Ai capitalisti e affini non importa nulla delle nostre vite. Interessa la continuità e
l’estensione di quelle che chiamano “catene del valore”, ossia le catene alle quali sono costretti i loro schiavi. Al di fuori del rapporto di scambio e di sfruttamento, ogni costo
diventa per loro improduttivo, irrazionale e, dunque, assolutamente privo d’interesse.
Chi sostiene che si possa ridurre la legge del profitto entro confini positivi, piegarla a ragioni morali ed etiche, è l’ideologo che vuole annullare i suoi sensi di colpa a fronte di una condizione reale e garantirsi emolumenti e gratitudine da parte dei suoi padroni.
Perché mai il singolo capitalista che è tutto dedito alla ricerca scientifica del massimo
plusvalore estraibile della forza-lavoro acquistata e dalla sua massima realizzazione sul
mercato, dovrebbe sprecare tempo e denaro per risolvere i problemi che affliggono quei
gruppi sociali – come i vecchi, i bambini, i portatori di handicap, i marginali di ogni genere
– incapaci di valorizzare in una sia pur minima misura il suo capitale?
Questi gruppi sociali, che consumano senza produrre e senza contribuire in alcun modo
all’organizzazione e alla conservazione del valore, potrebbero senza alcun inconveniente,
per ciascun singolo capitalista, essere tranquillamente soppressi. Il ragionamento può
essere spinto fino al suo estremo limite (l’eugenetica non fu solo teorizzazione e pratica
nazista), restando vero anche in rapporto a tutti i capitalisti nel loro insieme.
Tutto questo, normalmente, non avviene, almeno in forma esplicita e diretta. Ciò non si
spiega con un sussulto umanitario dei capitalisti e di chi detiene il potere politico, ma con
il fatto che se da un lato lo Stato deve affermare le condizioni di valorizzazione dei singoli
capitali, dall’altro esso è costretto a tener conto degli interessi contrastanti di tutte le altre
classi sociali, strati e ceti, che più sono forti e più vi si oppongono e lo impediscono (*).
Se è vero che il capitale è interessato alla propria riproduzione e alla reintegrabilità della
forza-lavoro e non si preoccupa della riproduzione degli individui concreti, tuttavia è vero
anche l’opposto, ossia classi e gruppi sociali possono innescare movimenti con sembianze
politiche, di opinione, religiose, in grado di forzare l’orientamento dello Stato e d’imporre
alcuni dei loro interessi particolari in forma generale di legge.
I costi che lo Stato sopporta per i servizi sociali, per l’assistenza, così come quelli per
mantenere i suoi smisurati apparati repressivi e di controllo, non sono produttivi, e però
costituiscono una necessità storica alla quale il capitale non può sfuggire, e però nemmeno
vi soggiace senza contrastarli in forme occulte o, quando la situazione lo permette, anche
aperte.
Nella nostra epoca, in parallelo, alcuni settori economici, non certo marginali, hanno
interesse a promuovere la spesa sanitaria e assistenziale, privata e pubblica, e non sono
tenuti ad avere interesse se tale spesa apporta un effettivo o solo fittizio contributo in
termini di salute, benessere e qualità della vita, quindi se i prodotti che vendono
rappresentano un surplus di spreco.
L’inutilità lucrativa incoraggia a produrre ciò che si può vendere e risponde alla
razionalità del capitale, così come il marketing di altri settori dell’industria promuove il
consumo di prodotti, magari avvolti in confezioni di prestigio, che hanno o possono avere
un forte impatto sugli stili di vita e i comportamenti individuali che danneggiano la salute.