lunedì 29 giugno 2020

Una potenza di terz'ordine




Certe realtà sono difficili da fare accettare, tuttavia bisogna prendere atto che il presupposto di ogni sana politica poggia sul riconoscimento che l’essenziale di una nazione che voglia giocare un proprio ruolo nel contesto internazionale sta, oggi come ieri e in primo luogo, nella sua potenza economico-finanziaria, militare, politica, demografica.

Nei rapporti internazionali è tanto più in quelli con gli altri paesi europei, rinunciare a una politica di potenza significa, nel migliore dei casi, accontentarsi di un ruolo di gregari degli interessi e delle decisioni altrui.

Non è da oggi che Italia ha perso peso economico e quanto alla sua credibilità politica per trovarne traccia è necessario risalire a epoche quasi remote. Sempre ricattabile a causa del suo enorme debito e politicamente instabile, nonostante la sua posizione geografica strategica, essa è considerata dalle altre potenze una entité négligeable.

Al suo interno il paese è sottoposto alle variabili dei suoi molteplici centri di potere, non ultimi quelli occulti e a sfondo criminale. Sul piano dei rapporti con i partner europei, l’Italia conta quanto l’Austria e i Paesi Bassi, probabilmente anche di meno, ma i suoi maggiorenti politici e il loro codazzo mediatico sanno costruire a tal riguardo molte illusioni popolari.

Nello scacchiere mediterraneo, l’Italia ha un peso notevolmente inferiore, per esempio, a quello della Turchia, che è più autonoma dalla Nato e ben più attenta ai suoi interessi strategici nell’area. Militarmente l’Italia è adibita a compiti di peacekeeping e d’infermeria per quanto riguarda l’esercito e, per la marina militare, di protezione del naviglio mercantile nazionale oltre che di “lotta all’immigrazione clandestina”.

La Francia, per contro, pur essendo stata sconfitta nel 1940 e l’aver il suo governo legittimo collaborato con la Germania nazista, recita da decenni il ruolo di una reale potenza: affrancata dalla presenza nel proprio territorio da basi Nato, è dotata di un complesso militare-industriale di primo livello (dove lo Stato è spesso azionista unico), è una potenza spaziale e aeronautica, dispone di un arsenale nucleare autonomo (3a potenza mondiale).

L’Italia non dispone nemmeno per approssimazione della capacità dell’Armée française, e, dopo decenni dalla fine del Patto di Varsavia, è ancora feudo delle forze armate americane che nel suo territorio possono fare impunemente ciò che vogliono. Dopo 75 anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, l’Italia non può dotarsi di una propria deterrenza strategica. Come se, per analogia, ancora nel 1890 fosse stata preclusa alla Francia dai suoi vincitori la costruzione di un’adeguata forza militare perché definitivamente sconfitta a Waterloo nel 1815.

Né, per altro verso, l’Italia può mettere nel piatto della bilancia una propria potenza industriale e tecnologica avvicinabile a quella della Germania, dalla quale fortemente dipende (*). Tirate le somme, non è casuale, in tal senso, che i veri vertici europei decisivi siano quelli bilaterali tra Germania e Francia. Gli altri paesi e con essi l’Italia, di fatto partecipano a poco più di uno Zollverein, sempre pronti ad azzuffarsi su questioni marginali.

(*) Il nostro paese, sempre caratterizzato prevalentemente da processi di sviluppo individualistici basati sulla creatività e l’intraprendenza personale, aveva tuttavia a suo tempo saputo costituire un sistema d’imprese pubbliche e di enti di gestione, riuniti poi nel 1956 sotto il controllo dei ministeri delle Partecipazioni Statali e dell’Industria. Nel decennio 1971-1981, L’IRI, l’ENI e l’EFIM erano, in termini di occupazione, ai primi posti nell’elenco dei dieci più importanti gruppi industriali italiani. Non solo e non tutti carrozzoni della politica come s’è voluto far credere, in realtà si contavano industrie e attività di prim’ordine, anche in termini di redditività. Fincantieri è una delle poche grandi aziende pubbliche ad essere sopravvissuta, nel settore della cantieristica navale è attualmente il più importante gruppo navale d’Europa.

L’IRI controllava le partecipazioni industriali, bancarie e altri servizi; l’EFIM controllava le partecipazioni nei settori metallurgico e meccanico; l’ENI quelle petrolifere, tessili e petrolchimiche, l’EAGG le imprese del settore cinematografico, l’EAGAT nel settore termale e l’EGAM nel settore minerario, eccetera.

Già prima, ma soprattutto a seguito delle pressioni derivanti dal processo di unificazione europea e dei conseguenti parametri di Maastricht, si era proceduto a una vera e propria svendita del patrimonio pubblico (legge Amato dell’8 agosto 1992, n° 359), senza che fosse svolto alcun tipo di dibattito politico e pubblico sul processo di privatizzazione, verificando le compatibilità di politica economica, definendo gli obiettivi ultimi dell’operazione e la selezione dei beni oggetto di privatizzazione. Anche l’allora tanto decantato obiettivo conosciuto sotto il nome di “azionariato popolare” o “diffuso”, ha significato la cessione dei gioielli di famiglia al grande capitale internazionale.

A tal fine, sarebbe molto interessante, ad esempio, paragonare il processo di cessione del patrimonio pubblico italiano tra gli anni Ottanta e Novanta con l’opera dell’apposita commissione tedesca che ha, in poco tempo, partecipato, venduto o riconvertito tutto il patrimonio statale della ex Germania dell’Est.

sabato 27 giugno 2020

Che bel cielo c'era quella sera



Volete sapere la verità su Ustica, sulla morte di 81 persone tra cui 11 bambini? Suvvia siamo seri e realistici, sarebbe come pretendere che i piloti americani responsabili della strage del Cermis fossero stati giudicati da un tribunale italiano, anziché assolti dalle accuse da un tribunale statunitense. Oppure come chiedere ai francesi il motivo del loro intenso traffico militare nei cieli del Tirreno in quella sera del 27 giugno 1980. Eccetera. Teniamoci per buona la storiella del MIG 23SM ritrovato a Castelsilano “e più non dimandare”.

*

Il MIG 23, secondo chi sostiene la versione che lo collega all’abbattimento del DC9 Itavia, sarebbe caduto, superato un lungo tratto del Tirreno e i rilievi della Sila, in contrada Colimiti di Castelsilano (a circa 2 km in linea d’aria dal paese), località che guarda verso la parte ionica della Calabria. Pertanto dopo aver percorso 250-300 km circa dal luogo dove si presume sia stato intercettato (proveniente da dove?) e colpito (da chi?). Ciò non può escludersi, ma è assai improbabile, così com’è strano che poco dopo le 9 di una bella sera di giugno nessuno del luogo abbia visto e udito nulla (un caccia non è un deltaplano). Se scontro tra MIG e altri caccia c’è stato, non deve essere avvenuto a grande distanza dal luogo dove sarebbe precipitato l’aereo colpito.


Altresì c’è da chiedersi cosa ci facesse un caccia libico, con un inappropriato schema mimetico giallo-marrone-verde, autonomia operativa max. di 1.150 km., privo di armamento air-to-air, con un cannoncino da 23 mm. senza munizionamento, nel mezzo del Tirreno. Su una rotta sorvegliata e trafficata come poche, e dove la probabilità di essere intercettati è assolutamente certa. Il relitto dell’aereo presentava, al ritrovamento ufficiale, la carlinga rivolta verso nord. Altra domanda: perché abbatterlo quando sarebbe stato sufficiente costringerlo ad uscire dalla scia dell’aereo di linea? Per abbattere questo e forse anche un altro asserito MIG (il cui relitto mai è stato cercato) sarebbero intervenute le forze navali e aeree di almeno tre nazioni, in uno scenario di guerra che in realtà allude a tutt’altro.

Molte, troppe stranezze nel racconto del MIG 23. La verità non la sapremo mai, come sempre accade circa i “misteri” di questo pittoresco paese. Pertanto, arrivederci nel 2030, quando nel 50° anniversario il presidente della Repubblica pro-tempore ripeterà che “Il dovere della verità è fondamentale”.

Il prossimo post: perché la verità su certe faccende in questo paese è impossibile.


venerdì 26 giugno 2020

Profeti di sventura


Come quella brutta influenza? Però oggi molto meno letale, stando ai numeri. Prendo nota a futura memoria (e anche per il recente passato).


Coronavirus, letale nelle stesse fasce d'età di un'influenza (dati al 18-6-2020). Sostanzialmente gli stessi sintomi della "spagnola" e le stesse complicanze.

mercoledì 24 giugno 2020

Pubblicazione e diffusione di notizie esagerate e tendenziose



“Turismo, deserto Italia”, titola ipocritamente la Repubblica, uno dei maggiori veicoli di diffusione dell’isteria sociale di questi mesi. Non passa giorno che dalle sue pagine non si paventi una seconda ondata virale, anzi, un pericolo imminente e costante di nuova catastrofe.

Solo otto giorni or sono le grida d’allarme perché a Napoli s’è festeggiata non tanto la vittoria della propria squadra, quanto la sconfitta dell’altra, tanto odiata. Peccato che non vi siano gli ospedali napoletani presi d’assalto, in tal caso la signora Gruber e altri suoi colleghi avrebbero rinunciato volentieri alle ferie, perché loro sono sempre pronti sul pezzo.

I media hanno bisogno del panico come loro pane quotidiano: più contatti, più contratti con gli inserzionisti. Il tutto favorito da degli irresponsabili che in questi mesi l’isteria e il panico li hanno coltivati ad arte e profusi senza ritegno.

Le ricordiamo le immagini riprese dall’alto della teoria di camion militari? Il mondo intero le ha viste e riviste. Non esistevano evidentemente altri mezzi di trasporto idonei. E le foto di truppe motorizzate e corazzate, con sorvolo di droni, che multavano un’unica persona in chilometri di spiaggia deserta? Hanno fatto il giro del mondo anche quelle, servivano a esportare il “modello Italia.

Che cosa ci aspettiamo ora, che i turisti tedeschi, svizzeri e austriaci arrivino come ogni anno a frotte sulle nostre spiagge? Ovvio che se decidono le ferie cambino destinazione. Quanto agli italiani, chi si fida di frequentare gli alberghi dopo mesi di distanziamento sociale?

Un prologo di tutto questo s’era visto a ottobre scorso, quando i media nostrani avevano per settimane smerciato notizie ed immagini di una Venezia inghiottita dall’acqua. I media stranieri, che vivono dello stesso contrabbando, non s’erano fatti pregare. Risultato: disdette di prenotazioni a decine di migliaia.

C’è sempre, quando si rileva questo modo di fare e presentare le cose, il Pierino che alza il ditino per dire: “35mila morti non ti bastano?”. Ora però si titola: “deserto Italia”. Ce la racconteremo tra qualche mese. 

lunedì 22 giugno 2020

L'erede



L’Eredità che nessuno vuole. 


*

E se anche tu vivessi trecento anni e più,
da questo caravanserraglio dovrai uscire una buona volta.
Che tu fossi un superbo Re o un mendico,
quell’ultimo giorno farà lo stesso.

Supponi che la tua vita sia stata tutta conforme ai tuoi desideri – e poi?
E quando il libro della vita è tutto letto – e poi?
Supponi di viver felice cent’anni …
Mettiamo siano anche stati duecento – e poi?

Queste due quartine del celebre “fabbricante di tende”, le ho cercate invano nelle traduzioni italiane. Eppure sono tra le più belle e significative del poeta astronomo.


venerdì 19 giugno 2020

La guerra del gas



Non deve stupire che i politici e i media del mondo dispieghino la maggior parte del proprio impegno e delle loro energie nel dibattere prospettive geopolitiche che non si avvereranno, mentre pongono poca o nessuna cura per i principali sviluppi in corso. Per esempio a riguardo di un fatto geopolitico che cambierà fondamentalmente la situazione delle forniture di gas in Europa, ossia il completamento del Nord Stream 2.

Il completamento del progetto Nord Stream 2 avrà un significato politico ed economico globale, come già e ancor più del primo gasdotto Nord Stream, capace dal 2011 di approvvigionare la Germania da 27,5 miliardi di metri cubi all’anno di gas naturale. Senza dimenticare che esso taglia fuori gli Stati russofobi privandoli della loro arma di ricatto preferita.



Ora, non solo Donald Trump, ma tutti, dai repubblicani ai democratici, vale a dire le due fazioni della borghesia americana che si spartiscono alternativamente la guida politica dell’impero americano, si stanno mobilitando contro il completamento del Nord Stream 2, una pipeline che collega attraverso il Mar Baltico la Russia alla Germania, in grado di trasportare gas a migliaia di chilometri senza utilizzare le stazioni di compressione (il diametro dei tubi si restringe man mano lungo il percorso), con capacità annua di 55 miliardi di metri cubi.

Nemmeno l'ombra


Il cardinale Mazzarino, quando gli si proponeva un candidato a qualche ufficio importante, soleva chiedere: “Est-il chanceux?”. La stessa cosa accadeva con Napoleone, non bastava che un ufficiale avesse dato prova di valore e competenza, egli chiedeva anzitutto se questo candidato alla promozione fosse un ufficiale “fortunato”.

La fortuna è una qualità come un’altra? Difficile stabilire che cosa essa sia esattamente. Ci basti la definizione data da Schiller: beato colui ch’è amato dagli dèi ancor prima di nascere. Più facile è definire la sfiga: va male con la fortuna anche a sbatterci contro. Di seguito, esempi di sfiga e di fortuna sfacciata.

giovedì 18 giugno 2020

La prossima Sarajevo?


Anche in Nepal hanno letto il post.


Immaginiamoci che la Cina possieda tre portaerei e le mandi ai limiti delle acque territoriali della California. È esattamente ciò che hanno fatto gli Usa mandando un’imponente flotta nel Pacifico occidentale dove opereranno in acque appena al largo della Cina continentale.

Mettiamoci anche la strategia di “disaccoppiare” l’economia americana dalla Cina, facendo pressione sulle multinazionali americane per spostare le produzioni dalla Cina, promuovendo l’India come hub alternativo della catena di produzione manifatturiera cinese.

La campagna Usa per spingere i paesi a vietare Huawei e contrastare in ogni altro modo l’emergere della Cina come concorrente nei settori high-tech, paventando l’uso spionistico dei dati raccolti. Il bue che dice cornuto all’asino.

E molto altro ancora. Qui non si tratta di prendere le difese della Cina, ma di aver una visione delle cose decentemente oggettiva, poiché poi, quando la crisi non dovesse più essere contenuta con mezzi pacifici, divenendo incontrollabile, non si venga a raccontare che gli Usa sono innocenti come dei fantolini.

Nello stesso quadro anche lo scontro di lunedì sera che ha causato la morte di dozzine di soldati dell’esercito indiano e dell’esercito cinese, una vera e propria battaglia che potrebbe preludere a una guerra a tutto campo tra i due paesi più popolosi del mondo (potenze nucleari).

martedì 16 giugno 2020

Il vaccino che non esiste



Non voglio entrare nel merito, non è di mia competenza, se le emissioni elettromagnetiche per il sistema detto G5 siano dannose per la salute umana, e in tal caso in quale misura, con quali livelli di esposizione, ecc.. Tuttavia leggere di "connessioni con la diffusione del coronavirus" dà la dimensione di quale sia lo stato emotivo e culturale di questo nostro paese.

Il più alto rischio che possiamo correre è di essere contagiati dal virus della stupidità, uno dei più antichi patogeni che sicuramente non ha fatto il salto di specie. Come per il covid-2, gli asintomatici sono assai più numerosi di quanto risulti ufficialmente, senza distinzione d'età, pur denotandosi ingravescenza. Esami biologici o strumentali non rilevano la positività a tale virus, che può presentarsi in forme subdole rilevabili solo all'ascolto e osservazione del paziente. Nemmeno lavarsi bene e con frequenza le mani serve a evitare il contagio. Frequentemente si registrano casi in soggetti immuni con episodi lievi e di momentanea sintomatologia. Vanno distinti dagli infetti veri e propri che invece presentano persistenza dei sintomi. Non esiste vaccino, né sono accertate sicure guarigioni. 

La clessidra



Piove, piove e ancora piove. Sembra di essere a Macondo. Qui un po’ Macondo l’è sempre, anche quando non piove. Non c’è l’azzurro terso di Roma, il ponentino che ti accarezza nei giorni di afa. L’aria è cattiva e ammala, tuttavia molta gente si accompagna bene con questo clima. In genere sono persone molto riservate.

Ho viaggiato nello stesso treno ogni giorno per decenni con delle persone che non ho mai saputo chi fossero. Salivano, sedevano perlopiù nei loro soliti posti, presi nei loro pensieri, a volte con un libro, le cuffiette ficcate nelle orecchie. Ci si scambiava un cenno di saluto, nulla di più. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, restavano anonimi e silenziosi. Fosse dipeso da questi viaggiatori, fosse stato quel treno l’Orient Express, Hercule Poirot non avrebbe cavato un ragno dal buco dai loro interrogatori.

Per fortuna non tutti i viaggiatori erano così. Alcuni, più alla buona, avevano un temperamento diverso, cercavano il dialogo, la complicità nella battuta. Avevamo formato un gruppetto ben assortito di donne e maschietti, ciarliero e solitamente allegro specie nel tragitto del ritorno. Ad ogni stazione intermedia avevamo dato un nome nuovo, che la qualificava umoristicamente. Piccole stanzioncine, dove il personale ferroviario si prendeva cura di bellissime aiuole e a natale addobbava un abete. In una di queste faceva il presepe all’aperto. Capitava che il capostazione facesse segno al capotreno di aspettare, che un viaggiatore ritardatario stava per arrivare.

Una volta, ricordo, dedicammo una settimana alle ipotesi più fantastiche sul perché nelle coltivazioni di sorgo, che ci scorrevano sotto gli occhi, le piante rimanessero assai più piccole ai bordi dei campi. Tutte ipotesi molto scientifiche s’intende, quanto le nostre risate. Era un modo di passare il tempo del viaggio in serenità, tuttavia a volte gli argomenti erano anche più seri, ma quasi mai si toccava la politica o lo sport.

Non mancavano occasioni che si festeggiasse un compleanno, oppure il carnevale (con le frittelle), gli auguri di natale, l’agognata pensione di qualcuno che ci lasciava. Ognuno portava qualcosa. Alla sobria festicciola partecipava anche il personale viaggiante, sempre lo stesso in quella tratta da molti anni. Un mondo che non c’è più.

Non ci resta che la nostra clessidra, la stessa di un librino di Mann (*). La sabbia scorre attraverso un forellino così sottile che all’inizio sembra che il livello della parte superiore non debba cambiare mai; cominciamo ad accorgerci che la sabbia scorre via solo verso la fine, ma prima d’allora ci vuole tanto che non vale la pena di pensarci. Poi, all’ultimo momento, quando non c’è più tempo, ci si accorge che è troppo tardi per pensarci.

(*) Similmente in: La morte a Venezia, Einaudi, Nuovi Coralli, 1971, p. 88 (oppure qui).

lunedì 15 giugno 2020

Fatta la legge, trovato l'allocco





Ibs.it propone ai propri clienti l’acquisto delle sue merci, nella fattispecie libri. Con un vantaggio: acquistando tre libri di un suo catalogo ad hoc un quarto libro viene dato in omaggio. È un vecchio trucco commerciale, in realtà si acquistano quattro libri con uno sconto teorico del 25 per cento cadauno, se il prezzo dei diversi libri fosse uguale, ma trattandosi di prezzi differenti per ciascun libro, e avendo quello in omaggio un prezzo medio inferiore agli altri, ecco che lo sconto oscilla ben sotto il 25 per cento. Pur sempre una buona cosa, diranno gli ingenui che non rilevano che le merci proposte sono immondizia.

È questo un giudizio soggettivo, dettato da malanimo? Si tratta di un giudizio che prende le premesse dal fatto che l’utilità di una cosa ne fa un valore d’uso, ma questa utilità non aleggia nell’aria, è un portato delle qualità del corpo della merce e non esiste senza di esso. Onestamente, quale utilità possono avere dei libri come questi? L’utilità è tutta di chi vende: gli editori si liberano di robaccia destinata al macero, il grossista acquista a peso e poi rivende con una finta promozione, aggirando la nuova legge sullo sconto massimo del 5%, realizzando un cospicuo profitto.

Molte delle biblioteche domestiche è formata da questa roba qua, anche a prezzo intero.

Galeotto fu il libro



Quasi mezzo secolo fa, partecipai a un concorso pubblico per dei modesti posti di lavoro presso lo … di Venezia. Le prove di concorso, scritto ed orale, si tennero presso una villa in terraferma. Le domande furono oltre 600, i partecipanti effettivi poco più di 500. Lo scritto si tenne in un giorno di gennaio, la notte prima aveva nevicato. Ricordo che durante il tragitto di andata, presso la villa, dovetti improvvisamente frenare, in tal modo l’auto per il ghiaccio fece almeno due testacoda. Senza danni per fortuna. Non prometteva bene.

Il titolo del tema sul quale dovevamo cimentarci era piuttosto banale, per non dire altro. Dovevamo descrivere una città in cui non eravamo mai stati ma che ci sarebbe piaciuto visitare. Il titolo del tema non specificava se si trattasse di una città reale o immaginaria. All’istante non ebbi dubbi circa il mio interesse d’improbabile visitatore: la città di Utopia.

La parola fu inventata da Thomas More nel 1516, il quale era molto vicino agli umanisti dell’epoca, ad Erasmo in particolare. Sebbene More fosse un alto dignitario, non si fidava del potere. Ricorse a un escamotage letterario inventando una favola fantastica sotto forma di un diario di viaggio, il cui protagonista è Raffaele Itlodeo. Riuscì a sviluppare una critica dell’Inghilterra di Enrico VIII descrivendo la sua isola ideale, perfetta inversione dell’isola di cui criticava i metodi di governo. Ogni lettore può immaginare la propria utopia, favolosa invenzione che ha dato origine a tutte le interpretazioni più contraddittorie, compresa la mia.

Svolsi l’immaginario viaggio in quattro facciate con la mia grafia minuta ma chiara. Erano tempi diversi, il 1968 era trascorso da poco, certi ideali non erano ancora stati gettati nel fosso, come diceva già allora una nota canzone. Gli orali, ai quali vennero ammessi i primi venti classificati, si tennero ben nove mesi dopo, in un pomeriggio ancora afoso. Non ostante nel frattempo avessi già presa una mia decisione, volli sostenerli ugualmente, se non altro per vedere come sarebbe andata a finire e quale impatto aveva avuto il mio tema. Ed infatti trovai molta curiosità a riguardo di esso, e nel colloquio che ne seguì si parlò quasi esclusivamente di quel mio esercizio di fantasia.

Pertanto, per quanto mi riguarda il libro di Thomas More giocò un ruolo decisivo in quel concorso. Dipoi, non so chi, ma sicuramente un tizio o una tizia ebbe il suo posto di lavoro per la mia rinunzia. Probabilmente quella mia decisione cambiò il corso della sua vita, così come quello della mia. La nostra sorte era stata posta in bilico da un libro scritto in latino quasi mezzo millennio prima.

domenica 14 giugno 2020

La perfidia e la potenza



A Homburg vor der Höhe, città termale e soggiorno prediletto dell’imperatore Gugliemo II, il quale da ragazzo, durante la guerra franco-prussiana, vi aveva dimorato a lungo con il fratello Enrico e la propria madre, il 4 settembre 1897 si tenne un déjeuner dînatoire alla presenza dell’imperatore stesso e di tre regine. Ebbe luogo nella stessa grande sala che un tempo aveva ospitato il casinò locale.

Il panno verde aveva lasciato posto alla lunga e ricca tavola di gala con stoviglie di fine porcellana, il ronzio uniforme della pallina della roulette era sostituito dal brusio in lingua rigorosamente francese degli illustri ospiti del banchetto. A capo tavola sedeva l’imperatore e sul lato più lungo tre regine: la regina Margherita d’Italia, l’imperatrice madre di Germania e l’imperatrice di Germania regnante.

A quale di queste tre donne era riservata in vita la sorte più infelice? All’imperatrice madre, che aveva perduto il suo nobile consorte insieme alla possibilità di attuare quei suoi disegni e pensieri che aveva per tanti anni accarezzati nel caso che suo marito avesse regnato più a lungo di quei 99 giorni che come nuovo imperatore trascorse malato a San Remo prima di morire? O alla regina Margherita, alla quale, meno di tre anni dopo, il marito Umberto I doveva esserle riportato al castello di Monza cadavere insanguinato? O era forse l’attuale imperatrice di Germania destinata ad essere la più infelice delle tre donne, essa che vent’un anni più tardi doveva assistere alla disfatta della Germania e alla ignominiosa fuga di suo marito, per poi spegnersi lentamente e penosamente in terra straniera?

Tutto sommato, la loro sorte fu meno infelice di quella di milioni di poveri giovani che lasciarono la loro vita sui campi di battaglia, i cui corpi, dilaniati in assalti inutili e disperati dal fuoco di nuove armi, rimasero non di rado insepolti e preda di topi voraci.

In quello stesso 4 settembre 1897, un garzone sellaio, sbattuto da Heidelberg a Brema, dove aveva aperto una trattoria, porgeva ai suoi clienti birra spumosa o un forte grog. Chi avrebbe potuto vaticinare che vent’uno anni dopo, quel Fritz Ebert, oste dalla malora, sarebbe stato eletto come primo presidente della Repubblica di Weimar?

Dal culmine della fortuna si può precipitare nella rapidità di un istante; dalla più umile condizione il caso può elevare dove nessuno avrebbe potuto immaginare. La perfidia delle cose e la potenza delle circostanze.

venerdì 12 giugno 2020

Gli ipocriti sono molti di più



Razzisti e schiavisti sono in numero cospicuo a ogni lato del pianeta, ma gli ipocriti sono in numero ancora maggiore. E siccome l’ipocrisia in questi giorni è montata forte contro questo e quello, di seguito, ripropongo, senza averne mutato una virgola, un post del 13 settembre 2015.  I dati riportati sono tratti dai migliori e più asettici studi sul tema.

* 
Nel 1860 negli stati del sud americano vivevano più di dodici milioni di anime, ma circa quattro milioni sopravvivevano in condizioni di schiavitù. Essi costituivano un capitale prezioso perché con il loro lavoro consentivano a molti proprietari di schiavi di vivere nell’agiatezza e in non pochi casi nell’opulenza. Quei quattro milioni di schiavi valevano tre miliardi di dollari, una cifra favolosa per l’epoca e che superava di gran lunga il valore di tutte le terre coltivabili degli Stati Uniti.

Le piantagioni producevano soprattutto cotone, che costituiva oltre i due terzi di tutto il cotone commerciato nel mondo e circa l’80 per cento di quello trasformato dalla mastodontica industria tessile britannica, e anche tabacco, riso e canapa. Appannaggio esclusivo degli schiavi erano anche tutti i lavori domestici e di fatica. Ad ogni modo solo un quarto della popolazione bianca era proprietaria di schiavi, la maggior parte della quale era proprietaria da quattro a sei schiavi.

Per essere considerati dei “coltivatori”, secondo l’ufficio federale del censimento, bisognava essere proprietari di almeno venti schiavi, e dunque solo un padrone su otto apparteneva a questa categoria. Ed erano questi “coltivatori” a detenere oltre la metà degli schiavi di tutto il Sud e una porzione ancora più grande della produzione agricola.



La vera e propria aristocrazia terriera contava diecimila famiglie, le quali possedevano ciascuna cinquanta e più schiavi. Ed era questa élite di proprietari che dava forma al governo e tono alla società. Circa tremila famiglie possedevano almeno cento schiavi. E però in cima alla piramide stavano trecento famiglie di latifondisti ciascuna delle quali poteva contare non meno di 250 schiavi, e alcune di esse arrivava a oltre quattrocento schiavi, tra queste quella di Robert Barnwell Rhett (1800-1876), della Carolina del Sud, editore del quotidiano Charleston Mercury, un tipo molto bellicoso.

Il culmine veniva toccato da non più di una cinquantina di famiglie latifondiste, con oltre cinquecento schiavi, o anche più di mille come nel caso di Thomas Pollock Devereaux (1793-1869), padre della una nota diarista, Catherine Devereaux Edmondston (*). Lo sfruttamento del lavoro schiavile consentiva a queste famiglie di vivere con ogni agio in grandi ville di stile neoclassico con imponenti colonnati e scalinate, arredate con sfarzo, e di possedere dei palazzi in città. Di dar luogo ai loro piramidali doveri con cacce, regate e corse di cavalli, dove gli schiavi venivano utilizzati come rematori e fantini, e gl’immancabili ricevimenti e le feste danzanti.

A scorrere l’elenco dei presidenti degli Stati Uniti d’America di schiavisti ce ne sono parecchi: George Washington, Thomas Jefferson, James Madison, James Monroe, Andrew Jackson, John Tyler, James Knox Polk e Zachary Taylor; numerosissimi poi i membri del congresso e della corte suprema. E vi era un bellimbusto francese che in quel periodo, da una posizione di classe aristocratica, scriveva poderosi tomi sulla democrazia in America, opera che avrebbe influenzato, tra gli altri, molti esponenti del sedicente partito comunista italiano, poi diventati fieri “anticomunisti”.

*

L’impiego degli schiavi neri in catene nel Sud era nulla dal punto di vista dello sfruttamento economico a confronto dell’utilizzo di un’altra forma di schiavitù diffusa nel Nord, quella dove un capitalista poteva impiegare nelle sue fabbriche migliaia di salariati di ogni colore, peraltro senza le seccature che le antiche forme procurano ai padroni nella gestione degli schiavi. E dunque si può ben dire che la guerra civile americana fu vinta da una forma superiore e più produttiva di schiavitù mascherata dalla libertà formale del lavoratore.

I veri ricchi non vivono tra il sudore e l’odore degli schiavi in catene, non coltivano cotone ma titoli, scontano le migliori cambiali e con opportuni calcoli distinguono sempre l’utile proprio dall’inutile altrui. Frequentano club esclusivi dove la discrezione e la prudenza sono la norma, viaggiano clandestini nelle barche e nei jet di proprietà o a nolo. Sono e amano essere invisibili. Il “lavoro” sporco di gestione della grande prigione lo lasciano fare ai politici e ai collezionisti di statistiche.

Per quanto riguarda la schiavitù, uno dei più radicati fraintendimenti è di vederla come l’antitesi del capitalismo, quando invece essa ne rappresenta nelle mutate forme giuridiche la quintessenza del suo sviluppo storico. Nella sostanza del risultato non vi è differenza tra il lavoro coatto di uno schiavo costretto in catene e il dover lavorare per imprescindibili motivi di necessità (**).

Se gli schiavi delle piantagioni non avessero temuto la frusta dei sorveglianti e degli stessi padroni non avrebbero lavorato; allo stesso modo i salariati non lavorerebbero per i loro padroni se non fossero costretti da un altro tipo di frusta, invisibile ma non meno efficace, ossia il bisogno di procurarsi il necessario per la loro sopravvivenza. Si tratta in definitiva di due modi storicamente distinti di organizzazione del lavoro. In definitiva è il capitale a decidere quale forma di sfruttamento sia più “razionale”, vale a dire quale forma di sfruttamento gli permette e gli assicura una maggiore valorizzazione.

La guerra civile americana, di là delle sue motivazioni politiche e ideologiche, così come il conflitto permanente tra capitale e lavoro, ha avuto come suo oggetto essenziale la lotta per stabilire, in un dato momento storico, quale fosse la più opportuna forma economica e giuridica per sfruttare al meglio il lavoro.

(*) Particolarmente istruttive sono queste considerazioni della diarista citata a proposito della liberazione degli schiavi e del loro successivo impiego, “per bisogno”, nelle stesse piantagioni in cui avevano lavorato coattivamente.

(**) Questa eternizzazione del rapporto fra il capitale in quanto compratore e l’operaio in quanto venditore di lavoro è una forma di mediazione immanente al modo di produzione capitalistico, ma una forma che si distingue solo formalmente dalle altre e più dirette forme di asservimento e di appropriazione del lavoro da parte del detentore delle condizioni della produzione. Esso maschera come puro rapporto monetario la vera transazione e quella dipendenza che la mediazione della compra-vendita rinnova di continuo. Non è vero soltanto che le condizioni di questo traffico sono costantemente riprodotte; è anche vero che ciò con cui l’uno acquista e ciò che l’altro è costretto a vendere sono in pari grado risultati del processo. Il rinnovo continuo di questo rapporto di compra-vendita non fa che mediare la continuità dello specifico rapporto di dipendenza e conferirgli l’apparenza ingannatrice della stipulazione di un contratto fra possessori di merci dotati di eguali diritti e parimenti liberi l’uno di fronte all’altro (Il Capitale. Per la critica dell’economia politica, Capitolo VI inedito, La Nuova Italia, 1969, pp. 98-99).


Pater semper incertus est



Come chiunque sa, per esperienza di mondo, in circolazione vi sono innumerevoli figli di … buona donna. In senso meno metaforico, la recherche de la paternité può rivelarsi insidiosa, e già Augusto metteva in guardia i suoi senatori da troppe certezze in tal senso, poiché c’è sempre la possibilità di scoprire qualcosa che lascerebbe molto turbati. Il dubbio su chi fosse realmente suo padre fu messo anche ad Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha, e, si sa, il dubbio è come un tarlo.

Di chi fosse figlio Alberto, futuro marito della regina Vittoria e poi principe consorte del Regno Unito, è questione tuttora aperta e sicuramente non si chiuderà con una risposta definitiva. Tra i molti a dubitare vi fu anche il cancelliere tedesco von Bülow, che su queste cose aveva notizie “locali” di prima mano. Scriveva che senza dubbio vi erano parecchi elementi a sfavore della paternità del duca Ernesto III di Sassonia-Coburgo-Saalfeld, marito della madre di Alberto. Secondo testimonianze coeve, ma anche giudicando dai ritratti, alla madre Alberto assomigliava moltissimo e per nulla al padre, anche se ciò non prova nulla.

Il principe Alberto, secondogenito di Ernesto III, duca di Sassonia-Coburgo-Saalfeld e Luisa di Sassonia-Gotha-Altenburg, nacque il 26 agosto 1819 nel castello di Schloss Rosenau, tra le città di Coburgo e Rödental. Ernesto, grazie al suo matrimonio con Luisa, ereditò il ducato Sassonia-Coburgo-Gotha, cedendo a sua volta, fomite un concordato con altri eredi, quello di Saalfeld al ramo dei Sassonia-Meiningen. Per questo motivo Ernesto III dal 1826 diventò Ernesto I duca di Sassonia-Coburgo-Gotha.

Nell’Ottocento il quadro morale è diverso da quello del secolo precedente, l’etica della rispettabilità diventa più esigente, e non sono pochi i valori distintivi della borghesia che hanno a che fare con la dimensione della sessualità. Perciò aveva un bel rammentare quel sibarita di Talleyrand, ex vescovo cattolico, quando diceva che chi non aveva vissuto prima della Rivoluzione non aveva idea di quanto potesse essere dolce la vita.

Se in seguito il sistema di relazioni sociali tra i generi, non solo per far salve le apparenze, diventò per le donne delle classi medio-alte mortificante, tuttavia l’eco della disinvoltura sessuale dell’ancien régime si faceva ancora sentire agli inizi del XIX secolo: “La corte ducale Coburgo-Gotha non si distingueva certo per la rigidità dei suoi principi morali”, segnalava il biografo Lytton Strachey nella sua celebre biografia della regina Vittoria. “Non soltanto il duca era un uomo galante [si ritiene comunemente Enrico abbia avuto almeno tre figli illegittimi], ma correva voce che anche la duchessa Luisa seguisse l’esempio del marito”.

Scoppiarono degli scandali: si parlò molto di un ciambellano di corte, uomo affascinante e assai colto, di origine ebraica”, tale Simon Meyer, oppure si parlò di un von Ziegesar, appartenente all’omonima “distintissima famiglia”, e di altri coinquilini nel letto della duchessa. Per tali adulteri, quando il principe Alberto aveva 7 anni, suo padre chiese il divorzio dalla madre. Louise fu esiliata dalla corte e morì ancora giovane, nel 1831. Si ritiene che non abbia più rivisto i suoi figli.

Ernesto si risposò una seconda volta con la nipote, Maria di Württemberg, figlia di sua sorella Antonietta. Quello del matrimonio tra consanguinei era un buon modo per non disperdere i patrimoni. Dopo la rivoluzione francese e l’abolizione della disuguaglianza tra eredi e il maggiorascato, l’ambito matrimoniale si estese dai casati aristocratici alla classe sociale borghese (femmine comprese).

Nel 1840, Alberto sposò la regina Vittoria, cugina di primo grado. Condividevano una serie di nonni poiché il padre di Alberto era il fratello della madre di Vittoria, la principessa Maria Luisa Vittoria di Sassonia-Coburgo-Saalfeld, la quale, rimasta vedova nel 1814, in seconde nozze aveva sposato, nel maggio 1818, Edoardo duca di Kent, morto nel 1820. Alberto e sua moglie Vittoria erano nati nello stesso anno, a soli tre mesi di distanza, e avevano entrambi avuto la stessa levatrice, madame Siebold, ostetrica reale.

Alberto trascorse i primi 17 anni del suo matrimonio come principe reale, e solo il 25 giugno 1857 la regina Vittoria concesse a suo marito il titolo ufficiale di principe consorte.

La coppia reale britannica ebbe nove figli, incluso il re Edoardo VII, gaudente puttaniere, che successe a sua madre sul trono nel 1901. Il matrimonio di Alberto e Vittoria non fu visto con molto favore dal Parlamento: lui era protestante e apparteneva a un piccolo principato tedesco di 60.000 abitanti, che in epoca napoleonica fu occupato dai francesi, per cui la famiglia Sassonia-Coburgo “si trovò ridotta a mendicare per non morire di fame”. Napoleone, se avesse potuto vedere il futuro di questa famiglia, nel cui principato era passato più volte come un erpice, sarebbe rimasto sorpreso. Una generazione più tardi i rampolli Sassonia-Coburgo-Gotha erano destinati a conquistare una posizione preminente in quasi tutte le case regnanti d’Europa. In Inghilterra a mutare il nome in Windsor nel 1917.

giovedì 11 giugno 2020

Obiettivi innocui



Non avendo di meglio di cui occuparsi si sta dando grande risalto alla faccenda dell’abbattimento delle statue. Sarebbe il caso di incominciare da quella di George Washington, e di altri padri e padrini fondatori degli Stati Uniti d’America, i quali erano tutti degli schiavisti, inevitabilmente. 

All’epoca della rimozione/distruzione delle statue di Lenin e di Marx, nessuno dei democratici dell’ovvio ebbe a opporsi, anzi. E bisogna essere ben ignoranti e in grande malafede per ritenere che Marx sia in qualche modo responsabile, anche indiretto, dello stalinismo. E su Lenin non voglio dilungarmi perché non ho più voglia di perdere tempo. 

Ogni epoca ha la sua damnatio memorie, ma prendersela con le statue il Colombo, di Marx, di Churchill e di molti altri, è solo ridicolo. Eisenhower tollerava che nelle forze armate americane vi fosse una forte discriminazione razziale. Cancelliamo anche lui? Sullo stesso metro di giudizio dovremmo abbattere tutte le statue giunte fino a noi raffiguranti personaggi storici dell’antichità, perché tutti furono schiavisti e sfruttatori. Proibiamo le opere di Aristotele perché riteneva che lo schiavo fosse, per natura, un animale dotato di parola?

Pare che nessuno abbia da dire qualcosa a riguardo della perdurante schiavitù, che riguarda ogni colore di pelle, ossia quella fondata sul lavoro salariato.

Finché esisterà una società di classe vi saranno padroni e schiavi. Lo sfruttamento dei propri schiavi, in ogni epoca, è una forma, oggi più o meno mitigata e sfumata, di razzismo sociale. Nessuno è immune, ognuno di noi per un verso o per laltro è parte del sistema (*).

Tutti i sistemi ideologici fungono da strumenti attivi della riproduzione di rapporti sociali alienati. L’ideologia è sublimazione di tali rapporti. L’iconoclastia “antirazzista” che porta ad abbattere statue, serve a distogliere l’attenzione da questioni molto più concrete e che sono alla base di quegli stessi rapporti, in modo da indirizzare l’antagonismo sociale verso obiettivi innocui.

(*) Pensate che la vostra colf, che sicuramente trattate con ogni riguardo, vi pulisca il cesso perché ritiene sia questo un suo sacro dovere sociale? Se si rifiutasse di farlo smettereste di trattarla con ogni riguardo.

mercoledì 10 giugno 2020

Per la Marianna!



La biblioteca è uno specchio implacabile della nostra identità. In questi ultimi mesi ne abbiamo intraviste di ogni tipo di biblioteche domestiche. In genere si è trattato di mediocri esibizioni. Pertanto, la risposta a una domanda che ormai è diventata comune, e cioè come si è arrivati a questo livello di classe dirigente, è già in quelle immagini.

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Alberto di Prussia (1809-1872), era figlio del re Federico Guglielmo III e della popolare Luisa di Prussia, il “miglior ministro di Prussia” stando al giudizio sulla regina attribuito a Napoleone.

Alberto, nel 1830, sposò Marianna di Orange-Nassau, sua prima cugina. Dal matrimonio nacquero cinque figli.  Sennonché il giardino del palazzo di Alberto confinava con quello del ministro della Guerra, nella cui residenza abitava anche sua figlia, Rosalia von Rauch, damigella d’onore della principessa Marianna, moglie di Alberto.

Marianna ovviamente non prese bene la liaison che s’era stabilita tra suo marito e la damigella, tanto più che questi si separò da lei e sposò Rosalia. Il pio Federico Guglielmo IV, re di Prussia, bandì da Berlino il fratello minore Alberto, che con la nuova moglie si stabilì a Dresda, dove si fece costruire l’Albrechtsburg (non proprio una villetta), e ottenne alcuni anni dopo, dal duca di Sassonia-Meiningen, per la moglie e i figli il titolo di contessa e di conti di Hohenau.

Sennonché Marianna decise di prendersi una vacanza in Italia. Al suo séguito portò una virtuosa dama di corte, un dignitoso ciambellano e un lacchè, raccomandatogli come fidatissimo. Il viaggio si svolse dapprima assai bene; il ciambellano riferiva al gran maresciallo di corte, a Berlino, che la principessa incantava gli italiani con la sua amabilità. Poco dopo riferiva che sua altezza reale era sempre d’eccellente umore, che sembrava contenta di tutto il suo séguito, ma apprezzava particolarmente i servigi dell’esimio lacchè. Tali servigi, e il garbo del lacchè, furono ancora citati con lode, sicché improvvisamente giunse a Berlino la costernata notizia che la principessa aveva ordinato che il suo servitore sedesse alla sua mensa mattina e sera. La principessa Marianna sposò più tardi il suo favorito, Johannes van Rossum, il quale era già sposato con Catharina Wilhelmina Keijzer, dalla quale non divorziò. Dal legame tra Marianna e Johannes nacque, a Cefalù, nel 1849, il loro unico figlio, Johannes Willem van Reinhartshausen, che morì a 12 anni.

Marianna, in vecchiaia, esibiva un’alterigia bigotta nel giudicare senza riguardo ogni mésaliance di case principesche. Evidentemente non aveva bisogno di nessun speciale ammaestramento nell’arte del dimenticare.


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Come cuciniere non metto in dubbio che il sig. Vissani abbia capacità, ma in geografia è da bocciatura piena. L’Olanda è solo una (anzi due: settentrionale e meridionale) delle 12 province dei Paesi Bassi. Per la politica estera le province olandesi fanno capo ai Paesi Bassi, membri della UE. I Paesi Bassi hanno una superficie cinque volte l’Umbria e circa 20 volte gli abitanti della nostra regione.

(Vale anche per l’attuale ministro degli Esteri)

martedì 9 giugno 2020

Meglio mille volte la Merkel


Nel giugno del 1940, tutti, dalla monarchia alle classi dirigenti, dalla stampa al popolo minuto, ritenevano che la partita forse ormai chiusa a favore della Germania. Caduta la Francia, all’Inghilterra non restava che la trattativa. Perfino autorevoli esponenti del governo inglese e gran parte della classe dirigente britannica, era convinta di ciò.

Non deve dunque stupire che all’oscillante Mussolini, che peraltro senza l’avallo del trono nulla poteva, si presentasse l’occasione per fare ciò che Sonnino e Salandra fecero nella primavera del 1915 con il patto di Londra. Questa volta non per rompere l’alleanza coi tedeschi e farne una nuova, ma per confermare la parola data e solennemente sottoscritta.

Del resto ad Est la situazione era sicura, tanto che il precedente 1° maggio la stampa sovietica come solito si era scagliata contro l’imperialismo, ma straordinariamente non aveva fatto nemmeno cenno al fascismo. I governi di Francia e Inghilterra non avevano dichiarato guerra all’Urss per aver invaso la Polonia. Non erano stupidi. Quanto agli Stati Uniti d’America, essi erano lontani e presi dai loro problemi.

Mussolini già immaginava i vantaggi che, con un’entrata in una guerra già vinta dai tedeschi, potevano derivare all’Italia e dunque al suo personale regime con qualche schioppettata sulle Alpi al confine francese. Gli andò male il bluff, e questo lo sappiamo col senno di poi, altrimenti non si conterebbero oggi le piazze intestate a suo nome e i monumenti elevati a sua imperitura gloria, anche se poi l’Italia sarebbe stata vassalla della Germania.

Meglio mille volte la Merkel di Hitler e la sua banda, e ciò significa prendere coscienza che l’Italia non potrà mai avere quel ruolo in Europa al quale aspira da più di un secolo. Più che mai anche a causa della sua classe dirigente e di una Francia che non le sarà mai amica, per tacere delle punzecchiature della piccola Austria e della Croazia ipernazionalista.