Ogni anno finisce e inizia allo stesso modo, come un giorno senza fine. Quasi tutti mangiamo e beviamo per dieci giorni come reduci da una carestia bibilica, dicendoci che questo era l’ultimo traguardo dell’anno, superato alla grande, salvo una gastroenterite come al mio amico Ale, che l’ha addebitata allo stress lavorativo.
Insomma, siamo già stanchi dei pasti festivi, di elaborati menù, di film demenziali, di Covid e tamponi, vaccinazioni e richiami, di un virus raccontato sempre più come la caricatura di una malattia seria, e poi sfiniti dalle candidature al Quirinale (sarà il drago a essere ucciso dal cavaliere, oppure a vincere sarà una batracia?).
La preoccupazione principale per la maggioranza delle famiglie sarà quella solita, mentre quella delle signore bene (non sempre bene per gli altri) sarà di trovare personale domestico con referenze adeguate, e quella dei loro mariti di procurarsi merce per il naso e dame delle camelie per il letto.
Ritualmente ci chiediamo se il nuovo anno sarà noioso come quello che si chiude, se ci saranno abbastanza guerre, attentati e sofferenze per alimentare ininterrottamente per un anno le pagine delle gazzette e dei telegiornali. La produzione di comunicazione è una professione che dipende molto dai suoi fornitori.
Non diversamente dai produttori di cereali che dipendono dai prezzi del grano sul mercato internazionale, l’informazione giornalistica (quel che ne resta) dipende dalla produzione globale di “eventi” e dagli interessi delle parti in gioco. Tuttavia gli amanti dell’inchiostro e della carta sono sempre di meno e non basta incolpare internet.
Passiamo agli esteri.