martedì 30 ottobre 2012

Savonarola non basta



Il Movimento di Grillo ha vinto le elezioni in Sicilia, anche se non ha vinto il suo candidato presidente. Chi afferma il contrario è un asino. Però l’astensionismo ha stravinto. E questo sarebbe un buon segno se il dato fosse confermato alle prossime politiche, ma temo non sarà così. Di fatto, poi, i partiti di prima governeranno la Sicilia con qualche faccia nuova a mimare il cambiamento. Ma non sono loro a comandare. Non era difficile vaticinare quanto ho scritto nel post di ieri mattina. Comunque uno scossone a questo sistema in putrefazione se non altro serve ad aprire un po’ gli occhi alla gente, anche se alla fine gireranno la testa da un’altra parte. Tutti teniamo famiglia.

Intanto, con buona pace dei partiti (e degli antipartito), i vecchi Stati nazionali europei stanno scomparendo. La loro crisi, irreversibile, è determinata in primo luogo dalla nuova fase dell’imperialismo, cioè dalla necessità della borghesia europea di darsi una struttura corrispondente alle necessità della competizione globale. Dal punto di vista riformista, ossia per chi si accontenta, la cosa non potrà che avere – anche in tal caso – qualche effetto positivo dalle nostre parti. Tuttavia il peso della nostra burocrazia politica e amministrativa resta soverchiante e ogni tentativo di riformare questo paese si rivela vano. Ciò che comanda veramente in Italia non è solo la grana e il sesso come dappertutto. Insomma, una botta di Savonarola da noi non basta.



Da domani sarò per qualche giorno a Roma. Non mancherò, come solito, di passare davanti al Colosseo. Aveva 129mila posti! Lì sì che gli spettatori si divertivano per davvero. E il sangue non fingeva.

lunedì 29 ottobre 2012

Garibaldo farà il miracolo?



Mentre ci si balocca nel giogo elettorale inseguendo una politica sempre uguale e in ritardo rispetto ai mutamenti decisivi, sta prendendo corpo l’Europa del prossimo decennio, a guida tedesca, che guarda per i propri affari a Est, isolando le propaggini più meridionali del continente, sempre instabili e tese al secolare levantinismo.

Per qualche giorno, in quella parte d’Italia – la Sicilia – tanto importante per certe statistiche quanto avara per altre, ci si occuperà di percentuali e di seggi, di alleanze politiche e nuovi incarichi. La nostra regione più estesa e tra le più popolate, ricca di natura e onusta di storia, che potrebbe essere la nostra California, è invece stretta da mille problemi che non di rado pensa siano gli altri a doverglieli risolvere, scarsa com’è in generale d’iniziativa e viziata da una rassegnazione atavica.

Glielo ha gridato forte Grillo ai siciliani: dovete cambiare. Facile dirlo abitando a Genova o a Trieste. Prevale la sfiducia e tuttavia ci proveranno, per delega e sperando nel miracolo, in un Messia. Spiace dirlo, soprattutto per quei giovani che ci credono, ma cambierà poco – a parte i fuochi d’artificio dei primi giorni in onore del nuovo santo – così poco che tutto sarà come prima e come sempre.

sabato 27 ottobre 2012

Non c’è spazio per l’uguaglianza nel capitalismo



Ci raccontano che esistono due tipi di povertà, quella relativa e quella assoluta. Della povertà relativa abbiamo testimonianze tutti i giorni, per esempio nei milioni di persone che sopravvivono con salari e pensioni di 7-800 euro al mese e con l’affitto da pagare. Oppure in quei 23 milioni di disoccupati di cui può far vanto “la più grande democrazia del mondo”, ovvero i 44 milioni di statunitensi che sbarcano il lunario grazie ai buoni pasto pubblici.

La povertà assoluta, invece riguarda almeno 900 milioni di individui che arrancano quasi tutti nella fascia dei Tropici, dove vivono i 2/3 della popolazione mondiale. Non hanno da mangiare, non hanno acqua potabile, istruzione, servizi sanitari, ecc.. In India, per esempio, il 75% della popolazione vive di agricoltura ed è in ansia per i suoi raccolti se le piogge monsoniche ritardano di qualche giorno. Poi quando queste arrivano troppo violente provocano alluvioni, disastri, morti e centinaia di miglia di senzatetto. Sono gli effetti dei cambiamenti climatici.

Complessivamente i poveri sono 3,5 miliardi, ossia la metà della popolazione mondiale. Più complicata diventa la loro collocazione nelle categorie di poveri assoluti oppure di poveri relativi. Per esempio, i minatori del Sudafrica, che trascorrono gran parte della loro esistenza in fondo alle miniere, li collochiamo tra i poveri assoluti o relativi? Posso immaginare che alla maggioranza degli italiani tale quesito freghi un cazzo, soprattutto da quando hanno saputo che il 16 dicembre ci saranno le primarie anche del Pdl. Ma non è a questi pezzi di merda che mi rivolgo.

I minatori in Sud Africa sono 380mila, ma i tremila di Marikana sono tra quelli speciali, in gran parte rock drillers, ossia coloro che svolgono il lavoro più pesante, gravoso e pericoloso perché stanno proprio in fondo al buco della miniera. Sono in gran parte immigrati, cioè la feccia della feccia, i negri più negri, vivono in gran parte in bidonville vicino alle miniere, non hanno istruzione e parlano il dialetto minerario famakalo. Le loro condizioni non sono molto diverse da quelle dei minatori di cinquant’anni fa.

Il Sud Africa non è il più grande produttore di oro, come un tempo. È invece il maggiore produttore di platino e palladio, con oltre il 60% della produzione mondiale e otto decimi delle riserve nel suo sottosuolo. Quando saliamo in automobile, dobbiamo sapere che la marmitta catalitica è prodotta con questi tipi di minerali. La crisi dell’auto è diventata anche la crisi degli schiavi delle miniere (il sindacato ufficiale siede nei consigli di amministrazione delle tre più grandi società del settore), ecco il perché degli scioperi.

In attesa di conoscere il vostro parere, ossia se collocare questi minatori nella categoria dei poveri relativi oppure in quella dei poveri assoluti, non posso esimermi dall’osservare che il classismo è della stessa pasta del razzismo. Di questi tempi il classismo si maschera meglio del razzismo, ma nei suoi effetti non è molto diverso, anche perché dà a bere ai gonzi che con la fine dell’apartheid le cose in Sudafrica siano cambiate davvero. Col cazzo, perché comandano sempre loro e gli schiavi sono sempre gli stessi. Comanda la borghesia bianca e la borsa di Londra, appoggiate da un’élite di rottinculo di colore che hanno tradito le ragioni della lotta degli sfruttati. Non c’è spazio per l’uguaglianza nel capitalismo.

giovedì 25 ottobre 2012

Astemi?


Sembra la guerra dei Roses. Una denuncia, presentata del 2010 contro la segretaria di Bersani, rispunta alla vigilia delle primarie. Che bella giostra, mi sa che Grillo ad aprile rischia di doversi mettere il vestito buono, la cravatta e improvvisare qualche battuta in napoletano. E invece nessuno dei candidati sarà premier. Al governo c’è chi continua a stappare bottiglie. Ma non avevano detto di essere astemi?

lunedì 22 ottobre 2012

Propensioni psicologiche, cioè di classe



Dopo che l’utopia neoclassica dell’”equilibrio perfetto” si dimostrò per quel che era, iniziarono a farsi strada, presso gli apologeti del capitalismo J.A. Schumpeter e W.C. Mitchell, i primi abbozzi di una “teoria dei cicli” che non era altro che una presa d’atto della natura ciclica del capitalismo. La crisi generale del 1929, infine, con la sua sconvolgente drammaticità, rendeva indilazionabile mettere i piedi per terra, ossia abbandonare l’utopia ed escogitare nuove giustificazioni.

Ad assumersi il compito teorico di tranquillizzare la borghesia e offrire nuovo alimento all’idiozia degli economisti e al relativo parterre, provvide Y.M. Keynes, uno del pensatoio di Cambridge, con la sua Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, pubblicata nel 1935. Tale teoria rappresenterà, per parecchi decenni, una specie di catechismo negli atenei occidentali e una nuova religione per i saltafossi del riformismo che con essa potranno beatificare l’intramontabilità del capitalismo.

La Teoria generale inizia con una serrata critica alla “teoria neo-classica”:

“Dimostrerò che i postulati della teoria neo-classica si possono applicare soltanto ad un caso particolare e non in senso generale, la situazione da essa supposta essendo un caso limite delle posizioni di equilibrio possibili. Avviene inoltre che le caratteristiche del caso particolare, supposto dalla teoria neo-classica, non sono quelle della società economica nella quale effettivamente viviamo; e che quindi i suoi insegnamenti sono ingannevoli e disastrosi, se si cerca di applicarli ai fatti dell’esperienza”.

In altri termini, Keynes sostiene che la teoria neo-classica, della quale egli in passato era stato uno degli più eminenti esponenti, è un’invenzione, una fola che non ha nulla a che vedere con il mondo reale. Keynes nel suo “modello” della Teoria generale prende atto che il sistema capitalistico, lasciato alla sua spontaneità, non tende all’equilibrio, ma allo squilibrio dei vari fattori a causa della divaricazione tra domanda e offerta. Invece di indagare a fondo le cause di tale “disarmonia”, peraltro scoperte da Marx, s’inventa a sua volta una bizzarra “legge psicologica” che chiama della “diminuzione della propensione al consumo”.

Che Keynes sia un ciarlatano al pari degli altri suoi colleghi, compresi quelli venuti dopo, è evidente. Egli sostiene che per ricondurre il sistema all’equilibrio di piena occupazione, è necessario produrre una domanda aggiuntiva, “aggregata”, tramite l’intervento dello Stato, che si esplica essenzialmente mediante la definizione del saggio d’interesse, la politica fiscale, forme di controllo sulla massa complessiva degli investimenti per determinarne il volume complessivo (aggiungo, a chiarimento, che le politiche di sostegno della domanda da parte dello Stato sono vecchie come il cucco. Del resto il New Deal cominciò ben prima della pubblicazione della Teoria generale, opera di cui non si tenne conto in Germania, ecc).

Appare chiaro come Keynes, nonostante la sua critica ai neo-classici, rimane sostanzialmente tutto interno al loro quadro di pensiero. Anche per lui, infatti, alla base dei movimenti economici stanno non ben definiti “elementi psicologici”, che, mentre dai neo-classici vengono utilizzati per risolvere il “misterioso” problema della determinazione dei prezzi, in lui giustificano la tendenza, ugualmente “misteriosa”, del sistema allo squilibrio.

Keynes, cioè, prende atto di una contraddizione reale, ma impossibilitato (data la sua posizione di classe) ad individuarne le cause vere, non può far altro che rifugiarsi, come i suoi predecessori, nella “psicologia”. Così facendo, infatti, la contraddizione perde il carattere capitalistico per assumerne uno “umano”: non è il modo di produzione capitalistico che contiene in sé le cause dello squilibrio, ma la psiche umana; non è quindi il modo di produzione che va cambiato, ma la testa degli uomini!

Pertanto, anche quando si assume e riassume il punto di vista di Keynes per criticarlo [*], sostenendo che lo “stimolo artificiale della domanda” produce guasti al sistema provocando infine un enorme debito, cosa alla quale avrebbero contribuito “in ugual modo la propaganda pubblicitaria e la filosofia dei maîtres à penser della sinistra sessantottina”, si rimane esterni e lontani dalle cause reali della crisi capitalistica, con il rischio concreto di prendere lucciole per lanterne. Ancora una volta la contraddizione perde il carattere capitalistico per assumerne uno “umano”, in questo caso quello dell’avidità, “l’incontinenza di Bassanio e di Antonio, la loro incapacità di adattare le loro aspirazioni alle loro risorse”.

Oggetto e terreno della contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico, dalla quale sono generate a cascate le altre e quindi la crisi, non ha nulla a che fare con la circolazione, il consumo, il debito, eccetera. Per farsene persuasi, è sufficiente prendere contatto diretto con Marx, senza mediazioni, altrimenti sarà destino perdersi in ciacole dai tratti reazionari.