venerdì 11 luglio 2025

Un nemico implacabile li accomuna

 

Ci fu un tempo in cui tutto ciò che nuoceva alla sinistra era considerato di destra e reazionario; oggi, al contrario, tutto ciò che non s’inquadra nella dimensione paesana del sentimento di destra, gode del sospetto nevrotico di essere di “sinistra”.

Eccoci dunque alla polemica sulla cosiddetta egemonia culturale della sinistra. È una delle tante birbonate che ci sta giocando l’odierna realtà, personificata da degli stracciaroli che non si curano nemmeno di simulare un ragionamento. Del resto, il pensiero astratto è il loro debole, mentre la cialtroneria concreta è il loro forte. Importa a costoro solo la conclusione.

Usano l’espressione egemonia culturale di sinistra per descrivere l’influenza della sinistra su cultura, media e istruzione. Potrei dimostrare ampiamente che l’egemonia culturale che prevale in ogni ambito sociale e in sequenza storica è sempre e comunque quella delle classi e dei ceti dominanti. Quello che è prevalso per qualche decennio è un progressismo medio borghese imposto dallo sviluppo economico e dalla fuoriuscita delle masse da un lungo letargo, con qualche momentaneo inserto vagamente marxisteggiante e anticapitalista (*).

L’egemonia culturale di stampo cattolico, per esempio, ha avuto e in parte continua ad avere un ruolo preminente e spazio mediatico più che adeguato. Quanto alla destra fascista (si chiama così, basta con l’ipocrisia), nel frattempo non ha saputo elaborare altro che il proprio risentimento per l’emarginazione in cui si era cacciata in quanto incapace di scrollarsi di dosso il passato missino e darsi una autentica e profonda ripulita ideologica (ci provarono a Fiuggi, ma il risultato è quello riassunto dall’Italico Lecchino in tivvù).

Ciò mi ricorda il giudizio di Galeazzo Ciano a riguardo della gioventù fascista, specie quella del mondo dei GUF (Gruppi universitari fascisti), laddove in un appunto del 24 gennaio del 1942 la definì icasticamente “mutilata, ignorante e scema” (Diario 1937-1943, Rizzoli 1998, p. 583). Chissà cosa direbbe vedendoli e ascoltandoli oggi.

Dunque qual è il senso di questa polemica? Un nemico implacabile accomuna gli infelici reazionari di oggi: l’antipatia per la cultura. I più scafati fascisti del ventennio, oltre che di opportunisti ignoranti e scemi, seppero circondarsi e valorizzare anche dei veri professionisti, personalità di origine o tendenza monarchica, nazionalista o liberale. Costoro, seppur tiepidi nei riguardi del fascismo, raramente si mostrarono ostili al regime, e in buona parte trovarono poi adeguata collocazione nella nomenclatura del dopoguerra grazie al loro talento.

Metti un Moravia, considerato di sinistra. A me non importa, ma riporto ciò che il supplice signor Pincherle scriveva proprio a Galeazzo Ciano:

«Il suo esempio mi ha deciso a compiere un atto che è doveroso da parte mia. Sono stato riformato recentemente al servizio di leva per anchilosi dell’anca destra, e non mi è possibile, perciò, di arruolarmi volontario, come avrei voluto, nel corpo di spedizione per l’Africa Orientale. Resta, tuttavia, vivissimo in me il desiderio di partecipare, in qualche modo, all’impresa africana. [...] ora io vorrei scrivere un libro organico, il quale potesse rimanere documento e testimonianza dell’eroismo della gioventù fascista in guerra». Eccetera.

E questo basterebbe per fare di Moravia un fascista, e come lui altri futuri idoli di sinistra? In tal caso, etichettare serve solo ad assicurare la falsa coscienza di chi si sente inquieto riguardo a sé stesso.

Che senso avrebbe considerare di destra Cèline, Nietzsche, Burke o Tucidide? Oppure Bernanos, Guareschi o anche un Testori? Come se fosse la cultura ad essere ontologicamente reazionaria o progressista, e non l’uso che se ne fa! Basterebbe essere intelligenti per comprenderlo, ma non esageriamo con tale pretesa.

Era necessario un clima becero e oscurantista perché individui come Andreotti e il famigerato procuratore Carmelo Spagnulo potessero perseguire e censurare l’Arialda o Rocco e i suoi fratelli. In mano a tale genìa, e a quella facinorosa di oggi, persino i Manoscritti del ’44 diventerebbero un’opera “sovversiva”, e Ragazzi di vita un libro “osceno”.

Qualcosa è cambiato dal ventennio fascista e dal cinquantennio democristiano, ma è rimasta la medesima impronta: quella di propugnare libertà a Mosca e limitare la libertà a Roma.

(*) Rossana Rossanda, che il PCI lo conobbe bene dell’interno, nella sua autobiografia (La ragazza del secolo scorso) ebbe a scrivere a p. 301: «Il marxismo era, sicuro, una filosofia e se si vuole un umanesimo, ma non si poteva tirare in tutte le direzioni, fin fuori dalla sua origine, nella crudele estraneazione del modo di vivere e produrre nel capitale: né si poteva giocare allegramente Gramsci contro Marx, o addirittura Vico contro Gramsci. Eravamo sempre là, al crocianesimo di ritorno nella formazione del gruppo dirigente comunista.» Scriveva ancora Rossanda, Marx “nessuno lo leggeva”

giovedì 10 luglio 2025

A cena a nostre spese

Mentre la guerra infuria e una qualsiasi trattativa di pace s’allontana, il governo italiano s’è fatto promotore di una benemerita iniziativa per quanto riguarda l’Ucraina: una conferenza sulla ricostruzione dell’Ucraina. Posso già rivelare quale sarà il risultato più tangibile dell’iniziativa: il pranzo di gala. A spese dei contribuenti, cioè di quelli che effettivamente le imposte le pagano davvero e fino all’ultimo fiscal-drag.

L’Ucraina è un paese in bancarotta. Ha poca importanza se il suo debito attuale è “solo” dell’80% del Pil. Con una spesa militare di circa 60 miliardi di dollari, oltre la metà della spesa pubblica e più di un terzo del Pil, il suo destino è segnato per decenni, forse per sempre. Poteva sfruttare le proprie risorse, ricavare dei cospicui aggi sui gasdotti (Putin offrì al governo di Yanukovich uno sconto di 15 miliardi di euro sulla bolletta energetica ucraina), porsi come corridoio commerciale tra Europa e Russia, rendendo possibile un’unione Euroasiatica (con tanta “insoddisfazione” di Washington).

Se nel 2013 l’Ucraina fosse entrata a far parte dell’Unione Economica Eurasiatica (UEE), sarebbe stata il secondo stato membro più grande in termini di popolazione e il terzo in termini di PIL. E invece compare Zelensky, che non è solo un comico e “servitore del popolo”, è anche un piccolo imprenditore che possiede conti offshore nelle Isole Vergini. E qui andrebbero raccontati i suoi rapporti con il suo mentore, l’oligarca Ihor Kolomoisky, che controllava vari settori economici, come compagnie aeree, banche, televisione, metallurgia, petrolchimica e mineraria, ma sarà per un’altra occasione (*).

La Russia di Putin vuole controllare l’Ucraina per usarla come territorio cuscinetto contro l’ostilità dei paesi NATO. È stata la prospettiva di perdere l’Ucraina in questo ruolo (e il controllo del Mar Nero) a spingere Putin a intraprendere una guerra che pensava come una guerra-lampo. D’altra parte, le potenze occidentali hanno usato il pretesto di difendere la sovranità ucraina per perseguire i propri obiettivi nel paese e nei confronti della Russia.

Milioni di sfollati (7 milioni secondo i dati delle Nazioni Unite), decine di migliaia di morti tra i civili, un’intera generazione di giovani mandata al macello. Un disastro umano che peserà per molti decenni. All’Ucraina resta solo una strada per pagare i debiti attuali e futuri: svendere. Liquidare le proprie risorse, cosa che ha già fatto il 30 aprile scorso. Di fatto, questo accordo consente agli Stati Uniti di appropriarsi delle risorse minerarie ucraine senza costi aggiuntivi: (titanio: il 7% delle risorse mondiali si trova nel sottosuolo ucraino; grafite, il 20%; nonché manganese, litio, zirconio e uranio). Schiavizzare il proprio popolo: non è un caso che sul sito ufficiale della conferenza è espressamente indicato l’obiettivo di «affrontare gli eccessi di regolamentazione sui mercati e sul mercato del lavoro».

Che cosa aspettarsi dalla canaglia guerrafondaia e affaristica che provocato colossali distruzioni materiali? Prima vendono armi e crediti, poi passano alla terapia del carciofo. Foglia dopo foglia finché non resta più nulla, neanche gli occhi per piangere.

(*) Tra l’altro, nel 1992, Kolomoisky e Gennady Bogolyubov fondarono Privatbank, che nel giro di pochi anni divenne la più grande banca del Paese, controllando il 33% dei depositi e il 50% delle transazioni all’inizio degli anni 2010. La Banca centrale ucraina dichiarò la banca insolvente nel 2016 e la nazionalizzò. I due fondatori furono accusati di frode per un importo di 5,5 miliardi di dollari, pari al 5% del PIL. Tra il 2013 e il 2016, Privatbank prestò miliardi a società offshore controllate dai co-fondatori.

Quando Zelensky fu eletto nella primavera del 2019, Kolomoisky raccontò ai giornalisti di una conversazione che avrebbe avuto con degli amici: «La gente viene da me in Israele e mi dice: “Congratulazioni! Ben fatto!”. Io rispondo: “Perché? Il mio compleanno è a febbraio”. Loro rispondono: “Chi ha bisogno di un compleanno quando ti sei già dato un Presidente?”.»

«People come to see me in Israel and say, “Congrats! Well done!”. I say, “For what? My birthday’s in February”. They say, “Who needs a birthday when you’ve got a whole president”» (Max Seddon, The bank that holds the key to Ukraine’s future, Financial Times, 17 luglio 2019). 

mercoledì 9 luglio 2025

Questo cambierebbe tutto

Le Monde

Tredici funzionari della direzione dell’amministrazione fiscale francese si sono suicidati da gennaio e altri otto hanno tentato di farlo. Una notizia confermata dalla Direzione Generale delle Finanze Pubbliche (DGFiP), che oggi terrà una riunione sull’argomento. “Si tratta di una situazione che stiamo monitorando, che non credo sia legata a motivi organizzativi, di carico di lavoro o di gestione”, ha dichiarato martedì il ministro dell’Economia Éric Lombard, interrogato sull’argomento davanti alla Commissione Finanze dell’Assemblea Nazionale.

La Francia ha uno dei tassi di suicidio più alti d’Europa. Secondo l’Osservatorio Nazionale del Suicidio (è stato creato nel 2013), il tasso di mortalità per suicidio era di 13,07 ogni 100.000 abitanti nel 2019.

La DGFiP conta 95.000 dipendenti nel 2025. Il tasso di suicidi quest’anno è dello 0,013 per cento nella DGFiP. Pertanto esattamente un tasso nella media nazionale.

Da altre fonti ben informate si apprende che è forte il sospetto che a indurre i funzionari al suicidio siano stati degli agenti di Mosca. E questo cambierebbe tutto.

Non gli basta mai

Per esempio imporre all’umanità modelli di comportamento e di comunicazione che riscrivono i nostri modi di vita e di linguaggio. Chi non ci sta, per qualunque motivo, fosse anche solo per questioni anagrafiche o economiche, ossia indipendenti dalla propria volontà, è messo fuori da quello che un tempo veniva chiamato consorzio umano.

Elon Musk ha appena annunciato che creerà un proprio partito politico, l’America Party. Si propone di guidare lui stesso gli Stati Uniti e dunque di dettare l’agenda a gran parte del mondo. Questa è la sua ambizione. Non è l’ennesimo capriccio di un miliardario, è il nocciolo dell’ideologia liberista più sfrenata, quella di una casta di leader anglosassoni secondo i quali lo Stato deve essere distrutto per permettere ai capi delle multinazionali tecnologiche di governare il mondo.

In pochi decenni, la specie umana si è sottomessa senza la minima protesta ai suoi dettami tecnologici. Non possiamo affermare di lottare per difendere il sistema sanitario, l’istruzione, le pensioni e più in generale i diritti fondamentali senza fare lo stesso contro l’egemonia di queste tecnologie sulle nostre vite.

Le lotte in ambito sociale, economico e culturale sembrerano quelle di un’altra epoca, del XX e XXI secolo. Nessuno si mobilita contro quelli che anche noi chiamiamo gentilmente i “giganti della tecnologia”, che hanno plasmato l’America e il resto del mondo con una violenza sociale senza precedenti.

La perversione di questa macchina infernale che hanno creato è che, per combatterla, bisogna farne parte. Vale a dire, bisogna essere presenti sui social media per denunciare chi li ha creati. Il sistema totalitario perfetto: per combatterlo, bisogna usarlo e quindi alimentarlo. L’estrema destra di tutto il mondo ha compreso il vantaggio di essere attivi su queste reti, che permettono loro di diffondere la loro propaganda in totale impunità.

I fascistoidi hanno subito apprezzato la dimensione dispotica di questo mondo digitale, dove nulla può essere regolamentato o proibito. Lo Stato, che tuttavia detiene il monopolio della coercizione per difendere l’interesse generale, è impotente a controllare alcunché. L’interesse generale non è più difeso da nessuno. I forti schiacciano i deboli, come gli adolescenti spinti al suicidio, vittime di linciaggi sui social network.

Il mondo digitale è una marcia della morte dove i più violenti sopravviveranno e i più fragili verranno schiacciati. Questo è ciò che vogliono imporre al pianeta, cioè a noi, alla nostra esistenza, al nostro pensiero, alla nostra libertà.

“Oggi, il Partito d’America è stato creato per restituirvi la libertà”, ha scritto Musk sul suo social network X. Una frase degna di Orwell (o di Goebbels), in cui le parole dicono il contrario di ciò che significano. Mai la parola “libertà” è stata così oscena come nella bocca di quest’individuo.

Sono gli ingredienti di questa aristocrazia digitale che ha creato e controlla un sistema di dominio tecnologico che schiavizza 8 miliardi di esseri umani. Cosa stiamo aspettando a ribellarci a questa oligarchia? Siamo noi che, usando smartphone e app ogni giorno, alimentiamo l’immenso potere economico e politico degli orchi della tecnologia. Abbiamo nelle nostre mani il potere di disattivare gli strumenti digitali che ci hanno venduto.

Questa mattina devo registrare un atto. Lo posso fare solo per via telematica. Potremmo mai boicottarli? Siamo fregati. Come scrivevo all’inizio di questo blog, ormai più di 15 anni or sono: “Marx ha scritto che ogni epoca si pone solo i problemi che può risolvere, e questo è vero; e oggi siamo giunti precisamente al punto in cui non è più possibile risolverne nessuno senza risolverli tutti”.

lunedì 7 luglio 2025

La guerra di sterminio come programma del sionismo

 

La guerra a Gaza, che è una guerra contro Gaza, continua, in una strategia di invisibilità delle tragedie, della disperazione, dei viaggi individuali nel caos, che è terrificante. I bambini sono onnipresenti, sono il futuro, il significato di ogni cosa, il puro presente, ma per i loro assassini sono diventati bersagli privilegiati.

Non vediamo nulla, non sappiamo quasi nulla, i giornalisti vengono assassinati. Perché? Se sostieni che il sionismo controlla direttamente o indirettamente gran parte dei media, ti becchi l’accusa di antisemitismo. Tale accusa, secondo una retorica consolidata, è diventata il comodo pretesto per opporsi a qualsiasi critica e denuncia contro i crimini in corso a Gaza e in Cisgiordania perpetrati dello Stato ebraico-sionista.

È sufficiente essere ebrei e si diventa intoccabili. Dire a un ministro israeliano di “smettere di uccidere donne e bambini a Gaza” e si viene tacciati di rasentare l’antisemitismo. È successo a Macron, non proprio a uno qualsiasi. Oppure denunciare la politica di apartheid in Cisgiordania e ci si becca la stessa etichetta. Persino il segretario nazionale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ne è stato accusato.

Il noto criminale di Stato, Benjamin Netanyahu, ha definito il procuratore della Corte Penale Internazionale, Karim Khan, come “un grande antisemita moderno”, dopo che Khan aveva richiesto un mandato di arresto per lui e i leader di Hamas per “crimini di guerra”.

L’accusa di antisemitismo è così infame, carica del peso dell’orrore nazista, da soffocare ogni discussione. Ci si sente in trappola. Questa accusa sistematica ci impedisce di riflettere sulla questione del sionismo, sulla sua natura e gli obiettivi dello Stato ebraico.

Il sionismo è l’ideologia dello Stato d’Israele, un’ideologia su base genetica, religiosa e culturale. Israele si proclama Stato di tutti gli ebrei. Ciò vale come se lo Stato di una qualsiasi nazione si proclamasse Stato di tutti coloro che, sparsi per il mondo, hanno anche solo una traccia di ancestrale discendenza dallo stesso ceppo etnico e credo religioso.

Dal momento in cui il progetto sionista prese forma e si immaginò come un “ritorno” alla patria originaria del popolo ebraico, che, contrariamente al mito, non era una terra senza popolo, ma era popolata da un popolo sempre più percepito come una versione moderna delle nazioni di Canaan o, peggio, di Amalek, la nozione di milhemet mitzvah, cioè di guerra di sterminio, venne riattivata (*).

In ogni guerra, dal 1982 ad oggi, i limiti riconosciuti a livello internazionale imposti alla condotta degli eserciti dopo la fine della Seconda guerra mondiale furono gradualmente accantonati dall’IDF, in conformità con il comando di Dio, nel tentativo di liberare la Palestina dai suoi abitanti originari.

Né va trascurato il fatto, che l’eredità europea che gli israeliani rivendicano oggi non solo li separa dagli “arabi” che li circondano, ma serve anche a gerarchizzare le stesse popolazioni ebraiche di Israele (basti pensare ai Falasha) in base alla loro vicinanza alla cultura europea. Inoltre, la cultura europea a cui questa gerarchia si riferisce è decisamente quella dell’Europa occidentale e centrale, piuttosto che la “terra yiddish” dell’Europa orientale, dove viveva la stragrande maggioranza della popolazione ebraica mondiale prima del secondo conflitto.

Questa è una delle non poche contraddizioni del progetto coloniale sionista. La cultura ebraica esistente, in tutta la sua diversità e complessità, fu negata dal sionismo, cioè ridotta a nulla. Doveva nascere una nuova cultura e un nuovo ebreo, spogliati di tutto ciò che, secondo i sionisti, ricordava la presunta debolezza e il parassitismo degli ebrei, persino i loro nomi, fossero essi arabi, ladini o yiddish. Fu attraverso questa trasformazione, intesa come risultato e non come condizione originaria, che l’autentica comunità d’Israele doveva attualizzarsi.

La nuova cultura, tuttavia, si riduce a una protesi originale: la cultura sionista è nuova in virtù del suo ritorno alle glorie della repubblica ebraica istituita da Mosè, residente nella terra che fu promessa da Dio al popolo ebraico, e che costituisce la legittimità invocata oggi dai leader sionisti israeliani, anche laici, quando sono interrogati sulla validità delle loro rivendicazioni sulla Palestina.

Vale la pena ricordare che Netanyahu è stato in grado di dichiarare i suoi obiettivi genocidi davanti alle telecamere (in ebraico, la lingua in cui esprime più liberamente il suo razzismo e le fantasie genocide che genera), ricordando ai soldati dell’IDF, il comando di Dio trasmesso tramite Samuele a Saul riguardo agli Amaleciti, una nazione che cercava di impedire il ritorno degli ebrei nella terra promessa (**).

Questa guerra, che è, ripeto, una guerra contro Gaza e il popolo palestinese, la frequenza delle guerre di Israele dalla sua fondazione, così come il suo rifiuto di offrire una soluzione praticabile ai palestinesi, fanno parte del progetto coloniale sionista.

Nel processo di colonizzazione della Palestina e di costruzione della Grande Israele, il sionismo si è espresso con manifestazioni teoriche e pratiche di pregiudizio contro gli arabi in generale e di odio per i palestinesi, ossia gli abitanti millenari di quella che gli ebrei ritengono essere Eretz Israel. Non è solo il desiderio di vendetta, ancora e sempre insoddisfatto, a muovere Israele.

Secondo il NYT, Il 94% degli ebrei israeliani crede che l’esercito abbia usato “forza adeguata o insufficiente” a Gaza e circa l’88% di tutti gli ebrei israeliani “crede che il numero di palestinesi uccisi o feriti a Gaza sia giustificato dalla guerra”.

Lo Stato d’Israele, con le sue politiche di colonizzazione ed espropriazione sia abusiva che legalizzata ad hoc, perpetrate per decenni, non ha altro scopo evidente se non la distruzione totale della presenza palestinese attraverso una combinazione di violenza genocida contro la popolazione civile e l’espulsione dei sopravvissuti. Lo si denunciava mezzo secolo or sono, i fatti continuano a confermarlo.

Questo stato di cose è il prodotto di un equilibrio di potere globale sempre più favorevole a Israele, che gli ha concesso di fatto un’esenzione dal diritto internazionale, nonostante Israele continui a ricevere dagli Stati Uniti tutti i mezzi più sofisticati di distruzione di massa. Il senso di potere illimitato contro una popolazione palestinese semi-affamata, già prima dell’attuale guerra, si esprime in un messianismo che si realizzerà solo con lo sterminio della popolazione indigena.

Chi straparla di due Stati per due popoli, o è un ignorante o è in malafede. L’unico modo per porre fine alle guerre del sionismo e al suo progetto razzista ed egemonico, è porre fine al sionismo come teoria e come strategia. Tuttavia non si può porre fine al sionismo e ai suoi propositi genocidi se non nell’ambito di un nuovo e radicale equilibrio mondiale. Dunque, solo dopo un altro conflitto mondiale. Ahimè, non vedo altra soluzione.

(*) Fu nel periodo della prima colonizzazione che la destra israeliana (sia religiosa che laica) discusse la questione della guerra, così come trattata nella Torah e nel Talmud, così come nei commentari di Rashi (1040-1105), Maimonide (1138-1204), Nahmanide (1194-1270) e Bahya ben Asher (1255-1340). La questione in discussione era cosa fosse proibito e cosa permesso in guerra, il che portò a una distinzione tra due tipi fondamentali di guerra.

Il primo tipo è la guerra facoltativa (milhemet reshut), in cui è proibito uccidere donne o bambini o distruggere i raccolti e che deve essere preceduta da una proposta di pace respinta dalla parte avversa prima che le ostilità possano iniziare. L’altro tipo di guerra, è la milhemet mitzvah, la guerra obbligatoria comandata da Dio. Queste guerre possono, senza la minima esagerazione, essere considerate guerre di sterminio, in cui tutti gli uomini, le donne e i bambini devono essere uccisi, i loro animali e i raccolti distrutti e persino il ricordo della loro esistenza “cancellato”. Questo non è uno stato di eccezione in cui tutto è permesso. Al contrario, la guerra di sterminio è obbligatoria e, se non viene condotta secondo la lettera del comandamento scritto nella Torah, sarà punita da Dio (Deuteronomio, 20).

(**) Non c’è nulla di nuovo in queste affermazioni; subito dopo la guerra del 1973, il fiorente movimento dei coloni iniziò a conciliare il sionismo laico e quello religioso. Il terrorismo dell’Irgun (1931-1948), laico, e del Lehi (una scissione dell’Irgun del 1940, chiamata Gruppo Stern), prima e durante la Nakba, fu retroattivamente giustificato in termini halakhici, ovvero citando la legge ebraica.

Un tema all’esame di maturità

Provate voi a scrivere qualcosa di ottimistico di questi tempi. La guerra in Ucraina, il riarmo, c’è chi parla di attacchi nucleari come se dovesse far bollire l’acqua per la pasta. In Asia, gli Stati Uniti si stanno preparando contro la Cina, e in Medio Oriente la strage di palestinesi ha raggiungendo un livello di bestialità mai visto prima. Senza dimenticare Hamas, che ben prima del 7 ottobre 2024 uccise e torturò membri del partito Fatah di Yasser Arafat per controllare il territorio a Gaza. Eccetera.

A suo tempo ho scritto per i più giovani: “Preparatevi alla chiamata alle armi”. Ed ecco che qualche anno dopo mi hanno preso in parola. Voi, i coglioni degli anni 2000, se continua così, vista l’atmosfera di merda in Europa e nel mondo, finirete per ritrovarvi in divisa a dire “signorsì” a una lunga teoria di teste di cazzo. Un tempo la si chiamava naja, quella che piace a Crosetto, che rendeva il facile difficile attraverso l’inutile. E più commesse militari per tutti.

Più sei spietato, più sangue hai sulle mani e più il mondo ti cade ai piedi. Già Netanyahu è in risalita nei consensi degli israeliani, come del resto avevo anticipato. Come trucidare una popolazione inerme per una buona e santa ragione, sarà in futuro un tema all’esame di maturità.

Queste persone malate di mente che governano il mondo. Questi media governativi e padronali che ci allarmano se d’estate si suda e d’inverno nevica, di quando in quando, per un paio d’ore sulla “Capitale”! Intanto il Papa ripristina il papato di Leone XIII. 

domenica 6 luglio 2025

I lustrascarpe del capitalismo


Sul crollo di Wall Street del 1929 si raccontano tante storielle quasi tutte inventate, però quasi tutte verosimili. Come quella del celeberrimo lustrascarpe. Joseph Kennedy, personaggio equivoco e poi ambasciatore in odore di filonazismo, padre di un noto puttaniere, raccontava che un mattino del 1929 il suo lustrascarpe rifiutò la mancia, giudicandola troppo misera. “Signore, ieri mattina ho guadagnato 250 dollari in Borsa. Sì tenga pure i suoi 5 cents, non mi servono”. Kennedy fece il seguente ragionamento: “Se il mio lustrascarpe ne sa più di me, c’è qualcosa che non va nel mondo della finanza”. Il giorno stesso liquidò tutto il suo portafoglio azionario.

Va da sé che un lustrascarpe che guadagna 250 dollari in borsa (cifra notevole per quel tempo), non rifiuta la mancia, ma cambia mestiere. Le crisi borsistiche, le crisi che coinvolgono la speculazione finanziaria, sono un dato storico strutturale e dunque implicito in quel genere di attività. Laddove i prezzi non corrispondono per nulla o quasi ai valori di riferimento, prima o poi c’è gente che si brucia le dita. E a bruciarsele, c’è da scommettere, sono sempre i soliti incauti.

In base a questa premessa, ci sarà sempre qualcuno, ex post, che dirà: io l’avevo detto; io l’avevo previsto; io avevo avvertito. Una sequela inesausta di io, io, io. Ora anche il giornale di Confindustria, in data odierna, titola in prima e terza pagina: Borse record ma sale il rischio. Chiarendo: “I fondamentali contano sempre meno: gli acquisti sono guidati dagli investimenti del retail, da basket e da Eft, dalla volatilità che determina comportamenti automatici e da buyback”. Un linguaggio da iniziati che significa semplicemente: si tratta di azzardo. Un azzardo affidato prevalentemente a degli algoritmi, cioè a dei robot trader ultraveloci.

Tutti sappiamo, chi più chi meno, che cosa sono gli stop-loss. Quando un titolo (asset) scende repentinamente, scattano le vendite automatiche per limitare le perdite del proprio portafoglio. Ebbene, come ci racconta il quotidiano di cui sopra: “Gli algoritmi ultra veloci sanno dove si trovano questi livelli. E possono inviare migliaia di ordini in vendita mirati proprio su quei punti, in modo da farli crollare”.

Significa che è un gioco truccato. Gli stop-loss si attivano, le liquidazioni si incatenano, i prezzi scendono ancora, e chi aveva scommesso su una discesa fa cassa. I trader in preda al panico fissano i loro schermi, increduli. Gli ordini stop-loss sono inghiottiti in un abisso senza fondo. C’è anche chi ne approfitta, un qualche miliardario che compra la paura a un prezzo sempre più basso. In pochi secondi, la marea cambia. Ma per alcuni, è già troppo tardi. In questo modo, gli algoritmi non seguono il mercato: lo guidano. Lucrando anche su scostamenti di prezzo minimi, in su o in giù. Fotte nulla di bilanci aziendali e valori reali.

Il capitale finanziario, nella sua dimensione monetaria, è stato a lungo fondamentalmente guidato dalle condizioni di estrazione del plusvalore che genera profitti, ovvero attorno alle fluttuazioni del processo di accumulazione (essenzialmente guidato dal saggio di profitto). L’attuale situazione di capitalismo finanziarizzato, è assai lontana da un capitalismo che è effettivamente esistito storicamente, ma che non esiste più da tempo se non marginalmente.

In tale situazione, ogni pretesa schematica (di modello matematico), basata sulla famigerata e tautologica “crescita”, che si richiami ad un mitico equilibrio, sia pure in una prospettiva di dinamica ciclica, perde di senso sia teorico che pratico (*). Resiste l’illusione, presso una consistentissima schiera di pompieri del sistema, che questa intrinseca instabilità del capitalismo possa essere mitigata dalle istituzioni che lo governano, dunque di poter portare la realtà anarchica e imprevedibile del ciclo capitalistico in un quadro d’intervento politico predefinito (e dalle sue opacità decisionali!). L’intrinseca instabilità, da sola, distrugge ogni velleità, e la prossima crisi finanziaria s’incaricherà di dimostrare, ancora una volta e di più che nel recente passato, quanto sia profonda la distanza tra teoria e conflitto sociale reale (oggi cavalcato dall’estrema destra, e dai tamburi di guerra, come sempre si conviene in simili circostanze).

(*) La disoccupazione, ad esempio, non è il prodotto di disfunzioni del mercato del lavoro, ma è legata all’esistenza di un’instabilità fondamentale nell’economia, che implica una tendenza spontanea a generare una domanda effettiva insufficiente a garantire decenti livelli di occupazione che i meccanismi di mercato non sono in grado di correggere. E ciò si paleserà sempre più man mano che procederà la rivoluzione tecnologica in atto. Quando la disoccupazione di massa toccherà le professioni di "cresta", allora suonerà la campana a martello della rivoluzione sociale, che avrà esiti che oggi non possiamo prevedere.

sabato 5 luglio 2025

"Niente paura"

 

Molti di noi ricorderanno la vicenda di Oumuamua, uno strano oggetto proveniente da molto lontano, forse il primo a giungere fino a noi da fuori del nostro sistema solare. Ha iniziato ad accelerare mentre passava davanti a casa nostra, e ciò rappresenta un mistero inspiegabile, posto che non si trattava di una cometa. Secondo molti astrofisici, attribuire quell’oggetto a un’intelligenza extraterrestre non è l’ipotesi più plausibile.

Secondo me si sbagliarono. Non si può escludere l’ipotesi che si trattasse di un oggetto che trasportava una popolazione extraterrestre in fuga da qualche catastrofe. Tipo gli antichi abitanti superstiti in fuga da Troia, ma questa volta su una speciale zattera interstellare.

Gli scienziati provarono lo stesso tipo di emozione nel 1977, quando un forte impulso radio fu rilevato dal radiotelescopio dell’Ohio State University. Nome in codice Wow!, questo misterioso lampo fu catturato una sola volta ... e rimane inspiegato ancora oggi.

Quando si passa la vita incollati a un telescopio o a redigere liste di cifre austere, si capisce che la possibilità che degli extraterrestri possano inviare un veicolo spaziale è più entusiasmante di quella di tracce batteriche da qualche parte in un deserto roccioso. Non c’è nulla di male scommettere sugli extraterrestri se pensiamo che c’è gente che scommette su Dio.

Un giorno, forse non lontanissimo, viaggeremo anche noi nello spazio interstellare senza carburante o massa reattiva, semplicemente sfruttando un fenomeno fisico: oggetti estesi nello spazio possono muoversi sfruttando la differenza di forza gravitazionale, poiché tutti gli oggetti nell’universo dotati di massa generano gravità. Sono consapevole che ciò non corrisponde alle idee consolidate circa queste cose, ma assicuro che non contraddice le leggi fondamentali.

Dopo Oumuamua, ecco un altro oggetto proveniente dallo spazio profondo attraversare il nostro sistema solare. Mentre leggevo la notizia ho trattenuto il respiro. Poi, ho letto queste parole sul Sole 24ore: «Niente paura, neppure in questo caso; 3I/ATLAS è ancora molto lontano dal sole, e da noi, dalle parti di Giove, viaggia alla considerevole velocità di 210.000 chilometri all’ora ed è in accelerazione, ma passerà dalle parti di Marte e se ne andrà tranquillamente oltre».

Ma di dove proviene questo strano e ramingo oggetto classificato 3I/Atlas, che pare essere una cometa? «Una volta acquisita la prima osservazione, ad inizio di luglio, si è andati a cercare se vi fossero, negli archivi astronomici, recenti immagini che fra migliaia e migliaia di oggetti contenessero anche quello.

«Il giorno 3 luglio il centro del Minor Planet dell’Unione Astronomica Internazionale, riceveva più di 100 osservazioni e posizioni già prese, per altri scopi, nei giorni precedenti. A quel punto l’orbita era bella e calcolata e questo permetteva, in modo inequivocabile, di risalire alla direzione da cui proviene 3I/Atlas: verso il centro della nostra Galassia.»

In pochi giorni, dunque, sono giunte più di 100 osservazioni. E però non dalla Striscia di Gaza, nella quale non si può entrare, filmare, documentare. Viviamo in un sistema solare ben strano. Al punto che una società privata è stata incaricata di studiare un piano per deportarne l’intera popolazione. A scriverlo è il Financial Times. Pare che il mezzo di trasporto scelto per la destinazione sia C/2019 Q4.



venerdì 4 luglio 2025

Che cosa c’è di peggio della guerra?

 

Dopo 40 mesi di guerra, di distruzioni e immani sofferenze, vogliamo ancora continuare questa guerra? A pro di chi e di che? Si risponde, chiusi nelle nostre stanze intonse rinfrescate: non possiamo dargliela vinta a Putin. Quella russa è una prevaricazione e un’aggressione.

E allora continuiamo la guerra, con morti e distruzioni. Putin vuole annettersi ampie zone dell’Ucraina. Era sufficiente non iniziare questa guerra nel 2014, non chiedere di aderire alla Nato, eccetera. Ritagliarsi il proficuo ruolo di ponte tra Russia e Occidente. E invece dove puntano i piedi gli americani e i fascistoidi (di tutte le razze), succedono sempre brutte cose. È un fatto storico, non un’ipotesi.

Anche nel 2022 sarebbe stato sufficiente trattare. Ora si dovrà, prima o poi, trattare in condizioni peggiori. Più passa il tempo, più avanza la guerra (con il pericolo non sventato di un suo allargamento), e peggiori saranno le condizioni per l’Ucraina. A Kiev è rimasto solo il terrorismo, che è pure una forma di guerra legittima, ma che in tal caso non porta a nessun risultato risolutivo concreto.

Il popolo ucraino prima prende atto che deve sbarazzarsi del regime dei perdenti e della cricca fascistoide che l’ha condotto in questa situazione, e meglio è. I popoli europei devono capire che devono sbarazzarsi di coloro che hanno trasformato la “democrazia” in un mero aggettivo esornativo.

Queste sono le posizioni tipiche dei filoputinani, diranno i soliti edotti, sempre più invischiati nelle loro contraddizioni. Anche, ma sono innanzitutto posizioni realistiche, pragmatiche, di buon senso.

giovedì 3 luglio 2025

In questi tempi binari

 

Un caldo così lo sognavo da anni. Voi no?

Donald Trump, quarantotto ore dopo che i suoi B-2 avevano bombardato i siti nucleari iraniani, ha annunciato che la guerra tra lo Stato sionista d’Israele e lo Stato islamico dell’Iran era finita. Un po’ come se, nel settembre 1939, Stalin avesse annunciato che la guerra tra la Germania e la Polonia si era conclusa.

Eppure sappiamo che quei dodici giorni di bombardamenti e di lancio di missili non hanno risolto nulla e sono stati solo un altro episodio del conflitto che contrappone Iran e Israele dal 1979. La guerra tra sionisti e sciiti continuerà in altre forme.

Nonostante il cessate il fuoco, permane un senso di guerra permanente, le cui munizioni sono le parole. Il vocabolario, le espressioni e le dichiarazioni sui social media si distinguono per la loro palese violenza. Un bombardamento quotidiano di insulti e minacce appena velate contro chi non è dalla nostra parte. Verrebbe da porsi la domanda: è la violenza delle parole la causa della guerra o è la guerra che la genera?

Come possiamo partecipare ai dibattiti che scuotono il mondo senza che ciò contribuisca a questa aggressività generalizzata? Purtroppo molte persone eccitate, che cercano una causa alla quale immolarsi solo simbolicamente, non capiscono o non accettano altro modo che quello, e pensano che la brutalità delle loro parole faccia parte della tradizione di una libertà di espressione illimitata. Questo ragionamento errato e stupido illustra il fatto che oggi la libertà di espressione è divisa tra estremismi desiderosi di poter dire qualsiasi cosa e minacciare chiunque in nome delle proprie convinzioni, che ovviamente ritengono superiori a tutte le altre.

Come se agli abitanti di Gaza o di Sumy importasse qualcosa delle bandierine esposte nei nostri profili social o stese alle finestre o sui frontoni dei nostri municipi.

Dopo l’attacco a Pearl Harbor, Churchill rivolse queste parole all’ambasciatore giapponese: “Quando devi uccidere qualcuno, non costa nulla essere educati”. I giapponesi mancarono di creanza. Anche nelle ore tragiche della storia, è essenziale mantenere un certo grado di savoir-faire e di humor (che non va confuso col sarcasmo), ultime vestigia di civiltà.

Mi chiedo a proposito di Trump (ma l’elenco degli “unti” sarebbe birichino): è la povertà del suo vocabolario che lo costringe a usare parole semplici e, di conseguenza, a esprimere idee semplicistiche e oltraggiosamente demagogiche? Certo, la sua spavalderia deve procuragli un delizioso brivido e possiamo ravvisare anche un gusto infantile nel giocare con i fiammiferi mentre cosparge di benzina i suoi elettori.

Nelle dichiarazioni ufficiali e sui social media, possiamo solo osservare un impoverimento delle parole e quindi del pensiero. Insulti e minacce isteriche sono diventati la norma e preannunciano un’era imminente in cui manganelli e bombe sostituiranno il vocabolario in uso un tempo, e anche il dizionario, al quale non si bada quasi più.

mercoledì 2 luglio 2025

L’antisemitismo degli ebrei

 

Che cos’è l’occupazione israeliana della Cisgiordania? Anzitutto va detto che “Cisgiordania occupata” è il termine usato nel diritto internazionale. Essa è presente 24 ore al giorno e si concretizza in vari modi, con la distruzione di case, lo smembramento di un’intera società e con 800 posti di blocco che controllano ogni spostamento, qualsiasi movimento. Appena possa apparire sospetto, e a ciò basta un nulla, gli israeliani sparano. Sparano per uccidere: uomini, donne, bambini.

Ogni città palestinese sembra un’enclave isolata dalle altre città: appena la si lascia, si incontrano posti di blocco, soldati o coloni. Un medico che presta servizio a Nablus e Ramallah ha impiegato quindici ore per spostarsi da una città all’altra, nonostante la distanza di 60 km, perché il checkpoint era chiuso.

Ecco spiegata la paura delle donne incinte di rimanere bloccate a un checkpoint quando stanno per partorire. E c’è ancora chi, qui da noi, ha la faccia di negare sia vigente un sistema di apartheid!

La vita quotidiana dei palestinesi include anche la distruzione repentina delle abitazioni. È sufficiente che gli israeliani siano convinti si tratti di case di “terroristi”. Era già così, ma oggi la distruzione è totale e sta accelerando dal 7 ottobre. A Gerusalemme Est, il comune presume che queste costruzioni siano illegali perché questa parte della città è stata annessa da Israele. Ma il diritto internazionale considera questo territorio appartenente ai palestinesi. L’obiettivo dei sionisti è fare tabula rasa della presenza palestinese a Gerusalemme Est.

Nessuno sa mai quando arriveranno i bulldozer: potrebbero arrivare nei prossimi giorni o tra qualche anno. Le vite di queste famiglie possono essere stravolte da un momento all’altro, creando una grande vulnerabilità. Alcuni bambini vanno a scuola con i loro giocattoli preferiti nel caso in cui la loro casa venga distrutta durante il giorno.

Un processo di disgregazione della società palestinese pianificato a tavolino che si è diffuso in tutta la Cisgiordania. Lo scorso maggio, Israele ha avviato un’operazione di indagine territoriale che faciliterà, ancora una volta, l’espropriazione delle proprietà palestinesi. Allo stesso tempo, lo Stato israeliano sta agevolando con finanziamenti diretti l’acquisto di terreni da parte dei coloni (già il termine “colono” chiarisce, o dovrebbe chiarire, una situazione di assoluta illegalità e di abominio).

Riguardo agli ostaggi israeliani, capisco il dolore delle loro famiglie. Quello che non capisco, tuttavia, è il sostanziale unanime silenzio dei loro e dei nostri media a riguardo dei 3.500 detenuti palestinesi, tra cui 400 bambini, in detenzione amministrativa. Uno status che consente a chiunque di essere arrestato per motivi di sicurezza. Il periodo di detenzione può essere prorogato più volte senza una specifica accusa.

Gli ebrei (oltretutto quelli della nostra epoca!) sono convinti che Dio abbia dato loro quella terra. Non solo sono di ciò convinti, ma ritengono che i palestinesi non meritino di viverci su quella terra. Questo è precisamente il diffuso sentimento antisemita degli ebrei.


martedì 1 luglio 2025

Criptovalute, da moneta speculativa a moneta di riserva

 

Con la fine di Bretton Woods, ossia della convertibilità del dollaro in oro, la massa monetaria in circolazione di qualsiasi valuta non ha più alcun aggancio con la quantità di oro presente nelle varie banche centrali. In tal modo la moneta s’è sganciata dal valore reale e universale della merce oro.

La banconota non è più segno di un valore tangibile, ma è divenuta in tutto e per tutto un pezzo di carta a mezzo del quale si riconosce legittimità a due poteri: il primo è politico, ed è quello che fa capo a uno Stato o all’Unione europea, e autorizza un’istituzione finanziaria a stampare quel pezzo di carta, a cui riconosce un “corso legale”, ossia forzoso; il secondo è economico, ed è esercitato da una banca, che la politica ha definito “centrale”, che ha l’autorità di emettere moneta e di essere garante del sistema di circolazione.

Una moneta garantita da che cosa? Dalle riserve auree? Esigue, rispetto alla massa di moneta circolante. Questo fatto apre già un problema, che non viene in luce proprio perché la circolazione di una moneta si basa sulla fiducia di tutti. Fino a quando?

Se all’interno di una comunità nazionale e internazionale accetto di effettuare transazioni di beni e servizi sulla base di valori nominali di una moneta cartacea (molto spesso le transazioni sono computerizzate), posso anche accettare che lo scambio economico avvenga sulla base non di una banconota ma di un codice, precisamente di una stringa alfanumerica, che mi permetta di acquistare beni e servizi. Ecco che quella stringa digitale alfanumerica diviene una moneta, un Bitcoin, una moneta digitale che opera senza intermediari finanziari.

Possedere dei bitcoin significa avere un portafoglio virtuale – ossia un indirizzo Bitcoin (sequenze casuali alfanumeriche lunghe in media 33 caratteri) – che utilizza un sistema di crittografia asimmetrico, a doppia chiave, pubblica e privata (ogni coppia di chiavi è formata in modo tale che ciò che viene cifrato con una, può essere decifrato solo con l’altra): ai bitcoin è associata la chiave pubblica del portafoglio, e ogni individuo può spendere solo la criptovaluta collegata al proprio indirizzo, mentre la chiave privata consente di apporre la propria firma digitale per effettuare il pagamento (*).

Concettualmente il Bitcoin non è molto diverso dalla tradizionale moneta contabilizzata elettronicamente dalle banche, e soddisfa le caratteristiche di garanzia necessarie, ossia la sua proprietà può essere univocamente e irrevocabilmente identificata, e non è possibile il double spending, cioè la doppia spesa con gli stessi bitcoin (né con la stessa somma in conto corrente).

Nel caso del Bitcoin la funzione di garanzia è stata assegnata non a un’istituzione finanziaria, ma a tutta la rete peer-to-peer (P2P), grazie al sistema blockchain (vediamo subito cos’è), pertanto è stata sostituita la fiducia bancaria con la crittografia.

L’architettura tecnica del Bitcoin, nella sua idea essenziale e nella sua dinamica inerziale, è meno complicata di quanto si creda. Il fatto che le chiavi di tutti i portafogli Bitcoin siano pubbliche, rende pubbliche tutte le transazioni, memorizzate in un database – una sorta di “libro contabile” generale, disponibile a tutti i nodi della rete, appunto la blockchain (“catena di blocchi”) – che finisce per contenere lo storico di tutti i movimenti di tutti i bitcoin generati, a partire dall’indirizzo del loro creatore fino all’ultimo proprietario. Questo permette di verificare che i bitcoin oggetto di una qualsiasi transazione appartengano effettivamente a un dato portafoglio.

Questo per quanto riguarda la circolazione dei bitcoin. Altra questione è quella della creazione della massa dei bitcoin in circolazione (quello che con la moneta tradizionale fa la banca). Confermare un pagamento in bitcoin significa risolvere un problema di crittografia ricevendo in cambio una ricompensa in nuovi bitcoin.

Tuttavia, il grosso della creazione di bitcoin avviene con cadenza temporale costante. Il software Bitcoin rilascia nella rete P2P un blocco Coinbase: lo potremmo definire un problema crittografico da risolvere. Il primo computer della rete che ne arriva a capo, trovando attraverso dei calcoli una serie di numeri, riceve una ricompensa in bitcoin di nuova emissione (un valore che si dimezza ogni quattro anni circa).

È dunque una specie di caccia al tesoro, che viene definita attività di mining, ossia di “estrazione” (simbolicamente dell’oro). Dapprima per i “minatori” erano sufficienti dei computer personali per risolvere il problema crittografico. Man mano che la rete è cresciuta, il problema crittografico si è fatto più complesso. I proprietari dei relativi pc hanno iniziato ad acquistare hardware specializzati in quel particolare processo di calcolo, e sono nati i mining pool: nodi di rete che si sono uniti, per accrescere la potenza in termini computazionali, spartendosi poi la ricompensa in nuovi bitcoin a seconda del contributo al processo di calcolo dato da ciascun computer.

Si è prodotta una sorta di élite che effettua Coinbase, risolve complessi problemi matematici per aggiungere nuovi blocchi alla catena e verifica le transazioni, traendone un guadagno in nuovi bitcoin, a fronte di una massa di utenti che non possono che limitarsi a utilizzare la criptovaluta. In breve: grandi capannoni, situati generalmente nei pressi di centrali elettriche, dalle quali attingono l’energia per alimentare un enorme numero di computer dedicati all’attività di mining.

Fino al 2021, in Cina era delocalizzata una percentuale notevole del processo di mining, con la medesima logica della delocalizzazione manifatturiera. Vi lavorano addetti al controllo dei computer, a salari cinesi, che operano in lunghi turni, spesso dormendo sul posto. Dopo le restrizioni cinesi, il Kazakhstan e il Canada sono diventati hub importanti per il mining di criptovalute, in particolare Bitcoin.

Da moneta speculativa le criptovalute, dunque anche i bitcoin, si sono trasformati anche in moneta di riserva. Il 23 gennaio, Trump ha firmato l’ordine esecutivo Strengthening American Leadership in Digital Financial Technology, con cui apre la strada alle criptovalute. In tal modo affossando le valute digitali delle banche centrali e favorendo le criptovalute private. L’ordine presidenziale è la pietra tombale sul progetto di dollaro digitale emesso dalla FED e, in generale, sull’utilizzo all’interno degli Stati Uniti di qualsiasi valuta digitale nazionale.

Il 6 marzo, con un altro ordine esecutivo, il presidente USA ha istituito una “riserva strategica di bitcoin”, nella previsione di ampliarla ad altre criptovalute al fine di “stabilire una riserva di asset digitali degli Stati Uniti”. Al momento nel conto andranno “tutti i bitcoin detenuti dal Dipartimento del Tesoro che sono stati definitivamente confiscati come parte di procedimenti penali o civili”. Ciò segna un cambiamento nel ruolo di Bitcoin all’interno del sistema finanziario globale, da attività speculativa a strumento di riserva macroeconomica legittimo e riconosciuto.

In caso di grave crisi finanziaria, queste riserve basate sul nulla che funzione avranno? Appunto quella di essere semplicemente virtuali. Che cosa potrebbe succedere? Parafrasando Enrico Cuccia a proposito di Mediobanca, si può dire che se anche l’Impero romano è crollato ... . E dunque? Risposta: perché preoccuparsi di cose sulle quali nulla sappiamo ancora e nulla possiamo?

(*) Il sistema Bitcoin è non solo sicuro ma anche trasparente. Ogni persona può generare un numero infinito di doppie chiavi crittografiche (pubblica/privata) e dunque un numero infinito di portafogli (indirizzi) Bitcoin: anche uno per ogni singola transazione. Se la chiave privata viene smarrita, i bitcoin a essa associati sono irrimediabilmente persi, distrutti come banconote in un falò, perché non esiste altro che quel codice per dimostrarne la proprietà e quindi utilizzarli.

lunedì 30 giugno 2025

[...]

Ora sappiamo perché i treni e aerei non arrivano in orario.

I 32 stati membri della NATO si sono impegnati a spendere almeno il 5% del PIL per le spese militari. L’obiettivo dovrebbe essere raggiunto in un decennio, trasformando di fatto l’alleanza in un'economia di guerra permanente.

Coloro che biasimano (eufemismo) qualsiasi tipo di spesa sociale non hanno nulla da dire. Questo riarmo aumenterebbe la spesa militare collettiva della NATO da 1.500 miliardi di dollari nel 2024 a 2.800 miliardi di dollari, quasi il doppio della spesa bellica, senza considerare l’inflazione o la crescita economica. Questa cifra da sola supererebbe l’intero PIL annuo di paesi come l’Italia.

Per la Gran Bretagna, che attualmente ha un bilancio militare di circa 60 miliardi di sterline, il parametro di riferimento del 5% significherebbe un aumento a circa 140 miliardi di sterline l’anno, ovvero più del doppio delle spese per la “difesa”.

La Germania si sta preparando ad aumentare la spesa militare da circa il 2% al 5% del PIL entro il 2029, raggiungendo i 225 miliardi di euro l’anno. Con il “fondo speciale” da 100 miliardi di euro approvato nel 2022 e oltre 1.000 miliardi di euro in pacchetti militari aggiuntivi varati quest’anno, i tedeschi diventeranno in pochi anni la più importante potenza militare europea. Ed è esattamente ciò che ha dichiarato il cancelliere Friedrich Merz: la Germania farà “della Bundeswehr l’esercito convenzionale più forte d’Europa”, come giustamente previsto “date le nostre dimensioni, la nostra potenza economica e la nostra posizione geografica”. Intendimenti così chiari si possono rintracciare nel Mein Kampf.

Migliaia di miliardi vengono investiti nelle spese per gli armamenti e la “sicurezza”, mentre i servizi pubblici vengono sistematicamente e scientificamente smantellati. Intanto da noi il maggior partito di “opposizione” (non ridiamo) è tutto preso nella difesa dei “diritti”, la sua segretaria generale partecipa a quelle che ormai sono diventate delle carnevalate e non più delle occasioni per marcare un diritto della differenza (che non va trasformato in virtù!), dichiarando che la destra, ossia fascisti e guerrafondai, fa “la guerra ai diritti” degli omosessuali, lesbiche e altri simili perseguitati. Avrebbe potuto aggiungere che la destra incoraggia le donne a rimanere in cucina. Come fossero una novità le profonde radici della violenza sessuale tout court, così come il razzismo strutturale, eccetera, che non attengono solo alla “destra”.

sabato 28 giugno 2025

Troppo tardi

Oltre il limite

Da una trentina d’anni è diventato una residenza per gente (molto) benestante. Dunque, posso vederlo solo dallesterno, però lo immagino nella sua aurea originale, quella di un albergo assai noto a cavallo tra due secoli. Tappa quasi obbligata per i viaggiatori asburgici che si recavano (o in rientro) sul Garda e a Venezia. Mi pare di ricordare che vi prese alloggio anche il dott. S. Freud (non ho qui con me le carte per asserirlo con certezza).

Poi venne la guerra, quella “grande”, seguita dal crepuscolo previsto e annunciato. Svanita l’atmosfera amica, la confortevole libertà di ogni cosa (per chi se la poteva concedere, ovviamente), le stanze del prestigioso albergo rimasero vuote e silenziose. Non s’udivano più le voci concitate delle baronesse boeme, né le imperiose degli ufficiali in missione, quelli che squartavano il nemico con estrema calma. D’un tratto, con la sconfitta e l’abdicazione, la moneta divenuta carta straccia, tramontò un’epoca e scomparve un mondo che sembrava inestinguibile. Venne ad affermarsi una realtà nella quale il vecchio ceto aristocratico e quello alto borghese si trovarono senza più nulla dopo aver goduto di tutto.

Accadrà ancora e ancora, possiamo scommetterci. E poi, che cosa resterà? Un medioevo bionico e riso alla cantonese?! La storia è sì storia di lotte, ma anzitutto tra popoli e razze (vedi, da ultimo, l’attualità). Lotta tra ceti dominanti, gente sanguinaria ma con gli occhi limpidi. Le plebi sono sempre e solo personale di servizio. Quanto alla democrazia, quella attuale è una pallida imitazione applicata ai bisogni della società imborghesita.

Un giorno del 1920, durante la guerra civile, su un treno in viaggio tra Mosca e la Siberia, un ex ufficiale di marina dello zar lesse L’ABC del Comunismo, un manuale introduttivo al comunismo scritto da Bucharin (fucilato nel 1938 per ordine di Stalin) e Preobrazenskij (stesso destino l’anno precedente). Parlando con i soldati rossi, l’ex ufficiale fu colpito dall’abisso che separava i nobili obiettivi dei leader della rivoluzione dalle motivazioni dei soldati. Questi uomini non sapevano nulla della teoria marxista, non ne erano interessati e non si curavano affatto di come sarebbe stata la nuova società russa. Solo una cosa motivava le loro azioni: il desiderio di distruggere il vecchio ordine.

Chi vede in tutto ciò (e in quello che scrivo) una contraddizione, ha ragione. Ciò non toglie sia uno sciocco chi guardi solo l’aspetto contraddittorio del racconto. Pukin, Gogol’, Turgenev, Tolstoj, Dostoevskij, aleggiavano sulle ceneri e sui cadaveri del mondo che avevano abitato. I loro fantasmi perseguitarono la classe dominante precipitata nel vulcano di cui preparavano l’eruzione. I più intelligenti l’avevano prevista; i più sensibili l’avevano giustificata. Tutti piansero sulla loro incoscienza. Troppo tardi. 

venerdì 27 giugno 2025

Più yogurt per tutti

 

Il vasetto di yogurt vuoto lo metto nell’apposito contenitore per la plastica, mentre 95 jet privati con ospiti, dopo aver attraversato l’Atlantico, atterravano a Venezia per le nozze di Jeff Bezos.

Per me è importante fare qualcosa per l’ambiente; è scontato. Ogni piccolo contributo aiuta il nostro pianeta. Ci credo fermamente.

Gli esperti stimano che conferire i vasetti di yogurt nella plastica consente di risparmiare circa 10 grammi di CO2 per vasetto, grazie alla migliore riciclabilità della plastica bianca sottile, mentre un jet privato emette circa 30 tonnellate di CO2 per volo transatlantico: con 95 voli di andata e ritorno, ciò equivale a circa 5.700 tonnellate di CO2.

Per quanto mi riguarda personalmente devo solo aprire 570 milioni di vasetti di yogurt per compensare le emissioni di CO2 causate dai jet privati per il matrimonio di Jeff Bezos.

Ce la posso fare, dico fra me con ottimismo: ne mangio subito un altro. I padroni dell’industria alimentare dovrebbero ringraziarmi.

L’inquinamento da carbonio degli aerei è ben lungi dall’essere l’unico problema ambientale causato da quel tipo di traffico. Emissioni ad alta quota di ossidi di azoto (NOx), composti solforati, vapore acqueo, costruzione e manutenzione degli aeroporti ...

Nel 2023, l’Unione Europea ha fatto un grande passo avanti: l’aviazione deve ridurre le proprie emissioni di gas serra. Entro il 2050, le compagnie aeree dovranno utilizzare il 70% di SAF (Sustainable Airplane Fuel), ovvero carburanti sostenibili per l’aviazione, secondo il regolamento denominato ReFuel-EU. Si è quindi presentato un problema: sebbene esistano molte alternative per sostituire il cherosene, nessuna è sufficientemente sviluppata da coprire il 70% dei carburanti utilizzati nell’industria aeronautica, che trasporta quattro miliardi di passeggeri l’anno e genera un fatturato di mille miliardi di euro.

E con che cosa vorrebbero sostituire il carburante attuale? Con il legno! Non per bruciarlo direttamente, questo è ovvio, ma per ottenere le famose biomasse legnose quale prodotto di un particolare processo al quale viene sottoposto il legname vergine (libera una certa dose di anidride carbonica, ma meno del cherosene). Tagliare boschi e foreste per far volare gli aerei. Con l’attuale crescita del traffico aereo – più 3% l’anno – il traffico raddoppierà entro il 2050, quindi anche con queste soluzioni a basse emissioni di carbonio, inquineremo ancora di più, oltre a tagliare boschi e foreste.

Decarbonizzare l’aviazione è impossibile. L’unica soluzione possibile? Volare di meno, e basta. Facile a dirsi. E allora bisogna mangiare più yogurt.

giovedì 26 giugno 2025

Sindaco subito

 

Venezia preferisce le “barche” alle gondole, non è una novità. La cosa ha i suoi rivoltosi, com’è normale. Dimenticano che la città ha meno abitanti del mandamento di Bassano del Grappa. Rispondessero al quesito: con quali soldi la manteniamo in piedi ‘sta città? È come una Isabella Teotochi in declino, vive di fama ed è costretta ad allargare le cosce per compiacere chiunque sia disposto a pagarla fingendo di credere l’imene intatto.

Tra sovraturismo e sovramediatizzazione, soffoca. Ma dietro la prova del turismo di massa, c’è la prova dei turisti più poveri, le colonne di zombie accusati di non consumare abbastanza e di non potersi permettere una suite, dunque di non saper far bene i turisti da spennare. Una città sempre al limite, anche dell’angoscia.

In epoca neolitica s’è stabilito che chi ha più soldi fa ciò che più gli comoda, il resto della storia ha seguito la stessa linea di condotta. Certo, il capitalismo è diventato apocalittico, ma andate a dirlo non già ai ricchi (si sa già come la pensano), ma a chi ha un reddito effettivo sopra i cinquantamila sesterzi. Andate a dir loro che ci penserà il “partito” a decidere il tasso medio di sopravvivenza.

C’è chi vorrebbe cambiare i sistemi come ci cambiamo le mutande, o anche più moderatamente limitare il potere tirannico della finanza e dell’economia senza regole. Non funziona così, la questione è un cicinin più complessa. Attenzione, c’è di peggio di un Bezos, per esempio un afrikaner con sindrome di Asperger, e anche un pazzoide che crede di essere Trump. E, scusate la psicanalisi, fino ad epoca recente non abbiamo avuto un certo Berlusconi del quale più o meno mezza Italia assorbiva le sue trovate come un alcolizzato sorseggia prosecco a colazione?

Il difetto più marcato che trovo in Jeff Bezos è la sua risata alla Paperino. Ma per il resto lo farei sindaco veneziano subito, ma anche presidente di qualsiasi altra cosa (squadra di calcio compresa).

mercoledì 25 giugno 2025

La guerra continua

 

Via libera della Unione Europea alla Montepaschi perché si mangi Mediobanca. Se la politica, che dovrebbero rappresentare gli interessi generali, non interviene, a vincere è sempre il mercato, cioè il capitale. Non ho nulla contro il capitale in sé, sarebbe come prendersela con la forza di gravità, tuttavia vorrei ricordare, nello specifico, che Montepaschi era una banca fallita salvata con denaro pubblico. E c’è di mezzo, nella storia di quella banca, anche un suicidio/omicidio che ovviamente non verrà mai chiarito.

Quanto alla tv, pubblica e privata, gli esperti politologi/strateghi provano ad inscenare la discussione allo stesso modo di quando un clown ne prende a calci un altro. D’estate poi la tv è una casa di riposo, più esattamente diventa un cronicario con ospiti che hanno sempre qualcosa di incontinente.

Veniamo al dunque: non volevamo (chi? è sempre più difficile rispondere a questa domanda) più sopportare le fatwa emesse dagli idioti leader religiosi dell’Iran contro scrittori, giornalisti o intellettuali. E invece il sionismo, la cui ideologia attuale è fanatica e determinata quanto quella del Terzo Reich, ha finito per renderci quasi simpatici (si fa per dire) quei cialtroni in tonaca e turbante.

L’AIEA ha sempre sostenuto che l’Iraq non possedeva armi di distruzione di massa, contrariamente alle affermazioni di Bush Jr. e della sua amministrazione di guerrafondai cinici e idioti. Oggi, a riguardo dell’Iran, afferma il contrario. E ha ragione di farlo perché il programma nucleare iraniano non è una fake news inventata per giustificare un’operazione militare illegittima.

Che l’Iran possa arrivare prima o poi ad ottenere attraverso la centrifugazione quantità sufficienti di uranio 235 per fabbricare l’arma nucleare è un fatto che sarà presto o tardi confermato. Ma tra questo e dire che Teheran userà l’arma nucleare ce ne passa. Anzitutto perché ci vogliono i mezzi idonei per lanciarla. E attualmente l’Iran non ne possiede. Posto che riuscisse a realizzare tutto questo, l’Iran non potrebbe in nessun caso usare l’arma nucleare. Il possesso di tale arma e la capacità di raggiungere un bersaglio a migliaia di chilometri servirebbe all’Iran da deterrente e per consentirgli di rompere il cazzo con una certa larghezza nel Medio Oriente sunnita, e ovviamente in primis a Israele.

Dunque l’attacco congiunto in territorio iraniano aveva, come obiettivo principale (per Trump), il cambio di regime, ossia un putsch interno al regime stesso, poiché una opposizione con capacità di abbattere il regime islamico non esiste ad oggi. Washington, dopo i primi bombardamenti, ha fatto marcia indietro. Resta da capire il perché. La prima risposta che viene in mente è che avevano fatto male i conti. La guerra continua.