli individui e sulle masse, che raramente si chiedono da dove venga e da chi sia stato prelevato; si accontentano di sentirlo come una sorta di esasperazione della propria esistenza, alla quale si abbandonano ciecamente. La caratteristica più pericolosa di ogni uomo è sempre stata quella di accettare di buon grado la sottomissione, di lasciarsi ridurre con entusiasmo allo stato di schiavi, preferibilmente schiavi del successo.»

In un racconto meraviglioso e crudele, La collezione invisibile, racconta la storia di un vecchio collezionista la cui moglie e figlia, per sopravvivere nella Germania di Weimar schiacciata dall’inflazione, rivendevano inconsapevolmente le straordinarie stampe (di Rembrandt, Dürer e altri) che aveva acquisito, con gusto sicurissimo, nel corso di tutta la sua vita. Il vecchio collezionista lo ignora, perché è diventato cieco; e mostra con orgoglio al narratore, un mercante, i fogli bianchi o le croste che hanno sostituito ai capolavori. Il vecchio vive nei ricordi precisi di un mondo scomparso.

Anche noi, come il vecchio collezionista, racconteremo con orgoglio ciò che eravamo, inconsapevoli di aver perso tutto in cambio delle grandi tecnologie della vita quotidiana, del nuovo rapporto con il tempo e lo spazio che esse inducono, un potere enorme che non può essere superato.

Pur applaudendo e fischiando

 

Globalizzazione, finanziarizzazione e più spesso neoliberismo sono termini largamente impiegati. Di che cosa si tratta? Globalizzazione e finanziarizzazione si riferiscono a processi storici, caratteristici del capitalismo in generale. Il neoliberalismo, invece, è una fase del capitalismo, che ha innescato un’accelerazione dei primi due processi.

Alla base della fase neoliberista, vi sono scelte politico-ideologiche ed è dunque un fenomeno di classe, in cui è stata coinvolta l’intera società. L’obiettivo è stato l’aumento dei redditi delle classi “superiori”, che nei primi decenni del dopoguerra erano stati contenuti (*).

Come si traduce l’obiettivo neoliberista a livello ideologico? Un credo “scientifico” che vanta di liberare le relazioni di mercato da ogni ostacolo (una ricetta che non è mai servita a scongiurare le crisi del capitalismo), laddove per ostacolo s’intende l’intervento pubblico nell’economia. Il mercato, fatto passare come un vettore di uguaglianza, oggi minaccia sia l’uguaglianza che la libertà degli individui (del resto, per quanto riguarda la forza-lavoro, uno scambio tra pari sarebbe assurdo).

Dal punto di vista pratico, i governi e le grandi istituzioni finanziarie hanno agito nel senso della più ampia apertura ad una deregolamentazione selvaggia dei meccanismi finanziari e alla libera circolazione internazionale dei capitali, con lo spiegamento delle multinazionali in tutto il pianeta.

Finanziarizzazione e globalizzazione sono i mezzi per la creazione di redditi molto alti al vertice della piramide sociale. I limiti che il New Deal e il dopoguerra avevano posto sui meccanismi finanziari, sulla globalizzazione finanziaria (un aspetto della quale è la creazione di paradisi fiscali), sull’espansione delle multinazionali sono stati progressivamente eliminati, anche prima del neoliberismo, ma con una tremenda accelerazione negli ultimi tre o quattro decenni. Queste pratiche erano e sono l’espressione degli obiettivi di classe neoliberisti.

Non si tratta solo di questo, ma anche dell’importanza data al capitalismo manageriale, una specie di “ibridazione” di classe, con i manager senior che entrano nella proprietà del capitale in forza del loro reddito molto elevato. Complessivamente, il fenomeno che ne è derivato è stato lo spettacolare aumento delle disuguaglianze.

È stata dunque la finanza e il capitalismo manageriale a guidare la lotta per l’affermazione dell’ordine neoliberista. Sarebbe importante, dal punto di vista dell’analisi, indagare sulla condivisione tra le diverse classi della destinazione del cosiddetto valore aggiunto, vale a dire del plusvalore (sono due concettualizzazioni diverse, ma prendiamo per buona la loro sovrapposizione). I profitti, gli alti stipendi manageriali (bonus, paracadute d’oro, ecc.) e i salari della grande massa dei lavoratori (la cui quota è diminuita).

Tuttavia, ciò che m’interessa è sì la motivazione soggettiva e ideologica del processo storico in atto, che appare nel fenomeno oggettivo del gigantesco trasferimento di ricchezza (qui la critica ai menestrelli dello slogan “anche i ricchi piangono” e alle tesi semplicistiche che vedono nella tassazione dei cosiddetti extra-profitti un meccanismo di riequilibrio risolutore), ma soprattutto m’interessa la sua crisi, ossia rilevare il disastro sociale che tale processo ha provocato e l’impatto in termini politici che sta avendo (**).

Su quest’ultimo punto, per farla breve, c’è da osservare che il premio al capitale è pagato con l’impoverimento e la precarizzazione delle classi medie e popolari. Ve da sé che dal punto di vista politico ed elettorale la reazione allo stato di cose descritto è consequenziale ed evidente con la crisi dei partiti tradizionali, coinvolti fino al collo nel neoliberismo. Ad avvantaggiarsi, storicamente e ancora una volta, sono le formazioni politiche dell’estrema destra.

Ripeto una cosa ovvia: il nuovo fascismo non assume, salvo aspetti marginali e caricaturali, le sembianze del vecchio fascismo. Non necessariamente legge Atreiu, saluta col braccio teso e cose del genere. Come ben osservava Marx, è la specifica forma economica in cui il pluslavoro non pagato e succhiato ai produttori diretti che determina il rapporto di signoria e schiavitù, come esso è originato dalla produzione stessa e da parte sua reagisce su di essa in modo determinante. Su ciò si fonda l’intera configurazione della comunità economica che sorge dei rapporti di produzione stessi e con ciò insieme la sua specifica forma politica. In ciò noi troviamo l’intimo arcano, il fondamento nascosto di tutta la costruzione sociale e quindi anche della forma politica del rapporto di sovranità e dipendenza, in breve della forma specifica dello Stato in quel momento.

Soggiungo per chi avesse scopo e voglia di comprendere: nella formazione sociale capitalistica, forme economiche e forme politiche, in virtù della loro relativa autonomia, interagendo senza mai identificarsi, consentono al modo di produzione capitalistico di fornire di sé un’immagine illusoria, vale a dire di far operare i rapporti politici, che sono rapporti di dominio, in forma mascherata.

Lo sfruttamento capitalistico e la dittatura borghese, in altri termini, vestono i panni della democrazia e la commedia, naturalmente, si replica finché gli sfruttati e i sottomessi restano al posto loro assegnato, pur applaudendo e fischiando ai vari atti che si susseguono sul palcoscenico della politica e ai diversi attori che essi stessi in parte hanno delegato.

(*) Possiamo dire che il neoliberismo ha risvegliato i vecchi demoni capitalisti che l’ordine sociale del dopoguerra non aveva mai realmente esorcizzato. Gli accordi di Bretton Woods del 1944 riconobbero le limitazioni al commercio internazionale e ai movimenti internazionali di capitali. Ma gli Stati Uniti non hanno realmente accettato questo nuovo quadro e hanno agito per superarlo (in tal senso mi viene in mente la disputa americana con Churchill sul punto quattro della Carta atlantica). Il motivo è semplice e si riferisce alla questione delle questioni: l’imperialismo americano. Il dopoguerra non ha mai smesso di essere imperialista e, come tale, il nuovo ordine sociale difficilmente poteva accogliere restrizioni allo spiegamento di capitale a livello globale. Dunque, in nuce, c’era già tutto.

(**) Con la forsennata deregolamentazione, le innovazioni finanziarie che ne sono derivate, la crescita degli investimenti finanziari all’interno di ciascun paese e nel mondo, la crescita degli investimenti da parte delle multinazionali (investimenti diretti), ecc. si è progressivamente costruito un quadro impossibile da controllare, sia da parte dei “mercati” che delle autorità centrali.

Le procedure contabili (in particolare la valutazione degli attivi con i valori osservati sui mercati o calcolati mediante modelli matematici), la cancellazione degli attivi rischiosi dai bilanci delle società finanziarie e cose del genere, sono tutte pratiche che hanno reso fittizi i calcoli della redditività, pur giustificando il pagamento di redditi individuali folli (dividendi, stipendi mostruosi, bonus, ecc.). È stato oltrepassato il confine e siamo nel pieno della cecità collettiva e della frode.

martedì 5 dicembre 2023

Eccetera

Che volete che vi dica, avete la manina rattrappita, congelata e in necrosi. Altri non hanno assolutamente i mezzi. Alcuni si sentono in incognito, paura di sporcarsi la fedina liberista. E poi, inevitabile, ci sono i tifosi: o sei con Hamas o con i sionisti. Se odi gli ebrei o i musulmani, devi scegliere! Poi scopri il legame tra il terrorismo israeliano e Hamas e non capisci più niente. Nella fantasmagoria cospiratoria tutti gli odi si completano a vicenda. Quindi con Putin o con il tragico comico di Kiev. Con l’improbabile ministro dell’agricoltura che sostiene la teoria della “Grande Sostituzione”, oppure con tipi come Chiaberge, che li vuole accogliere tutti. Una varietà di pensatori influenzati dalle tendenze autodistruttive di questo mondo sempre più pazzo. Per non dire dei “nazionalisti rivoluzionari”, che si preparano alle elezioni europee. Le donne votano, statisticamente, più degli uomini, e allora sfruttiamo l’occasione tragica per un nuovo posizionamento che permetta di guadagnare punti nell’elettorato femminile. Eccetera.


lunedì 4 dicembre 2023

Vero e falso

 


Ciò che detesto di più quando leggo le cose altrui non sono le sviste e gli errori. Nemmeno le falsità, se ben raccontate. Detesto soprattutto l’approssimazione. Un errore o una svista può essere una chicca, una cosa umoristica di cui ridere. Per quando riguarda Napoleone, in particolare, questi è parte del patrimonio di riferimenti nautici comune a tutti i navigatori che si ubriacano con i film storici alla Ridley Scott.

Sviste ed errori possono capitare a chiunque. Anche a un titolare di cattedra universitaria, preside di corso magistrale in ingegneria e perfino a Luca Lanini. Certo, scrivere che Napoleone fuggì da Sant’Elena è grossa come panzana. Ricorda quella del dirigente Telecom che anni fa se ne venne fuori con la vittoria di Napoleone a Waterloo.

Ovvio che glielo hanno fatto notare al professore pisano. Ciò che invece è passato indenne di quanto scrive è che l’Office of Strategic Services (OSS) non esisteva ancora all’epoca di Pearl Harbor. Sul fatto poi che Stalin fosse stato informato più e più volte dell’invasione tedesca ha ragione, vi sono indubbi riscontri. Per contro, che fin quasi al 22 giugno 1941 il Baffone non avesse dato alcun credito agli allarmi e perché si mostrasse incredulo è tema di dibattito storiografico in sæcula sæculorum.

I francesi hanno avuto Bonaparte, noi italiani ci siamo accontentati di Malaparte (prima antifascista, poi adeso al fascismo, poi nuovamente antifascista, a seconda delle circostanze). Già questo fatto la dice lunga sul destino dei popoli moderni e nostro in particolare. In generale, s’intende, poiché non tutti gli italiani sono come Curzio Malaparte. Spesso sono anche peggio (come i loro libri).

È vero solo in parte quanto conclude Lanini, ossia che “filtrare la notizia buona tra 100.000 che arrivano è una mestiere difficile”. A volte bastano elementari nozioni, diligenza nel riscontro delle fonti e aver letto di quando in quando un libro, lentamente e senza trascurare le note in fondo al testo.

Per esempio Guerra e pace, quel romanzetto che racconta di Natasha, Andrej e Pierre, dunque delle ramificazioni familiari e dei legami di subordinazione militare e sociale di tutte quelle belle persone descritte. Se poi non ricordi chi era Anna Michàjlovna Drubetskàja, poco male. Sono personaggi transeunti, che fanno parte della digestione di vite nell’intestino della storia (e della letteratura). L’importante è ricordarsi che Napoleone arrivò a Giza e a Mosca, lo zar Alessandro a Parigi e a La Malmaison, Stalin a Berlino e Potsdam, mentre Mussolini non andò oltre Mentone e Dongo. Personaggi veri e quelli di cartone.

sabato 2 dicembre 2023

Con un grande sospiro stanco

(aggiornamento del 3/12 con link statistici

A Gaza per gli islamici la musica è considerata arm, ossia proibita da Dio. Ciò non toglie che esiste un Conservatorio di musica dove i giovani studenti vanno a suonare, dapprima annidato all’interno della sede della Mezzaluna Rossa palestinese (sede bombardata nel 2009). Quindi qualcosa di diverso dalla paura delle bombe e dall’ansia della relegazione spaziale, economica e sociale controllata dalle forze armate israeliane. C’era un pianoforte, l’ultimo pianoforte a coda di Gaza, sopravvissuto ai bombardamenti israeliani di nove anni fa, ritrovato in un teatro in rovina, e che una ONG belga aveva salvato. Tre anni dopo Daniel Barenboïm aveva finanziato il suo restauro. Ci sarà ancora quel pianoforte da qualche parte?

Quante cose sono così poco note di quelle che per noi sono lontane realtà (più facile il tifo per l’una o l’altra parte in causa).

Secondo lUfficio Centrale di Statistica israeliano, sono circa 2 milioni gli arabi israeliani sui quasi 9 milioni di abitanti che popolano la cosiddetta “terra promessa” (qui le tabelle storiche aggiornate al 2022). Questa cifra include arabi musulmani, cristiani, drusi e beduini (da non confondere con i cittadini palestinesi in Israele). Ma non quelli ebrei. Espulsi dai Paesi arabi, gli ebrei iracheni, siriani, libanesi, egiziani, libici, marocchini, tunisini, algerini e yemeniti, per nascita o origine, sono 2,5 milioni. E così un israeliano su due è arabo (qui un altro sito di Tabelle ufficiali in PDF).

Alcune forze speciali dell’esercito israeliano sono composte esclusivamente da combattenti non ebrei. Potrei stupire sciorinando altri dati sulla composizione dell’esercito israeliano, ossia che una crescente aliquota di loro ha in tasca un Corano con la copertina di percalina blu decorata con arabeschi dorati (i musulmani costituivano nel 2019 il 17,9% della popolazione israeliana). La stragrande maggioranza dei soldati musulmani dell’IDF osserva le usanze dell’islam. I giovani militari pregano cinque volte al giorno e molte donne soldato indossano l’hijab, anche durante l’addestramento, sotto l’elmetto. Il battaglione da ricognizione 934 o Gadsar Nahal è l’unità delle forze speciali della Brigata Nahal. L’unità è tutta arabaE tuttavia tra i soldati di Daesh non c’è nessun giovane musulmano palestinese.

*

C’è qualcosa di malsano in questa ossessione per la Palestina! Quante volte abbiamo subito questa invettiva, tale da far pensare che l’antisemitismo abbia qualcosa a che fare con questa insistenza di denunciare la criminale politica coloniale e il razzismo dello Stato ebraico.

Un piccolo esempio delle gratuite angherie alle quali sono sottoposti i contadini in alcuni villaggi della Cisgiordania. I contadini si alzano alle tre del mattino per raccogliere frutta e verdura prima che faccia troppo caldo. Ma i coloni israeliani li provocano e li bloccano per ore per poi lasciarli accedere ai loro campi intorno alle 11, quando il sole picchia.

La generazione palestinese più giovane non nutre più speranze di quella più anziana. Non si fida più di Fatah, che accusa di essere troppo conciliante con Israele. Credono che gli accordi di pace o di condivisione della terra siano solo parole vuote. Il mancato rispetto di questi accordi non comporta alcuna sanzione contro Israele. Per loro, che non hanno più nulla da perdere, la violenza è l’unico modo per farsi sentire. Questo chiaramente non è il modo più umano, ma è l’unico che è stato lasciato loro.

Ecco dunque il successo di Hamas, che a suo tempo aveva vinto le elezioni parlamentari (dopo aver vinto quelle municipali) ma, sotto la pressione di George Bush e degli israeliani, i risultati furono dichiarati nulli. Tuttavia Hamas aveva chiaramente indicato all’epoca che non avrebbe ostacolato i negoziati con Israele, che restavano dominio esclusivo del presidente Mahmoud Abbas (88 anni).

Dopo il triste fallimento del colpo di stato a Gaza, fomentato dal capo dei servizi segreti palestinesi Mohammed Dahlan, con l’appoggio americano-israeliano, si instaurò una sorta di status quo: la Cisgiordania a Fatah, Gaza ad Hamas, perpetuando così il sogno israeliano di una separazione di questi due territori, dove Gaza è la Palestina, la Cisgiordania un’estensione di Israele, cogestita con un’amministrazione palestinese e forze armate supervisionate e finanziate dall’UE e dagli Stati Uniti.

Per quanto riguarda l’illusione di un’indipendenza in costruzione, essa era svanita con i governi israeliani sempre più all’estrema destra e che affermavano apertamente di non avere intenzione di negoziare la fine dell’occupazione. Anche i palestinesi più moderati persero ogni speranza su un ritiro israeliano. Credevano a ciò che vedevano: una colonizzazione accelerata e massiccia da un lato, e una comunità internazionale complice ed estremamente codarda che prende atto, con un grande sospiro stanco, del disordine globale che si va intensificando.

Intanto, scrive il Sole 24ore, nella Cisgiordania gli israeliani stanno attualmente arrestando più palestinesi di quanti ne stiano liberando in cambio degli ostaggi.

Tutto questo spiega il massiccio sostegno ad Hamas.

venerdì 1 dicembre 2023

Il clima è come la gente

 

La COP28 a Dubai. C‘è qualcosa di più paradossale? Il paese degli eccessi e di ogni tipo di aberrazione ecologica: isole artificiali, tunnel-acquario, stazione di sport invernali indoor e altra roba di questo parco di divertimenti per decadenti idioti.

Ex villaggio di pescatori, la città è diventata il simbolo del lusso più folle del pianeta. È il luogo dove si punta a qualcosa di sempre più pazzesco. Più in alto, con il Burj Khalifa, una torre alta 828 metri, 163 piani e 57 ascensori. Più consumistico, con il Dubai Mall, “il più grande centro commerciale del mondo”: i suoi 1,1 milioni di metri quadrati di superficie necessitano di aria condizionata h 24. In questo tempio dell’abbondanza e dello spreco, dove 1.200 negozi espongono i loro fronzoli per gli ultra-ricchi, è stato aperto un gigantesco tunnel-acquario che permette ai turisti di credere di essere immersi in compagnia di decine di migliaia di specie marine. La costruzione delle isole artificiali Palm Islands (a forma di palme) e The World (circa 263 isole la cui disposizione ricorda un planisfero) ha richiesto il rastrellamento di centinaia di milioni di tonnellate di sabbia (non solo quella locale, Dubai non avrebbe potuto essere costruita senza la sabbia australiana), devastato i fondali marini e rovinarono le barriere coralline sotto le colate di cemento delle fondamenta.

Un’altra aberrazione ecologica di questo straordinario centro commerciale: la famosa “stazione di sport invernali” indoor, con pista da sci, slittino o bob. In questo universo artificiale sopravvive, lontano dalla natia Antartide, un gruppo di pinguini con i quali i visitatori possono vivere “un’esperienza unica” a Penguin Cove. (Se cuoi vivere “un’esperienza unica” vai a Gaza o a Bhopal). Per mantenere operative le attrazioni, ogni giorno vengono prodotte tonnellate di neve fresca. E affinché la temperatura interna oscilli costantemente tra i necessari -1 e -2°C, non si lesina sui kilowattora. Energia per l’82,5% prodotta dagli impianti a gas del Paese.

Nei ventotto anni di esistenza delle COP, quella iniziata ieri a Dubai sarebbe, secondo molti osservatori, “cruciale”. Ma cruciale per chi? Il presidente di questa farsa climatica non è altro che Sultan Ahmed Al Jaber, amministratore delegato della compagnia petrolifera degli Emirati. Stanno sperimentando il cloud seeding per far cadere la pioggia. Per Dubai il clima è come la gente: se non ti va, lo “dissolvi”. Come Jamal Khashoggi. Fine della discussione.

mercoledì 29 novembre 2023

L'effetto cocktail

 

Per doveri familiari e sociali, domenica ero in gita con una benemerita associazione. Tra l’altro siamo stati a San Leo, piccolo borgo e celebre fortezza. Dopo la visita, di ritorno al pullman, un mio vicino di posto mi ha chiesto se avevo avuto l’ardire di arrampicarmi fin lassù sulla rocca e se l’avevo visitata. Gli risposi che non l’avevo visitata, fermandomi alla biglietteria dove avevo chiesto del signor Cagliostro. Mi era stato risposto, dissi, che Cagliostro non c’era, se ne era già andato. Una battutina del cavolo, d’accordo. Tuttavia, il buonuomo che mi aveva rivolto la domanda, con molta serietà mi ha chiesto: “Questo Cagliostro è il proprietario?”.

Non è grave ignorare chi fosse Cagliostro, ossia se fosse il proprietario o solo suo malgrado l’occasionale inquilino della rocca di San Leo. Più preoccupante è il fatto che tanta brava gente si faccia intortare dai tanti Cagliostro in circolazione con i loro consiglieri per la comunicazione.

“Tutto è veleno, nulla è senza veleno, solo la dose impedisce che sia veleno”, pare avesse detto Paracelso. Dovremmo tenerlo presente quando accediamo al televisore o al cellulare: è la dose che fa il veleno. L’intera società è vittima di un avvelenamento. Ciò che Paracelso non disse ma probabilmente sottintese è il fatto che l’effetto dei veleni, anche in piccole dosi di per sé quasi innocue, si somma.

Non solo l’effetto si somma, ma si combina. Nessuno tiene conto degli effetti combinati. Contrariamente a quanto suggerisce l’intuizione, accade spesso che piccole dosi di veleno, ben al di sotto degli standard ufficiali, possano avere combinate tra loro effetti più disastrosi di singole dosi molto maggiori. Per tacere dell’esistenza di effetti non lineari delle molecole chimiche. Vediamo bene quali effetti cocktail producono le pozioni, anche in dosi quasi omeopatiche, che ci propinano giorno dopo giorno i tanti Cagliostro della politica e della comunicazione. Ma ne siamo diventati più o meno tutti dipendenti. 

lunedì 27 novembre 2023

"La grande società" secondo Hayek

 

L’inserto domenicale de Il sole 24 ore pubblicava ieri un breve estratto da un libro (La presunzione fatale. Gli errori del socialismo) di uno dei più ascoltati ideologhi borghesi della seconda metà del XX secolo, Friederich Hayek (membro eminente della Società Mont- Pèlerin, così come esistono Hayek Society e altro ancora).

Darò qui di seguito solo un cenno della sua concezione storica, dalla quale il lettore potrà trarre un giudizio sul livello intellettuale e le ambizioni di simili personaggi e di quelli che gli vanno dietro (*).

Leggiamo: «Gli istinti innati dell’essere umano non sono fatti per una società come quella in cui vive oggi. Istinti erano adatti alla vita nei piccoli gruppi a cui si univa durante i millenni dell’evoluzione del genere umano. Se l’essere umano avesse continuato a lasciarsi guidare totalmente da quegli istinti, non sarebbe mai stato in grado di sostenere i numeri ora raggiunti dalla sua specie».

Possiamo già subito osservare che gli “istinti innati” dell’essere umano non sono dissimili da quelli degli altri primati. È ovvio che per distinguersi la nostra specie deve aver compiuto una trasformazione radicale nel proprio comportamento, innanzitutto intervenendo attivamente sulla natura esterna per controllarla e in qualche misura sottometterla alla soddisfazione coscientemente preordinata dei propri bisogni. L’antenato dell’uomo cominciò a modificare e a dirigere la sua stessa natura, cominciò a prodursi socialmente come uomo.

Pertanto, ciò che afferma Hayek è alquanto banale, ma ciò non deve sorprendere da parte di un sociobiologo. Così come quando afferma che «Ciò è avvenuto perché i nuovi modi di agire si sono diffusi attraverso un processo di trasmissione di abitudini acquisite, un processo analogo all’evoluzione biologica ma diverso da quest’ultima sotto aspetti importanti».

Ciò che Hayek chiama puerilmente “abitudini acquisite”, è in effetti il fatto che gli esseri umani entrano tra loro in rapporti sociali per il tramite di strumenti; non solo strumenti materiali, ma anche strumenti segnici, come il linguaggio, ossia lavorano per produrre informazione extragenetica e cioè strumenti di conoscenza indispensabili per finalizzare la propria attività trasformatrice del mondo circostante. Lavoro per trasmettere, comunicare, sensazioni, conoscenze, comandi. Lavoro per sottomettere controllare il proprio come l’altrui comportamento.

Ma quale “processo analogo all’evoluzione biologica”? Roba tipo la biologia della cultura? La concezione degli esseri umani di Hayek, per quanto in linea di principio possa sembrare che lo neghi, è improntata a un naturalismo radicale di tipo deterministico ed evoluzionistico, sulla scorta di Herbert Spencer. Così come la sua concezione del socialismo è tratta della pianificazione di tipo sovietico: dallo Sputnik alla carta igienica.

Non deve sorprendere che Hayek riveli la mancanza di una concezione dialettica del rapporto tra biologico e sociale. Non considera che sistema biologico e rapporti sociali costituiscono un’unità di opposti il cui polo dominante è rappresentato dai quei stramaledetti rapporti sociali nei quali siamo invischiati fino al collo dalla culla alla bara, e di cui proprio Hayek e i suoi sodali sono interessati a mantenere inalterati.

Formazione sociale e individuo concreto sono termini che non si oppongono non essendo tra loro in rapporto di prima/dopo, dentro/fuori, sopra/sotto. Tra l’uno e l’altro non c’è alcuna differenza di contenuto, poiché il concreto divenire dalla materia sociale li implica vicendevolmente.

Dice Hayek: «L’individualismo primitivo descritto da Thomas Hobbes è un mito. Il selvaggio non è “solo” e il suo istinto è collettivistico». Bene, ma andava detto diversamente: l’essere umano non è un’astrazione immanente all’individuo singolo, ma è la concreta materia sociale nelle sue forme di esistenza storicamente determinate. L’individuo concreto, infatti, in quanto parte di una data formazione sociale storicamente determinata è sempre con essa in un rapporto di isomorfismo e dunque riproduce nella sua attività, sia pure in forme particolari, l’insieme dei rapporti sociali.

Andava detto diversamente poiché altrimenti si scade nell’ideologia, come quando Hayek sostiene che «Il collettivismo moderno è un ritorno a questo stato del selvaggio, un tentativo di ristabilire quei forti legami all’interno del gruppo ristretto che hanno impedito la formazione di unioni più ampie ma meno costrittive».

Quali unioni più ampie, quale collettivismo moderno e più costrittivo del lavoro degli operai nella fabbrica capitalistica? Tanto per dire. Di queste coglionate di Hayek e altri simili a lui si nutre l’ideologia borghese. Lo scopo di questi apologeti è sempre quello: considerano il capitalismo come inevitabile e giudicano le persone in base alla produttività e all’efficienza.

Del resto è molto chiaro: «Dobbiamo imparare a vivere in due società alle quali persino dare lo stesso nome è fuorviante. La società estesa non può emergere se trattiamo tutte le persone come nei nostri prossimi; tutti trarranno beneficio se non lo facciamo e se invece delle regole di solidarietà e altruismo nei nostri rapporti con gli altri adottiamo le regole della proprietà privata, dell’onestà e della veridicità».

Nel 1984 sostenne il ritorno a “un mondo in cui non solo la ragione, ma la ragione e la moralità, come partner alla pari, devono governare le nostre vite; dove la verità della morale è semplicemente una specifica tradizione morale, quella dell’Occidente cristiano, che ha dato origine alla morale della civiltà moderna.»

Tutto sommato non abbiamo a che fare con una versione ideologica fondamentalmente nuova. Ma basta con ‘sta roba qua.

(*) Hayek è un’icona su entrambi i lati della divisione neoliberista/populista: rifiuto dell’egualitarismo, privatizzare tutto, riprogettare lo Stato per limitare la democrazia senza eliminarla, combinare l’idea neoliberista del capitale umano con l’identità nazionale, ovviamente tagliare le tasse, ecc.. Non deve sorprendere che secondo i suoi epigoni (piace anche in Cina) il comportamento umano possa essere compreso secondo le stesse logiche evolutive in atto negli animali.


In nome dei profeti

 

Stiamo vivendo la storia del mondo, quella della distruzione e dello spargimento di sangue ovunque, e allo stesso tempo ne siamo così lontani: infelici, ma preservati, semplicemente relegati nel tiepido inferno dei commenti e del cattivo umore.

C’è chi vede nella tragica vicenda del rapimento di una bimba di pochi mesi il male assoluto, chiama i rapitori terroristi (se non è terrore quello ditemi che cos’è), e però non vede e non spende una parola che sia una per i bambini assassinati sotto le bombe di chi sta spianando una città circondata (se non è terrore quello ditemi che cos’è). In nome dei rispettivi profeti, ovviamente.

Tutto sulla terra ha cominciato a marcire: gli esseri umani sono il bestiame sacrificale di un mondo che si avvia verso il massacro globale.

La lettura da fare di questo dramma è chiarissima: sono loro contro di noi. Il modo in cui raccontiamo queste storie è determinato dal modo in cui le riceviamo, sono usate per mettere le persone l’una contro l’altra? Certamente, ma non solo. Vogliamo essere e siamo lo zoccolo duro di chi sta dalla parte della nostra bandiera, lusingati di fare gli stronzi sulle disgrazie altrui.

È così che ci siamo ritrovati al centro di un nuovo divario profondo e incolmabile. Però non facciamoci troppo ingannare, ciò non accade solo perché “l’uomo” è cattivo di suo. Pensiamo solo a cos’è accaduto nella tranquilla e soporifera Dublino. Che cosa accade in Francia e che cosa potrà accadere in Olanda e in Germania se la crisi, non solo economica, prenderà una certa piega (non più in Italia, dove tutto scorre nel migliore dei modi)?

Non sono mondi che si scontrano, è lo stesso mondo che collassa di nuovo su sé stesso. Sono questi i prodotti del colonialismo, degli effetti della globalizzazione, di un sistema che più contraddittorio e demenziale non potrebbe essere. Cazzo, la storia del Novecento ci dirà pur qualcosa o tutto è dipeso dalla malvagità di uomini che, pistola alla tempia degli elettori, sono riusciti a strappare decine di milioni di voti?

giovedì 23 novembre 2023

Non solo Gaza

 

La tregua che dovrebbe partire da oggi servirà allo Stato terrorista d’Israele a ricaricare le armi, a far giungere nuove forniture belliche dai suoi complici. Quanto alla Cisgiordania, che per gli arabi è Palestina, per i coloni ebrei è la Giudea e la Samaria.

Quasi 500.000 coloni vivono tra 2,8 milioni di palestinesi e continuano a guadagnare terreno secondo una strategia ben consolidata. I più radicali tra loro, conosciuti come i “giovani delle colline”, si stabiliscono negli “avamposti”, spesso sulle alture della Zona A (secondo il piano di spartizione della Cisgiordania, l’Area A è sotto l’amministrazione dell’Autorità Palestinese).

Piantano tende, costruiscono prefabbricati e vengono regolarmente sfrattati dall’esercito. Niente che li scoraggi, continuano a ritornarci finché non hanno partita vinta: la legge israeliana legalizza retroattivamente i loro insediamenti. Queste costruzioni sono accompagnate da demolizioni e sequestri di proprietà palestinesi. Nel 2021, il relatore speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati ha indicato che gli insediamenti costituivano un crimine di guerra. Senza che la sua denuncia abbia cambiato nulla. Del resto, decine di risoluzioni dell’ONU, ignorate da Israele, non hanno prodotto alcuna sanzione economica o politica da parte dell’Occidente.

Quest’anno, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU rilevava che tra il 15 giugno e il 19 settembre, ad esempio, le autorità israeliane hanno portato avanti il piano di costruzione di 6.300 unità nell’Area C. In prima linea in questo movimento di occupazione (“ripopolamento”, secondo i coloni) ci sono i sostenitori del sionismo religioso, guidati da una visione messianica di questa conquista territoriale. Considerano la vittoria israeliana nella Guerra dei Sei Giorni nel 1967 un miracolo dell’intervento divino. Che interpretano come una sorta di via libera per fondare il “Grande Israele”, tra il Nilo e l’Eufrate.

Il giorno dopo il 7 ottobre, il ministro di estrema destra per la Sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir (anche lui residente nella Zona A, ossia a Kiryat Arba) ha allentato le condizioni per l’ottenimento di armi e ha promesso la consegna di 10.000 armi, tra cui 4.000 fucili d’assalto, ai coloni della zona. Cisgiordania. Due settimane dopo, il consiglio regionale di Samaria ha distribuito 300 fucili d’assalto, in coordinamento con l’esercito. La settimana successiva all’attacco di Hamas è stata la più micidiale per i palestinesi in Cisgiordania. Secondo l’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR), 75 palestinesi sono stati uccisi dai coloni o dall’esercito.

Si sentono sicuri del loro diritto di occupare la regione. Dicono che quella è la loro terra da quattromila anni, anche se fino a pochi anni fa abitavano, per esempio, negli Stati Uniti. Lì c’è la tomba dei Patriarchi, di cui sentono l’aura. Nonostante siano minacciati dai barbari, dagli animali (così chiamano i palestinesi), è la loro terra e niente li fermerà.

Vivono esattamente nel centro della città palestinese di Hebron, famosa per ospitare la tomba dei Patriarchi, definita la Moschea di Abramo per i musulmani. L’edificio è diviso tra moschea e sinagoga dal 1994, anno in cui Baruch Goldstein, fervente apostolo di Meir Kahane, autore di una dottrina favorevole alla conquista della Terra Promessa, aprì il fuoco su 29 musulmani in preghiera.

Tre anni dopo, la firma del Protocollo di Hebron conferì alla città uno status speciale. Da un lato (Hebron 1), la capitale economica palestinese con 200.000 abitanti; dall’altra Hebron 2, il centro storico, dove vivono ora 800 coloni protetti da 2.000 soldati. A Hebron 2 per decenni il paesaggio urbano è stato devastato da posti di blocco e filo spinato. In tale situazione, 1.700 negozi hanno chiuso i battenti e molte case palestinesi sono state abbandonate dai proprietari. Ora, la principale via dello shopping della città vecchia, è vietata ai palestinesi.

Il venir meno della famiglia

 

In questi giorni, in una ventina di comuni dell’alto Veneto, a turno, si terranno delle fiaccolate contro la violenza sulle donne. A che cosa servono? A poco, forse a niente, a gratificare e rassicurare le donne che vi partecipano. Sia chiaro, so benissimo che vi sono associazioni femminili di ascolto e aiuto molto valide, ma questo è un altro discorso.

Quello che ho tentato di dire in un post recente sul cosiddetto patriarcato, è che la posizione e condizione della donna nella società dipende anzitutto dal fatto che la prima divisione del lavoro, dunque dei ruoli, riguarda proprio i sessi. In origine, la divisione del lavoro è del tutto naturale, essa sussiste solo tra i due sessi (la prima forma di servitù). A ciò si sommano i retaggi storico-culturali (il riconoscimento politico e giuridico della predominanza del maschio), dunque il prendere forma di una determinata psicologia nei due sessi così separati (subordinato quello della donna: essa riconoscerà l’ordinamento sociale esistente come il solo possibile). Procedere solo sui temi dell’atteggiamento psicologico e della mentalità del maschio, come in gran parte si sta facendo, porta su una strada senza sbocco.

Dopo che hai partecipato alla fiaccolata, dopo che ti sei recata al seggio (per rifarmi al film di Cortellesi), torni a casa e trovi che la tua condizione di donna (e di madre, direbbe qualcuna) non è cambiata di un millimetro. Infatti, se la condizione della donna negli ultimi sessant’anni è cambiata, modificata in meglio, ciò è dovuto principalmente se non univocamente al fatto che è cambiata la condizione economica generale e, in essa, quella della donna (anche dal punto di vista giuridico), la quale partecipa su vasta scala sociale alla produzione, e il lavoro domestico e l’allevamento dei figli non la impegna più come un tempo.

Paradossalmente l’emancipazione della donna, il venir meno dell’autocrazia del maschio nella casa, è dovuta più all’introduzione di determinati elettrodomestici e all’ingresso su vasta scala della donna nel mondo del lavoro extradomestico che a tutto il dibattito nel movimento femminista. Finalmente la donna disponeva per sé di più tempo libero e della merce delle merci che contiene in sé occultamente tutte le altre, il denaro. Dunque ciò dovrebbe spingere all’indagine della base economica di un tale stato di cose. Anche se ciò non basta a spiegare del tutto l’antagonismo tra uomo e donna.

La sottomissione e la violenza subita dalle donne, laddove i singoli episodi di cronaca sembrano abbandonati al puro caso, risponde, nell’insieme della sua condizione, alla cieca necessità di un sistema economico-sociale che ha posto per millenni la donna al centro della prima grande scissione della società. Oggi, col profondo cambiamento dell’ordine sociale al quale stiamo assistendo nella nuova fase capitalistica, la violenza subita dalle donne non è solo la reazione del maschio che vede sfuggirgli la “preda” (come dice, in altri termini, Pierluigi Bersani), ma è dovuta anche alla disgregazione e conseguente disorientamento (nel maschio, nei figli, in tutti) provocati dal venir meno della famiglia singola come unità finora fondamentale della società.

mercoledì 22 novembre 2023

I padrini della guerra

 

Il giovane Anwar el-Sadat non aveva remore a complottare per conto dell’Afrikakorps, perché sperava che i nazisti aiutassero gli egiziani a liberarsi dagli inglesi. Divenuto presidente dell’Egitto nel 1970, lanciò il suo esercito contro Israele nel 1973 durante la guerra dello Yom Kippur. Nonostante questo, nel 1977 si recò a Gerusalemme per incontrare il primo ministro israeliano Menachem Begin, poi firmò con lui, un anno dopo, gli accordi di Camp David, con i quali l’Egitto riconquistò il Sinai perduto nel 1967, facendo così la pace con Israele. Nel 1981 fu assassinato dagli islamisti della Jihad islamica che non gli perdonarono questo riavvicinamento allo Stato ebraico.

Yitzhak Rabin, da giovane fece parte della sezione militare dell’organizzazione terroristica Haganah, poi combatté nel 1948 durante la prima guerra arabo-israeliana, fu capo di stato maggiore nel 1967, durante la Guerra dei Sei Giorni. Primo ministro di Israele dal 1974 al 1977, poi di nuovo nel 1992, firmò gli accordi di Oslo con Yasser Arafat nel 1993, fu assassinato due anni dopo da un estremista religioso, Ygal Amir, contrario al processo di pace avviato con i palestinesi (*).

Figure emblematiche del conflitto israelo-palestinese, questi due statisti sono stati assassinati da estremisti religiosi. Apparentemente, perché la religione è una cortina ideologica dietro cui si nascondono interessi politici.

Esaminando gli itinerari di questi due personaggi politici, viene spontaneo considerare che uno statista è una personalità politica che sa vedere oltre il suo percorso personale, con l’unico obiettivo di servire gli interessi del suo Paese, anche se ciò significa prendere decisioni difficili.

Oggi non c’è una figura con la statura di uno statista, capace di prendere decisioni coraggiose, di imporle al proprio campo, per porre fine a questo sanguinoso conflitto. Netanyahu è un politico miserabile, intrigante e bugiardo, che non ha esitato a tentare di manomettere la Costituzione del suo paese per sfuggire alla prigione. Mahmoud Abbas è a capo dell’Autorità Palestinese solo di nome, screditato dalla corruzione e dal compromesso.

Non c’è l’ombra di uno statista all’orizzonte, per due popoli che tuttavia pretendono di essere uno Stato o di averne uno. Ecco dunque spazio per coloni ebrei suprematisti nei territori occupati, armati e completamente fuori controllo; quindi milizie islamiste come Hamas, il cui obiettivo è il conflitto permanente con Israele. Quale autorità è in grado di ordinare alle parti di fermare le proprie azioni violente?

Questo conflitto è da tempo tenuto in ostaggio da estremisti che nessuno sembra in grado di mettere fuori gioco. Sono loro a dettare legge in questo conflitto e ad imporre i loro tempi a tutti gli altri attori. Se hai l’audacia di uccidere un presidente egiziano o un primo ministro israeliano, allora puoi uccidere chiunque.

È un conflitto che somiglia sempre meno a una guerra tra uno Stato e un’Autorità, ma sempre più a una guerriglia tra fazioni, tra milizie, guidate da signori della guerra che non obbediscono, almeno apparentemente, più a nessuno. Finché le milizie razziste dei coloni o i gruppi terroristici islamici come Hamas non saranno stati neutralizzati dai loro stessi padrini, non ha senso parlare di “pace” o di qualunque “cessazione”.

E di quali padrini stiamo parlando? I padrini degli interessi americani, europei, turchi, russi, iraniani e insomma quelle forze politiche ed economiche che sobillano e armano un mondo che si sta di nuovo sfasciando alla grande. Nel parterre c’è il tifo di un’arena che tutto sommato si diverte quanto più scorre il sangue.

(*) Leggo su Wikipedia che Amir divenne amico di Avishai Raviv, un dichiarato attivista radicale anti-Rabin, in realtà un agente infiltrato dello Shin Bet, il servizio di spionaggio e controspionaggio di Israele, a cui Amir rivelò la sua intenzione di uccidere Rabin.

Patriarcato: un altro punto di vista

 

Che cos’è il patriarcato di cui si parla tanto in questi giorni? Per avere una definizione basta consultare Wikipedia e accontentarsi.

Che i fatti clamorosi e il contesto sociale e politico in cui ci troviamo legittimino il riutilizzo di questo termine un po’ desueto e lo renda urgente non ci dice nulla, né della sua rilevanza per analizzare e trasformare la situazione attuale, né del modo di intenderlo, fermo restando che sul suo significato non c’è mai stato accordo unanime.

Giusto indagare che cosa fa il patriarcato alla psiche delle persone: che tipo di sentimenti, di relazioni con sé stessi e con gli altri produce, quindi cercare di localizzare nella psiche le cause della persistenza o della resistenza del patriarcato in un contesto sociale e politico dove il riferimento all’uguaglianza, almeno apparentemente, sembrava essersi imposto.

L’ordine patriarcale impone agli individui di assumere identità – maschile e femminile – che rendono impossibile stabilire relazioni “autentiche” con l’altro, cioè relazioni realmente paritarie, inibendo di fatto il bisogno vitale che hanno gli esseri umani di stabilire relazioni autentiche.

Questo è l’approccio che cerca la chiave della persistenza del patriarcato nei meccanismi mentali, nei cambiamenti emotivi e psicologici che colpiscono i ragazzi e le ragazze quando entrano nell’età adulta e vengono “iniziati” alle gerarchie esistenti e inevitabilmente a quella situazione che correntemente viene definita come patriarcato. Quindi i lunghi discorsi sulle fasi emotive: protesta, disperazione, poi distacco o attaccamento ansioso, che rimandano a forme di attaccamento patologico. Ma c’è dell’altro.

Il patriarcato non può essere ridotto a una forza che aleggia al di sopra dell’organizzazione sociale, insinuandosi magicamente nelle nostre menti e nei nostri corpi. Gli agenti sociali non sono semplici ingranaggi determinati esternamente da forze al di fuori del loro controllo. Il discorso psicologico può svilupparsi solo in dialogo con altri discorsi, in particolare quelli relativi alle forme di organizzazione sociale, dell’economia, della politica, della sociologia e della storia.

Pertanto la domanda da porsi è: quali sono i fondamenti socioeconomici dell’oppressione delle donne, su quale base materiale poggiano tali meccanismi psichici e ideologici? Le donne continuano a svolgere la maggior parte del lavoro di cura da cui dipende la riproduzione della società e dei suoi membri; svolgono la maggioranza dei lavori a tempo parziale; continuano a guadagnare meno degli uomini a parità di posizione e competenze, eccetera.

La violenza fisica, le minacce, il sessismo non sono semplicemente dei fattori psicologici. Tantomeno lo sono la dipendenza economica, la segmentazione del mercato del lavoro, la svalutazione delle professioni, eccetera. Una formazione sociale in cui gli uomini continuano a detenere il potere, in cui il maschile è sistematicamente avvantaggiato a scapito del femminile. Dunque i privilegi, non solo meramente materiali, che il dominio fornisce al dominante e il desiderio di quest’ultimo di mantenere questi privilegi.

Questa realtà materiale non è opposta alla sua realtà psichica. Al contrario, è cercando di descriverlo e analizzarlo, di interrogarsi sulle sue interazioni con l’organizzazione sociale, che potremo rendere conto degli effetti psicologici che il patriarcato ha su ognuno di noi.

Tenuto conto anche del fatto che questi effetti differiscono, non solo tra uomini e donne, ma anche tra uomini, tra donne e per chi non si riconosce in queste categorie.