domenica 31 marzo 2019

Aveva ragione Parri o Croce?



-->
Sul Corriere della Sera ho letto un articolo del professor Luciano Canfora dal titolo “La democrazia è morta”. In chiusa, Canfora si chiede “come possano definirsi democrazie Paesi – i nostri – nei quali è ormai accettato il ritorno della schiavitù in varie forme”.

Il professor Canfora coglie uno dei tratti essenziali del malessere sociale del nostro tempo, ossia il ripristino nei rapporti tra capitale e lavoro di quelle forme di sfruttamento che nel recente passato, nell’ambito dei paesi capitalistici più sviluppati, erano diventate esempi limite della condizione della forza-lavoro.

Ciò dimostra, dopo gli esempi della prima metà del Novecento, che la democrazia non regge a lungo la prova della crisi, e trova dunque conferma, anche sul piano pratico, il fallimento del riformismo declinato come strategia di lungo periodo, a fronte dell’ineludibile imporsi della contraddizione fondamentale che sta alla base del modo di produzione capitalistico, ora nella sua versione di crisi storica.

Insistere da un lato sugli effetti della globalizzazione e dall’altro sui motivi della contesa tra imperialismi, cioè sugli aspetti della dinamica storica di superficie, trascurando però la contraddizione di cui sopra, è un tratto classico della critica borghese quando non è impegnata in esercizi spirituali sulla crisi della “sinistra”. Dopo essersi ripetuta con gioia e remunerazione per decenni su ogni cosa e il suo contrario, la critica criticante si trova sempre al punto di partenza, e cioè a interrogarsi se, sull’identità della democrazia, avesse ragione Parri o Croce, Bobbio o Vattelappesca, e ancora se quella tal cosa corrisponda a consapevole neofascismo o inconscio cliché.

mercoledì 27 marzo 2019

Il pregiudizio di classe e di pelle


Stante il clamore suscitato, oggi ho ascoltato la registrazione della trasmissione di ieri sera condotta dalla dottoressa Gruber e alla quale ha partecipato l’onorevole Giorgia Meloni. Mi ha colpito in particolare un dato fornito al pubblico televisivo dalla parlamentare, la quale ha sostenuto che la maggioranza dei reati di stupro è addebitabile agli immigrati, in rapporto al loro numero presente in Italia. Non so se i giornalisti presenti non hanno saputo o non hanno voluto replicare sul punto e hanno invece preferito tergiversare. In ogni caso il dato fornito da Giorgia Meloni ha avuto facile presa sul pubblico medio, poiché la mancata replica da parte dei giornalisti presenti è senz’altro stata percepita come mancanza di argomenti e in buona sostanza come avallo del dato riportato dalla Meloni.

Il dato riportato non rileva due aspetti essenziali perché possa essere inquadrato nella sua giusta dimensione statistica. Non tiene conto, anzitutto, degli indicatori demografici reali, ossia che la composizione demografica della popolazione immigrata è molto diversa, per quanto attiene alle classi di età, da quella della popolazione italiana complessiva (vedi tabella qui sotto). Vale a dire, a titolo d’esempio, che la popolazione straniera residente in Italia di età superiore ai 70 anni è inferiore all’1%, e nella loro stessa popolazione le persone dai 50 ai 69 anni sono al 4% massimo. Considerando che i reati di stupro sono commessi in maggioranza da parte delle classi d'età più giovani, è conseguenza che il dato statistico sugli stupri commessi dagli immigrati salga in rapporto alla medesima popolazione immigrata. 

martedì 26 marzo 2019

Letture


Oggi il corriere mi ha consegnato un plico con tre libri. I libri bisogna saperli scegliere, e per farlo bene ci vuole competenza, come in tutte le cose, ma anche fiuto e un po’ di fortuna. Tutti e tre i libri riguardano l’epopea napoleonica, poiché in questo periodo sto insistendo su alcuni snodi chiave della storia europea (in un presente nel quale i governi non riescono a mettersi d’accordo nemmeno sull’ora legale!). La rivoluzione francese, il bonapartismo e la cosiddetta restaurazione rappresentano per l’appunto dei momenti fondamentali della nuova epoca, ove prevale la borghesia come classe dominante e una mentalità originariamente progressista.

I primi due libri: Gustav Seibt, Il poeta e l’imperatore. La volta che Goethe incontrò Napoleone, Donzelli, 2009; Guglielmo Adilardi, Napoleone Bonaparte, il Concordato del 1801, Istituto di studi Lino Salvini,  2001. Forse non tutti sanno, ma si tratta di una mera curiosità, che vi fu anche chi istituì il culto di San Napoleone, tanto che il 6 novembre 1805, da Braunau (destino di un luogo!), Napoleone ordinava di inviare al Ministro del Culto, Portalis (uno dei protagonisti della grande codificazione voluta da Napoleone), la seguente missiva: “L’Imperatore ha letto un rapporto nel quale Vostra Eccellenza propone di approvare che uno degli altari della chiesa di Nizza venga dedicato San Napoleone. Non v’ha dubbio che il desiderio dei canonici incaricati della cura della suddetta cappella riesca gradito a Sua Maestà, ma l’Imperatore riterrebbe sconveniente che la Sua autorità intervenisse direttamente in questo affare. Ella può quindi considerare, nella fattispecie, più che sufficiente una autorizzazione del Ministero del Culto, senza alcuna controindicazione a riguardo, da parte di Sua Maestà”. Il culto di San Napoleone sostituì addirittura la festa dell’Assunta.

lunedì 25 marzo 2019

È fatto così



Da sempre una frazione della borghesia locale posa il proprio sguardo solo su un suo unico reale interesse: mantenere le proprie posizioni di rendita e di supremazia sociale. L’altra frazione, più dinamica ed esposta all’alea dei mutamenti del nuovo ordine economico mondiale, cerca di rimanere a galla in un mare d’insidie continue adeguandosi alla corrente. Il loro piccolo capitale non è sufficiente per l'esercizio della grande industria e soccombe nella concorrenza con i capitali più forti e per il fatto che la loro abilità viene svalutata da nuovi sistemi di produzione. Dal canto suo la classe lavoratrice è giustamente preoccupata di conservare i propri posti di lavoro e dunque i salari, quando gli dice bene. In realtà essa è una merce come ogni altro articolo commerciale, esposta come le altre merci a tutte le alterne vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato mondiale.

C’è chi sfrutta politicamente le inquietudini nonostante l'unilateralità e le ristrettezze nazionali divengano sempre più impossibili. È una navigazione a vista che vorrebbe erigere muraglie, stavolta contro i cinesi i quali non fanno altro che applicare alla lettera i rapporti borghesi di produzione e di scambio e dunque ciò che hanno appreso da quello stesso dispotismo occidentale, odioso ed esasperante, che apertamente proclamava come fine ultimo il guadagno.

Perché dunque desta meraviglia che i nuovi padroni della situazione badino ai profitti, cioè a quei denari che valicano agevolmente i confini sottraendosi volentieri al fisco locale? Hanno solo imparato e applicato la lezione. E perché dunque stupirsi che siamo diventati negli ultimi decenni una vera e propria colonia del tipo che piace tanto a ogni genere di monopolio e d’imperialismo, dove il marchio frutta assai e il lavoro costa sempre meno?

È davvero triste assistere alla corsa di chi vende la propria argenteria di famiglia a un imperialismo piuttosto che a un altro, tuttavia bisogna rassegnarsi che così è fatto il capitalismo.

sabato 23 marzo 2019

[...]




Il presidente pro tempore della Repubblica italiana e l'imperatore a vita della Cina.

giovedì 21 marzo 2019

Divagazioni sulle palle piene


«Eppure le tue ossa si consumeranno,
sepolte nei campi di Ilio,
per un’impresa incompiuta».


Alessandro Manzoni a riguardo di Napoleone Bonaparte si chiese se la sua fu vera gloria. Molti hanno risposto in modo diverso e problematico a questa domanda. Personalmente non ho dubbi: la sua fu vera gloria, e ciò a prescindere dalle ipotetiche pretese del “Massimo Fattor” manzoniano, anche se, a un dato punto, le sue guerre persero le caratteristiche della lotta tra conservazione e cambiamento.

Per una valutazione della stoffa d’uomo, basterebbe leggere una parte delle sue 33.000 lettere (Correspondance générale, Fayard) per rendersi conto che si trattò ad ogni modo di una personalità dotata di volontà e talento non comuni, che seppe sì sfruttare a proprio vantaggio le situazioni che gli si presentavano ma valendosi d’indubbio ingegno, pur con le mende del suo temperamento. L’eccezionalità dell’uomo si combinò con la straordinarietà degli avvenimenti, e ciò dimostra una volta di più che sono le circostanze a fare gli uomini non meno di quanto siano gli uomini a fare le circostanze (*).

*

lunedì 18 marzo 2019

Per sua natura e vocazione


Secondo John Stuart Mill, le leggi della produzione sono “leggi reali di natura” mentre le leggi della distribuzione sono il risultato della volontà umana e quindi del diritto e del costume. Per una più equa distribuzione della ricchezza si possono immaginare delle leggi migliori.

Evidentemente Stuart Mill non teneva conto del concetto di modo di produzione, ossia del modo determinato in cui gli uomini producono e riproducono la loro vita immediata, quindi la struttura dei rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in cui essi operano ad ogni determinato grado di sviluppo delle forze produttive. La forma di questi rapporti è decisiva ai fini della comprensione dell’intero movimento della produzione (e distribuzione della ricchezza), e dunque per comprendere le leggi specifiche di un dato modo di produzione. Tra parentesi va comunque detto che non bisogna schematizzare meccanicisticamente l’uso di tali concetti, poiché forze produttive e rapporti di produzione sono in continua interazione e si determinano a vicenda, essendo un’unita di opposti.

È necessario, al fine di chiarire ciò che seguirà, ribadire che è una falsa convinzione che lo sviluppo delle forze produttive capitalistiche sia sic et simpliciter misura del progresso sociale. Nel modo di produzione capitalistico, progresso tecnico e progresso sociale non sono equivalenti, così come si vorrebbe far credere. Il progresso tecnico è anzitutto avanzamento delle tecniche capitalistiche e in tal guisa ogni effettiva feticizzazione della tecnica è fuori luogo. Infatti, dal lato di chi viene sfruttato il progresso tecnico si manifesta come aumento della produttività e intensificazione del lavoro (chiedere, per esempio, ai dipendenti di Amazon); dal lato del capitale, si manifesta come accrescimento del tempo di pluslavoro (in rapporto al tempo lavorato per produrre il proprio salario). Il progresso delle tecniche capitalistiche di produzione non ha dunque lo stesso significato per le classi lavoratrici e per i loro sfruttatori, poiché per entrambi diverge il significato di progresso sociale. L’esempio della disoccupazione di massa o dell’inquinamento e del repentino cambiamento dei cicli naturali rappresentano degli esempi pertinenti.

*

sabato 16 marzo 2019

La “difesa del clima”


“Già il solo prendere atto di un proprio limite è il modo per superarlo, per cui anche il solo intuire che la sensazione di opposizione è falsa, è già un primo passo verso il pensiero dialettico.”

*

Tale Gabriele Annichiarico ha scritto un articolo sul Manifesto, in prima pagina, sul tema delle manifestazioni di ieri “in difesa del clima” (sic!). Nell’articolo non è mai citata la parola capitalismo. Per un giornale che si definisce, suo malgrado (?), come “quotidiano comunista”, questo fatto la dice lunga sullo stato dell’arte.

La “difesa del clima” è oggi di moda, esattamente come la rivoluzione molti anni or sono in alcuni salotti della media e alta borghesia. Infatti, il problema del degrado della totalità dell’ambiente naturale e umano ha già completamente cessato di porsi sul piano delle reali e irriducibili cause economiche che fanno capo al modo di produzione capitalistico. Non deve destare dunque alcuna meraviglia che esso venga fatto proprio e stravolto dall’ideologia borghese e rappresentato nello spettacolo mediatico come chiacchiera avvilente, erronea e mistificatoria.

La nostra epoca possiede ogni mezzo tecnico per alterare in modo permanente e assoluto le condizioni di vita sul pianeta, ma è anche l’epoca che dispone di tutti i mezzi di controllo e di previsione matematicamente certi per misurare con esattezza e in anticipo dove conduce la crescita incontrollata delle forze produttive di una società di classe alienata. Tutto il resto è presa per il culo. Salvo eccezioni che non fanno testo, non c’è un solo abitante della fascia dei tropici che non vorrebbe il nostro stesso standard di vita e di consumi, così come non c’è un solo europeo che farebbe cambio con lo standard di vita medio dei tropici.

Gli appelli di Greta Thunberg potranno diventare volontà reale solo: 1) se si prenderà atto che la politica, la scienza e la tecnologia non possono offrire soluzioni stabili ai problemi dell’inquinamento, sfruttamento e distruzione delle risorse naturali, poiché politica, scienza e tecnologia sono ambiti subalterni agli scopi del capitale; 2) se cesserà il sentimento euforico per lo sviluppo delle forze produttive in senso capitalistico, rilevando invece il nesso essenziale e causale che lega i rapporti di produzione e di scambio capitalistici con quei problemi. Insomma, sarà del tutto inutile manifestare nelle piazze se non si affronta dapprima il tema di un progetto di trasformazione radicale del sistema produttivo attuale, avendo ben chiaro che tale processo di trasformazione, per le forze in campo e per la complessità dei problemi, non sarà né rapido e tantomeno pacifico.

venerdì 15 marzo 2019

Cari ragazzi


Non se ne può più di sentire parlare di "sviluppo sostenibile". Sviluppo non è un termine neutro,  in economia afferisce  sempre a un dato modo di produrre, nel caso specifico al modo di produzione capitalistico. Parlare di sviluppo sostenibile costituisce una contraddizione in termini. Qualunque investimento di capitale ha come obiettivo precipuo e assoluto il profitto, non quello della salvaguardia della natura o la tutela dei lavoratori. A ciò debbono provvedere le leggi. In una società di classe, dove prevalgono gli interessi economici più forti, le leggi non sono altro che l'espressione dei rapporti di forza tra le parti in causa. Dunque è giusto e opportuno battersi su questo fronte, ma bisogna aver presente che parlare di sviluppo sostenibile è fuorviante e alla fin fine fa il gioco di questo sistema che in alcun modo è sostenibile e messo in discussione dalle crociate sullo "sviluppo sostenibile" ampiamente coperte dai media.

giovedì 14 marzo 2019

In itinere


La nuova Rinascente di via del Tritone scimiotta l'emporio del Fondaco dei Tedeschi. È un insulto alla classe media che certi prezzi non se li può permettere e deve ripiegare su Zara, mischiandosi con delle silfidi giapponesi che il Sol Levante ci manda come fasullo campionario della fauna locale. Ci aggiorniamo tra qualche giorno per una mostra che assolutamente è da evitare  (quella alle Scuderie del Quirinale) e un'altra che merita il viaggio (alla Garbatella!).

lunedì 11 marzo 2019

L'unica verità assoluta


L'Italia è un paese profondamente diviso, non solo politicamente, e il PD è altrettanto responsabile di questo stato di cose quanto i partiti di destra (di destra!) che ora sono al governo. Fortuna vorrà che con il nuovo corso zingarettiano le cose cambieranno, a cominciare dalla proposta che segue. Ci credo, eccome!

Cinque milioni di italiani vivono in totale povertà, tre volte più di 11 anni fa, prima della crisi del 2008. E molti altri, la maggioranza, non se la passano bene. Allo stesso tempo, i dati di Forbes, pubblicati martedì scorso, hanno rilevato le gigantesche fortune dei cinque italiani più ricchi: il re di Nutella, Giovanni Ferrero & famiglia ($ 22,4 miliardi), il fondatore di Luxottica, Leonardo Del Vecchio ($ 19,8 miliardi), l’imprenditore farmaceutico Stefano Pessina ($ 12,4 miliardi), lo stilista Giorgio Armani ($ 8,5 miliardi), e l'ex capo del governo e imprenditore dei media, Silvio Berlusconi ($ 6,3 miliardi). Settanta miliardi in cinque famiglie. Niente da dire, per carità, siamo un paese fondato sulla meritocrazia (art. 34, comma 3 Cost.).

Ma anche altri non scherzano, come Massimiliana Landini Aleotti, Augusto & Giorgio Perfetti, Renzo Rosso, Paolo e Gianfelice Mario Rocca, Giuseppe De Longhi, Patrizio Bertelli, eccetera. Fuori classifica, vengono i milionari, e sono migliaia, molte migliaia. Non pochi di loro non risultano così benestanti al fisco, ma questa è una battaglia persa in partenza.  Ecco perché ci sarebbe la necessità di operare una revisione delle attuali scandalose aliquote d’imposta per successioni e donazioni (di gran lunga inferiori alla media europea). In tal modo qualche miliarduccio l’anno si potrebbe recuperare, andando a rimpinguare le esangui casse statali. Basterebbe fotocopiare (fotocopiare!) la legge tedesca, francese, inglese, a scelta. In fin dei conti, si può farla franca con il fisco in tanti modi, ma non ci si può sottrarre all’unica verità assoluta di questo mondo, ossia la morte.

Quando parlo o scrivo di queste cose, segue inesorabile un silenzio assoluto. Ognuno ha o spera un giorno di avere un gruzzolo da difendere dalla voracità del fisco. Più che la politica a dividerci è la “roba”.


domenica 10 marzo 2019

I soliti furbi consigliati dai furbissimi




Proprio d’accordo sulla Cei, la quale dovrebbe starsene zitta visto ciò che incassa dallo Stato.

Sul RdC non condivido. Per il reddito d’inclusione, dal primo luglio scorso, bisogna soddisfare solamente i requisiti economici, perciò nel caso di Max gli spetta. Sennonché gli importi del reddito d’inclusione attuale sono risibili, anzi, scandalosi. Non bastava dunque portare i livelli del reddito d’inclusione a decenza ed evitare tutto quel cancan sul reinserimento che palesemente non sarà giammai una cosa seria? No, non bastava, poiché del RdC si è fatto il cavallo di Ilio per vincere le elezioni (un gigantesco voto di scambio, non inedito per la verità), per creare aspettative ("Max sta sperando") e innescare la corsa all’anagrafe e alle poste dei soliti furbi consigliati dai furbissimiInoltre il reddito di cittadinanza in tal modo è diventato di fatto il sostituto del diritto al lavoro.

Che cosa ci sarebbe stato di sbagliato in una misura adeguata del reddito d’inclusione per il quale bisogna soddisfare solamente i requisiti economici? 

Meglio le scimmie


Per cominciare bene la domenica, questa mattina ho letto questo post. È vero che i terremoti non si possono prevedere, però se ne possono cogliere i segnali premonitori. Salvo poi, quando accadono, ricostruire dove e peggio di prima. Chi ha detto che il nostro comportamento di umani è razionale? Meglio le scimmie, molto meglio loro.

giovedì 7 marzo 2019

Un brivido s'aggira per l'Europa


Ha ragione il prof. Ernesto Galli della Loggia nel suo editoriale: “Mette un brivido soltanto immaginare quali possibili esiti” può dar luogo ciò che egli chiama lo “sviluppo dell’economia”, ossia quello sviluppo dell’unica realtà economica esistente su scala planetaria, il capitalismo.

Prendiamo nota: “si stanno creando le premesse né più né meno che per la disgregazione della base sociale su cui ha poggiato il sistema politico e l’insieme dei valori pubblici che hanno tenuto il campo a partire dal 1945”. Che uno storico di vaglia come Ernesto Galli registri questo fatto solo in data odierna – lo dico senza adombrare la benché minima ironia – è segno anche questo dei tempi che stiamo vivendo, in attesa che degli autentici brumairiens prendano il sopravvento.

E tuttavia a me pare che il professore sia poco avvertito, a parte i brividi marzolini, delle reali dinamiche di tale “sviluppo dell’economia”, del processo storico in marcia da decenni, se egli ha ancora in serbo un’ultima speranza, sia pure di mistica natura, ossia “che le classi dirigenti riescano a riprendere miracolosamente in mano la situazione”.

Ancora non si vuol comprendere che le classi dirigenti nulla possono contro quelle leggi dello “sviluppo dell’economia” che scuotono il mondo, tantomeno in questa fase dello sviluppo del capitalismo. In alternativa l’unico modo sarebbe di ricercare e comprendere tali leggi economiche per governarle confermandovisi. Il che francamente è fuori della portata delle classi dirigenti e padronali (figuriamoci le attuali) perché esse trovano naturale e necessario conformarsi ai propri interessi di classe.

L’essenza dei rapporti sociali, in una società di classe fondata sull’esistenza della proprietà privata dei mezzi di produzione, è lo sfruttamento economico che costituisce la vera raison d’être dell’intero sistema di classe. C’è sempre stata una classe che dispone del surplus prodotto dal lavoro, ed infatti finora si è sempre assistito alla trasformazione e sostituzione di classi e di ceti sociali, all’affermazione della ferrea legge “michelsiana” delle oligarchie, del loro ostinato ricostituirsi in situazioni anche totalmente mutate.

Ben oltre i fenomeni di cui si duole il professore assieme ad altri, qualcosa di realmente inedito nella crisi della società borghese si sta profilando e anzi imponendo sempre più marcatamente e prima o poi esploderà con virulenza. Poco male se non ve ne siete ancora accorti, tra una decina d’anni ne darà puntuale notizia in uno dei suoi editoriali il professor Ernesto Galli.

mercoledì 6 marzo 2019

Tutti in una volta


Il 14 luglio chi diede l’assalto alla Bastiglia non si pose in esteso la questione di che cosa sarebbe successo dopo; lo stesso discorso vale per i deputati degli Stati Generali: se avessero saputo come sarebbe andata a finire, probabilmente molti di essi già allora sarebbero fuggiti dalla Francia portando in salvo la propria testa. Il deputato Joseph-Ignace Guillotin, il quale il 20 giugno 1789 suggerì di utilizzare la Sala della Pallacorda, non poteva immaginare di essere arrestato sotto il regime di Robespierre e di sottrarsi per puro caso alla lama di quello strumento di morte che porta il suo nome. Alessandro di Beauharnais, quand’era presidente dell’Assemblea nazionale costituente, non presagì che avrebbe perso la testa sotto la ghigliottina, né che la sua vedova sarebbe diventata imperatrice e suo figlio viceré.

I singoli individui non posso predeterminare a tavolino il proprio destino, per quanto alcuni di essi, che di volta in volta emergono sulla scena storica, coltivino l’illusione di poter guidare gli avvenimenti in un senso o nell’altro. Le rivoluzioni sono il prodotto di un lungo processo storico, segnano un momento di passaggio tra un’epoca e un’altra, ossia la rottura dell'equilibrio tra forze produttive e rapporti di produzione. Da quel punto in poi non si torna più indietro, non c’è restaurazione politica e sociale che possa effettivamente ristabilire ciò che è stato rovesciato e superato. I Francesi d’allora stavano male e consideravano responsabili i loro capi, tanto è vero che a ogni elezione la controrivoluzione sperava di riprendere il potere, ma essi non volevano tornare all’antico regime.

Dunque ancora una volta aveva ragione Marx: possiamo sulle generali scorgere le tendenze, analizzare le leggi di movimento del processo economico, ma è esercizio inutile chiedersi che cosa in dettaglio succederà in seguito, se prevarrà per un periodo una certa forma di società e poi un'altra ancora, se gli uomini si sentiranno più liberi o più minacciati nella loro esistenza, se a un'élite ne succederà un'altra migliore o peggiore, e se infine ed effettivamente dalla preistoria entreremo nella storia oppure porremmo fine a tutto. 

Oggi, l’Europa e il mondo vivono una situazione i cui effetti di trasformazione economica e sociale, per la loro portata epocale, non sono molto diversi da quelli vissuti nel passaggio tra l’antico regime e l’avvento della dittatura borghese (*). Anzi, non si sbaglia nel dire che le trasformazioni in atto risultano, rispetto al passato, ancor più imponenti e sconvolgenti per l’intero sistema economico, sociale e geopolitico. La gestione di tale processo sfugge alle capacità e volontà delle classi dirigenti, malgrado gli alterni tentativi di stabilire dei nuovi equilibri sia in termini di tenuta sociale e sia nelle relazioni internazionali. È solo questione di tempo, i nodi verranno al pettine, e, come spesso accade, tutti in una volta.

(*) L'espressione è di Georges Lefebvre, non certo un bolscevico.

domenica 3 marzo 2019

Come una cosa sola




Un tempo, i sovrani e i diversi rami dell’aristocrazia formavano una società cosmopolìta di padroni che si spartivano i popoli come un gregge affidato alla loro custodia. Oggi sembra non essere più così. L’aristocrazia del denaro, classe sociale eletta alla quale è consentito di dominare il mondo, sa bene che tra i popoli vi sono delle diversità e tuttavia li considera come una cosa sola, cioè dal lato del proprio tornaconto. Un’aristocrazia che continua a regolarsi secondo la propria convenienza, salvo poi chiedersi perché la gente comune gli si rivolti contro. I suoi portavoce ci informano che nel prossimo futuro l’Europa avrà bisogno di più di 8 milioni di nuovi cittadini, ossia di 16 milioni di braccia da mettere a profitto a basso salario. Si guarda all’utile e poco alle conseguenze, ignorando le condizioni naturali, storiche e culturali che guidano gli individui nei loro modi di vita. Illudiamoci dunque che sarà poi la democrazia, il welfare, l’integrazione, l’europeismo a porre le cose a posto.



Nel mondo musulmano (ma non solo, certo) la repressione e la violenza sulle donne è un fatto convenzionale, di base. A cominciare dalla poliginia, sulla quale evidentemente non abbiamo nulla da ridire poiché rientra nel modus vivendi, ecc. ecc.. Quando scenderemo in piazza contro il medioevo delle religioni e dell'Islam in particolare?