venerdì 27 ottobre 2017

Meglio un bonus



La cosiddetta “speranza di vita” non è uguale per tutti, non per maschi e femmine, non per tipologie di lavoro, non per classi sociali e di reddito. L’adeguamento dell’età per andare in pensione connesso alla “speranza di vita”, sulla base dei dati Istat, è stato introdotto dal governo B. e dall’allora ministro Sacconi, ex socialista. Oggi Sacconi recita la parte del pentito, vorrebbe cioè un adeguamento meno automatico. Poletti, l’ineffabile, ha sostenuto che la legge è legge e va applicata. Altri, come il ministro Martina, guardano preoccupati alle elezioni e all’effetto che tale adeguamento, che scatterà dal 2019, potrà avere sul voto nel 2018. A questo quesito si può rispondere anche senza la classica sfera di cristallo: il Pd è un partito in via di estinzione.

Poi ci sono quelli che non sanno nulla ma che di quel nulla sanno tutto e scrivono ogni giorno cose che a loro sembrano senz’altro di buon senso: l’adeguamento è necessario per non far sballare i conti della previdenza. Si tratta sempre di soggetti che non hanno mai lavorato realmente in tutta la loro vita, i cui contributi previdenziali non sono altro che una partita di giro: ossia gente che percepisce un reddito e non ha mai prodotto un’acca di ricchezza. In prevalenza sono ideologi ufficiali e ufficiosi del sistema: giornalisti, speculatori, professori della minchia, politici, gentaglia. Non parlano mai di sfruttati e di sfruttatori, sono delle nullità umane amanti della libertà, soprattutto quella di succhiare il sangue a chi lavora.

I più astuti corifei del sistema se ne vengono a dire che il problema non sono le pensioni bensì il lavoro. Si dimenticano però di chiarire quale sia l’origine del “problema”. È vero che la tecnologia è diventata la sovrana effettiva del processo lavorativo, ma è proprio entro tale processo che va colta la contraddizione da cui sorge il “problema” del lavoro, il quale è tutto interno alle forme di sfruttamento capitalistico del lavoro. Una rimodulazione e razionalizzazione del lavoro (nelle attività produttive e nei servizi: primo, lavorare tutti e lavorare meno) è possibile solo superando il “motivo” capitalistico e le contraddizioni entro le quali esso si muove e sviluppa.

Lo stesso vale per il “problema” demografico. Solo una società sclerotica retta da burocrati dementi può vedere un “problema” nell’allungamento della speranza di vita. Lo sfruttamento della forza-lavoro per decenni e gli stili di vita imposti dal “motivo” capitalistico non possono che avere effetti devastanti sulle condizioni di salute del proletariato, per quanto i nuovi ritrovati farmacologici possano prolungarne la sopravvivenza. In tale contesto, l’anziano diventa solo un peso e un costo, e non già, come potrebbe, un’importante risorsa sociale.

Allo stesso modo va considerata la disoccupazione di massa e la precarietà strutturale del lavoro, l’incertezza sul futuro, tutti fattori che non favoriscono certo la natalità. Stesso discorso per quanto riguarda la povertà, vecchia e nuova. Aumentano le disuguaglianze, ma per questi riformisti d’accatto è sempre meglio un bonus alla miseria perché costa di meno di un diritto. Insomma, promettere rimedi a questi problemi è l’arte della politica cialtrona, la quale si guarda bene da porre i problemi nelle loro reali cause e dunque nella giusta dimensione e prospettiva.

martedì 24 ottobre 2017

« Chi ha scatenato questa guerra merita di morire »


 «La verità non sarà mai saputa veramente;
da che parte il diritto, nemmeno;
da che parte la giustizia, meno ancora:
dove ci sono passioni non c’è nulla di quelle tre cose»
 (A. Gatti, Un italiano a Versailles, p. 283).

Versailles, seconda decade dicembre 1917. Nella villa Béthune, un magnifico palazzo costruito da pochi anni nell’omonima via appena fuori città, si serve la prima colazione. Il Generale, come già faceva nella sede di Udine, vi provvede con caffellatte e biscotti.

Dopo colazione, dalle otto e mezzo fino alle nove, il Generale esce a passeggio, accompagnato dal suo ufficiale d’ordinanza. Con passo pesante, il bastone, i capelli bianchi ed il lungo cappottone che svolazza e s’attorciglia alle gambe. Alle nove in punto, seguito dai suoi ufficiali, si avvia verso l’albergo Trianon, sede il Consiglio di guerra interalleato.

È molto meticoloso il Generale, spacca il minuto, un maniaco della puntualità, dell’esattezza. Di là a qualche giorno, nel mezzo di un’importantissima discussione del Consiglio di guerra, cominciò ad innervosirsi, a muoversi, e disse rivolto ai presenti: «Sono già le dodici, che cosa stiamo a fare? Mi fanno ritardare la colazione!».

È nevicato copiosamente, il vento spazza le strade e gli amplissimi viali sotto un cielo terso. La piccola città è tranquilla, raccolta e pensosa. Soltanto nella piazza del mercato e nei vecchi quartieri di via della Passione o di Saint-Pierre, la vita pulsa un po’ più freneticamente.

[...]



E anche Giuseppe Pinelli.

lunedì 23 ottobre 2017

Non lo faranno



Eh, il figlio del poliziotto può titolare come vuole, resta che un risultato così non se l’aspettavano. Per il Veneto. Il caso Lombardia è diverso. Del resto non possiamo credere che, tanto per citare, amici e parenti dei Barbaro e  Papalia, dei Bruzzaniti-Morabito-Palamara e dei Pizzata, ma anche dei Modaffieri-Mondella, dei Di Giovine e dei Manno-Maiolo, così come i Mazzaferro e gli Iamonte-Moscato di Melito, quindi gli Arena e i Farao-Greco, vadano a votare per un referendum come quello di ieri.

Vale forse la pena ricordare il plebiscito di domenica 21 e lunedì 22 ottobre 1866, ossia il plebiscito truffa. Il Veneto, il Friuli centro-occidentale e la provincia di Mantova, fino a venerdì 19 ottobre appartenevano all’Austria. Il 20 ottobre, in base a un  Trattato, erano diventati francesi. Lo stesso 20 ottobre, il governo piemontese pubblicò sulla Gazzetta Ufficiale il decreto del 7 ottobre per il plebiscito!! Il mattino successivo fu possibile votare consegnando un qualsiasi foglio contenente il testo del quesito, aggiungendo Sì oppure No. Coloro che avevano diritto al voto, in quanto maschi di età maggiore di 21 anni, costituivano circa il 28% della popolazione residente. Votarono soggetti che non ne avevano titolo, come i soldati italiani di stanza in Veneto, ad esempio, e, soprattutto, i dati resi noti non corrispondevano ai voti reali. I favorevoli risultarono il  99,9%, smentendo anche l’errore statistico. Andò come nel plebiscito siciliano del quale ci racconta con ironia Tomasi di Lampedusa.

Il plebiscito, che nemmeno i Savoia volevano, serviva a sancire una situazione di fatto, dettata da accordi diplomatici. Ma da qui a dire che fu la volontà del popolo a sancire l’unione del Veneto al Regno sabaudo-massonico ce ne passa.

*

Con il referendum di ieri non cambierà nulla, solo giochi di potere. E però una questione già aperta si presenta ora in modo molto netto e legale, in faccia a chi l’ha snobbata e continuerà a sottovalutarla.


Sia chiaro: noi veneti, nella quasi totalità, siamo e ci sentiamo italiani (che altro, sennò? per quanto personalmente aspiri al superamento degli Stati nazionali), al pari e forse più di altri. Ma non ci sentiamo di dover sacrificare la nostra specifica identità, la nostra millenaria lingua e cultura sull'altare della statualità italiana ed eurocratica. Poi c'è la questione degli schei, certo, ma la questione è aperta sopratutto a causa della putrefazione di quella stessa inefficiente e prevaricante statualità. Prima che la questione degeneri strumentalmente, come sta accadendo in Spagna, sarebbe il caso di prendere in considerazione la questione per ciò che essa effettivamente rappresenta. Non lo faranno.

domenica 22 ottobre 2017

Le scatole piene



Leggendo l’editoriale odierno di Eugenio Scalfari – nonostante tutto fa sempre tendenza nel mercato delle false coscienze – c’è da chiedersi (è vero, non da oggi) di quale società vada cianciando il padre Fondatore. Dove mai l’ha vista, Scalfari, quella “politica che persegua il bene comune in tutti i suoi aspetti, che non sono soltanto quelli economici e sociali, ma si compendiano appunto nella libertà e nell'eguaglianza, entrambe tutelate da appositi organi istituzionali”. Di quale politica sta parlando, di quale paese vaneggia Scalfari?

Si rende conto il pater patriæ che solo al Ministero dello sviluppo economico nel registro dei lobbisti sono iscritti quasi 950 soggetti? E questi soggetti di chi mai faranno gli interessi, quelli del “bene comune in tutti i suoi aspetti”? Di quale eguaglianza stiamo parlando, quella dei soggetti abbienti di poter ottenere detrazioni al 36% e fino a 5mila euro per abbellire il proprio giardino, e ciò a spese dei soliti noti che le tasse se le vedono imporre alla fonte tutti i mesi?

L’unica cosa decente che aveva in animo l’attuale bischero governo era l’imposta del 2% (una miseria) sulle polizze vita, senza peraltro intaccare le donazioni e le successioni che godono di ampia franchigia e di un’imposizione ridicola (facciamo come la Germania, o la Francia, per una volta!!). E invece nulla. Di quale uguaglianza parliamo?  La politica dei tagli orizzontali in materia di sanità, istruzione e servizi che getta sulle famiglie tutto il peso della crisi fiscale dello Stato e lascia intonsi gli enormi profitti industriali e finanziari, così come le rendite? La politica che consente l’utilizzo dei soggetti socialmente più deboli quali ammortizzatori gratuiti, come nel caso di quel pasticcio inverecondo del “scuola-lavoro”, fatto su misura non per gli studenti ma per gli sfruttatori seriali?


In una società sempre più classista, retriva e conservatrice come l’attuale, dove assistiamo da decenni a un’involuzione storica profonda e radicale, è conseguenza inevitabile che la gente ne abbia le scatole piene (eufemismo) di questa politica cialtrona e dei suoi corifei. E dunque al prossimo scossone finanziario l’attuale cosiddetto populismo apparirà come cosa del tutto fisiologica e riassorbibile dal sistema. E invece no, il punto di rottura in tale frangente sarà raggiunto e non è dato sapere a quale grande casino darà luogo.

mercoledì 18 ottobre 2017

Sulla "civilissima America"



Propongo per chi ne avesse voglia la lettura di questo articolo, segnalatomi da un amico, una recensione di un libro. La cosa che personalmente mi ha più sorpreso non è stata il riassunto della descrizione delle condizione dei poveri negli Usa, ma che il recensore ammetta: «La realtà dei poveri, una realtà che ben conosco a livello italiano ma che mai più immaginavo raggiungesse certi livelli nella “civilissima” America».

Questa affermazione denuncia da un lato lo stato di disinformazione generale sulla situazione sociale degli Stati Uniti, il sistematico silenzio e la diuturna manipolazione mediatica di quella realtà, e, dall’altro, la persistenza dello stereotipo sulla  “civilissima America”.

Eppure ci vuole poco, specie per un giornalista, per rompere il velo di omertà e menzogna su un paese, gli Usa, dove la maggior parte delle persone è costretta a una vita di merda. Nel mio piccolo, microscopico blog, per esempio, ho parlato più e più volte della situazione dei poveri americani, del fatto che quasi 50 milioni di cittadini di quel paese sopravvivono grazie agli aiuti alimentari federali (food stamps); al fatto che gli Usa hanno di gran lunga la più alta percentuale sia relativa che assoluta di carcerati e di persone sotto sorveglianza domiciliare. Insomma che gli Usa sono un postaccio, salvo che per i ricchi e i molto ricchi.


martedì 17 ottobre 2017

L'11 settembre di Das Kapital / 2

[clicca qui per la prima parte]


Che gli esiliati tedeschi fossero “attenzionati” dagli sbirri bismarkiani è cosa ovvia e già ne ho fatto cenno nel post precedente. Ad ogni modo, dopo quattro giorni trascorsi presso l’hotel Zingg ad Amburgo, la trasferta ad Hannover di Marx non ebbe problemi. Fu ospite del dottor Ludwig Kugelmann, «un medico molto importante nella sua specialità, cioè come ginecologo. […] le altre autorità mediche […] sono in corrispondenza con lui. Qui, quando si presenta un caso difficile in questo ramo, viene subito chiamato lui a consulto. Per farmi intendere l’avidità professionale e la stupidaggine locale, mi racconta d’essere stato dapprima bocciato, cioè non accolto nella società medica, perché la ginecologia non è che una “porcheria immorale”. Kugelmann ha molta capacità tecnica. Ha scoperto una quantità di nuovi strumenti in questa specialità. […] Molte volte m’annoia col suo entusiasmo, in contraddizione con la sua calma quale medico. Ma egli capisce, è profondamente onesto, senza riguardi per nessuno e capace di sacrifici e, ciò che è la cosa più importante, convinto. Possiede una raccolta di lavori nostri migliore di quella di noi due presi insieme» (*).


lunedì 16 ottobre 2017

L'11 settembre di Das Kapital / 1


Il primo libro de Il Capitale: Critica dell’economia politica, è stato pubblicato nel 1867, ossia giusti 150 anni or sono. Dell’anniversario di questa pubblicazione non se ne sono occupati in molti, anzi, quasi nessuno. Ed è un bene, poiché il più delle volte di Marx e della sua opera si scrivono banalità, infamie e cazzate. Karl Marx è sicuramente l’uomo più calunniato di sempre. La sua opera principale, unitamente a L’origine delle specie, sono tra le opere più citate e meno lette. Per un primo semplice motivo: tutti credono di sapere di che cosa si tratti. Nel caso del Capitale non di rado si sente dire che non vale la pena leggerlo.

Un esempio. Horold Wilson, il primo ministro britannico, si vantava di non averlo mai letto: “Sono arrivato solo alla seconda pagina, dove c’è una nota che prende quasi una pagina intera. Ho pensato che due frasi di testo e una pagina di note fossero troppo”. Inutile dire che l’unica nota un po’ lunga si trova a conclusione del primo capitolo, aggiunta alla seconda edizione. Invece è proprio curioso il caso de L’origine delle specie, laddove Darwin già al termine della prima pagina presenta una nota analoga, per lunghezza, a quella che si trova alla fine del primo capitolo del Capitale, e un’altra nota abbastanza lunga al termine della seconda pagina. E tuttavia possiamo giudicare il valore di un’opera scientifica su questo stupido genere di considerazioni?

sabato 14 ottobre 2017

La vera questione


Il vero problema politico che ci troviamo a dover affrontare in questo secolo non è la forza del capitalismo, la cui crisi generale, storica, è sotto gli occhi di tutti. La vera questione è la debolezza dell’alternativa, cioè la mancanza di proposta di ciò che deve e può significare una società improntata a principi e valori diversi da quelli attuali, quelli di una società voluta e non subita.

Detto tra parentesi, che pena vedere com’è ridotta quella che passa per essere la sinistra in Italia. Dai liberali Bersani-D’Alema agli anticapitalisti passando per quella merda di uomo che si atteggiava a ecumenico leader della sinistra. Pronti alla lotta per raggranellare qualche seggio in parlamento.

Alla luce dell’esperienza del Novecento il comunismo rappresenta un sistema che tutti temono. Hai voglia a dire e argomentare che quei regimi non erano per nulla ciò che proclamavano di essere. Le persone comuni di quelle ripetute esperienze hanno paura. Tanto è vero che questa parola è stata espunta e sostituita, quando va bene, dal più neutro e generico “anticapitalismo”. Che cosa vorrà mai dire essere anticapitalisti in un’epoca nella quale lo sono anche quelli di CasaPound e papa Bergoglio?

Non ci siamo posti il problema, di là delle ricette della vecchia scuola, di ciò che vogliamo veramente, di che cosa intendiamo concretamente e realisticamente per liberazione degli uomini e superamento del capitalismo. Questo limite è la ragione essenziale per cui non riusciamo a fare dei passi in avanti, per cui ci perdiamo in polemiche e non riusciamo ad avere alcuna proposta condivisa e un ruolo. Finché staremo fermi sulle solite posizioni siamo destinati alla divisione e alla sconfitta.



venerdì 13 ottobre 2017

Non basta baciare la reliquia

Salvo sorprese al Senato, la legge elettorale con la quale andare al voto si chiamerà rosatellum. Se poi, uscendo dal seggio, vi sentirete un po’ coglioni, in tal caso non abbiate dubbi, vi avranno coglionato ancora una volta. Tanto, direte, se non si va a votare faranno ugualmente ciò che vogliono. Bravi, continuate a raccontarvi storielle consolatorie.

Scriveva Luciano Canfora che il sistema è dominato da “un’oligarchia dinamica incentrata sulle grandi ricchezze ma capace di costruire il consenso e farsi legittimare elettoralmente tenendo sotto controllo i meccanismi elettorali” (La democrazia, p. 331). Non si riferiva alla Grecia antica, ma al sistema attuale, non molto dissimile da quelli di sempre.

Nel 2013, scrissi a mia volta (si parva licet) che Grillo e la sua armata Brancaleone avevano perso un’occasione storica rifiutando anche solo il tentativo di un accordo minimo con il Pd di Bersani. Volevano tutto, non hanno avuto nulla. Volevano fare una rivoluzione in parlamento. Quando mai si sono viste cose del genere in simile consesso? Non basta l’ambizione, ci vuole anche un certo talento, un minimo di cultura e di duttilità, un po’ meno vaghezza e pressapochismo.

Del resto questi ragazzotti non dovevano prefigurare una società a venire, quanto obbedire alla fortissima intimazione dall’hic et nunc storico-sociale. Non basta più baciare la reliquia, oggi come ieri contano ben altre credenziali, soprattutto internazionali. Insomma, il vero potere, l’oligarchia dei soldi, degli affari e delle rendite, accetterebbe un governo che non può totalmente controllare e ricattare?



mercoledì 11 ottobre 2017

Il divide et impera di sempre



La borghesia, e la parte degli intellettuali che ne dipende, non frappone apertamente alcun ostacolo alla diffusione del sapere tra le masse popolari, anzi, a volte sembra addirittura premere per una “popolarizzazione” della scienza. Eppure i livelli più alti, più specifici del sapere-potere, quelli che presiedono alla direzione scientifica dell’economia e quelli specialistici del controllo sociale (alti funzionari degli apparati, giornalisti grandi firme e birilli vari), rimangono monopolio di pochi prescelti, rimangono “sacri misteri”.

La comprensione delle idee fondamentali e dei sistemi di gestione viene resa enormemente difficoltosa attraverso l’uso di astrazioni e tecnicismi, inusuali presso le anime comuni. È sicuro che per acquisire queste conoscenze precise e specifiche, e non soltanto briciole volgarizzate di esse, bisogna poter disporre di molto tempo e denaro, in modo da potersi permettere di vivere senza lavorare per diversi anni. Condizioni che sono tutte, evidentemente, proibitive per le masse popolari (*).


martedì 10 ottobre 2017

Sacri misteri / 1


Cinque anni fa, esattamente il 22 ottobre, scrivevo il post che ora qui sotto ripropongo con lievi tagli. Corsi e ricorsi della “behavioural economics” et simila, in un mondo che è sempre più corroso dalla schizofrenia e dall’opportunismo. Del resto sono quasi due secoli che l’economia politica non indaga più la realtà ma si limita a descrivere le ombre proiettate sul fondo della caverna. Perché ciò avvenga è presto detto: almeno a livello ufficiale dev’essere mantenuto il silenzio sul segreto della società borghese, ossia sul fatto che essa, sotto qualunque bandiera, è una società che poggia sulla schiavitù.

*

Dopo che l’utopia neoclassica dell’equilibrio perfetto si dimostrò per quel che era, iniziarono a farsi strada, presso gli apologeti del capitalismo J.A. Schumpeter e W.C. Mitchell, i primi abbozzi di una “teoria dei cicli” che altro non era che una presa d’atto della natura ciclica del capitalismo. La crisi generale del 1929, infine, con la sua sconvolgente drammaticità, rendeva necessaria una nuova teoria tale da spiegare ciò che stava avvenendo e proponendo a sua volta dei rimedi.

Ad assumersi il compito teorico di tranquillizzare la borghesia offrendole in pasto nuove idiozie, provvide Y.M. Keynes, uno del pensatoio di Cambridge, con la sua Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, pubblicata nel 1935. Tale teoria rappresenterà, per parecchi decenni, una specie di catechismo negli atenei occidentali e una nuova religione per i saltafossi del riformismo che con essa potranno beatificare il capitalismo.

lunedì 9 ottobre 2017

Il giornalista e il robot



Pierre Guillaume Frédéric Le Play (1806-1882), ingegnere, sociologo ed economista, una volta chiese al suo uditorio quale fosse la cosa più importante generata dalla miniera. L’uditorio di Le Play rispose: “il carbone”, oppure “il ferro”, e anche “l’oro”. Le Play non ebbe difficoltà a rispondere che la miniera aveva generato anzitutto “il minatore”. Sarebbe interessante chiedere oggi che cosa stia generando la cosiddetta industria 4.0. Gli uomini, e il loro lavoro, tanto efficienti in un ambiente tecnicamente immaturo, oggi non sono più al centro di nulla. Sono stati man mano sostituiti dalla tecnologia, sebbene certe attività, soprattutto le più umili e faticose, restino ancora appannaggio del lavoro umano.

Del resto, lo scopo della tecnologia industriale, quando è usata capitalisticamente, non è quello di alleviare la fatica umana. Come ogni altro sviluppo della forza produttiva del lavoro, l’innovazione tecnologica e tecnica punta a ridurre le merci più a buon mercato, ossia ed abbreviare quella parte della giornata lavorativa che l’operaio usa per se stesso, per prolungare quell’altra parte della giornata lavorativa, che l’operaio cede gratuitamente al capitalista, quale mezzo per la produzione di plusvalore.

Storicamente si possono studiare i differenti modi di produzione in base ai differenti mezzi di produzione, perciò il nesso fra i rapporti sociali di produzione e quei modi di produzione. Ed è interessante notare quali sconvolgimenti si sono prodotti, di volta in volta, nei rapporti sociali di produzione con il mutamento dei differenti mezzi di produzione.

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venerdì 6 ottobre 2017

Cinque secoli dopo



Nella questione catalana, e di altri nazionalismi solo assopiti, quanto conta il fallimento dell’Europa? È questa, credo, la domanda da cui partire nell’esame di questa disputa tra due nazionalismi. Dopo oltre mezzo secolo di “costruzione” europea ci troviamo un’Europa della falsa coscienza (vedi la questione migranti), del business e dello shopping, del consumo e della rinuncia, dei troppo ricchi e dei molti senza speranza (anche in Germania). L’Europa di Ventotène appartiene ai sogni del passato.

Un’Europa unita ancora non esiste e non sarà mai fino a quando prevarranno gli interessi delle singole nazioni, degli agglomerati capitalistici. Un esempio, per quanto banale, è dato dall’articolo del Welt a proposito dell’accordo italo francese tra STX e Fincantieri. La preoccupazione tedesca per le sorti della propria cantieristica navale, alla luce di tale accordo, è normale nella competizione capitalistica e nella logica degli Stati nazionali (il 90% del commercio mondiale avviene via mare). Scandalizzarsi di questo fatto, così come di altri, penso alle banche, è semplicemente puerile. Se si leggono le Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, si possono cogliere grossomodo le stesse preoccupazioni e il medesimo respiro della contesa economica. Cinque secoli dopo.

Di quale “casa comune” stiamo parlando? Di quale parlamento europeo? È l’unica istituzione dell’UE eletta direttamente dal popolo, ma di poteri reali non ne ha manco l’ombra. Infatti, non esercita alcun potere legislativo, il quale resta nelle mani dell’esecutivo, in concreto in quelle della Commissione europea e del Consiglio europeo (composto dai capi di Stato o di governo): la prima propone il testo di legge, il secondo lo approva o respinge; il Parlamento ha il solo potere di emettere un parere non vincolante (*). Chiaro che una regione ricca ed evoluta come la Catalogna cerchi per sé posto nella Commissione e nel Consiglio europei.

giovedì 5 ottobre 2017

American way



Un po’ più di vent’anni fa guardavo insospettabili professionisti esibirsi in balli country e mi chiedevo come potesse piacere quella roba lì. Credo non vi siano testi di canzoni più insulsi di quelli, neanche certe canzonette sanremesi. Non parliamo poi di quella musica, che in quasi tutti gli Usa ti accompagna ossessivamente in ogni luogo e in ogni orario. Non era comunque un motivo valido per ammazzarne 59 e ferirne mezzo migliaio al Route 91 Harvest country music festival.

La tragedia di Las Vegas ha rovinato migliaia di vite. Non basta cavarsela dicendo che Paddock era "un uomo malato, un demente”. Troppo spesso negli Usa succedono stragi del genere, troppo facile procurarsi armi micidiali. Per quale motivo dev’essere legale acquistare un’arma che può sparare centinaia di colpi in un minuto? A quanto pare Paddock ha portato nella sua suite, al Mandalay Bay Resort, più di dieci valigie, alcune delle quali contenevano un totale di 23 fucili, 19 pistole e migliaia di munizioni. Nessuno s’è accorto di nulla.

Questa strage fa seguito a quella dell’anno scorso con protagonista Omar Mateen, il quale ha provocato la morte di 49 persone e il ferimento di 58. E prima la strage alla Sandy Hook Elementary School, con 27 morti, trai i quali 20 bambini. E quella alla Columbine High School, ad opera di due studenti che massacrarono 12 alunni e un’insegnate, decine i feriti. La storia americana è punteggiata da questi massacri. A cominciare dalla strage del 1927 alla Bath School, con 45 morti, quasi tutti bambini, e 58 feriti.


domenica 1 ottobre 2017

[...]



La parola comunismo ha subito tali torsioni (per usare un eufemismo) nel corso del Novecento, che essa risulta pressoché inutilizzabile, specie a riguardo delle nuove generazioni che delle temperie del secolo passato hanno, quando va bene, un’idea vaga e piuttosto imprecisa (*).

E però non c’è un termine sostitutivo, poiché la parola comunismo rinvia, piaccia o no, a idee e principi imprescindibili nella lotta contro l’esistente e quale prefigurazione di una società senza classi, di un nuovo mondo dove l’uomo non sia più, o risulti sempre meno, a causa di dati rapporti sociali, homo homini lupus.

Si dirà che si tratta di utopie, di sogni, ma è su tali concrete utopie che possiamo sperare di costruire un nuovo “umanesimo”, vale a dire una società sempre più libera dai vincoli dell’economicismo strabico e che consenta agli esseri umani di vivere e non solo di sopravvivere, in simbiosi con una natura che si prodiga di offrirci risorse quasi senza limiti purché si voglia ripristinarla e affrancarla da ciò che è ora, ossia patrimonio fondiario in funzione del profitto del grande capitale e delle logiche che lo sottendono.