martedì 1 luglio 2025

Criptovalute, da moneta speculativa a moneta di riserva

 

Con la fine di Bretton Woods, ossia della convertibilità del dollaro in oro, la massa monetaria in circolazione di qualsiasi valuta non ha più alcun aggancio con la quantità di oro presente nelle varie banche centrali. In tal modo la moneta s’è sganciata dal valore reale e universale della merce oro.

La banconota non è più segno di un valore tangibile, ma è divenuta in tutto e per tutto un pezzo di carta a mezzo del quale si riconosce legittimità a due poteri: il primo è politico, ed è quello che fa capo a uno Stato o all’Unione europea, e autorizza un’istituzione finanziaria a stampare quel pezzo di carta, a cui riconosce un “corso legale”, ossia forzoso; il secondo è economico, ed è esercitato da una banca, che la politica ha definito “centrale”, che ha l’autorità di emettere moneta e di essere garante del sistema di circolazione.

Una moneta garantita da che cosa? Dalle riserve auree? Esigue, rispetto alla massa di moneta circolante. Questo fatto apre già un problema, che non viene in luce proprio perché la circolazione di una moneta si basa sulla fiducia di tutti. Fino a quando?

Se all’interno di una comunità nazionale e internazionale accetto di effettuare transazioni di beni e servizi sulla base di valori nominali di una moneta cartacea (molto spesso le transazioni sono computerizzate), posso anche accettare che lo scambio economico avvenga sulla base non di una banconota ma di un codice, precisamente di una stringa alfanumerica, che mi permetta di acquistare beni e servizi. Ecco che quella stringa digitale alfanumerica diviene una moneta, un Bitcoin, una moneta digitale che opera senza intermediari finanziari.

Possedere dei bitcoin significa avere un portafoglio virtuale – ossia un indirizzo Bitcoin (sequenze casuali alfanumeriche lunghe in media 33 caratteri) – che utilizza un sistema di crittografia asimmetrico, a doppia chiave, pubblica e privata (ogni coppia di chiavi è formata in modo tale che ciò che viene cifrato con una, può essere decifrato solo con l’altra): ai bitcoin è associata la chiave pubblica del portafoglio, e ogni individuo può spendere solo la criptovaluta collegata al proprio indirizzo, mentre la chiave privata consente di apporre la propria firma digitale per effettuare il pagamento (*).

Concettualmente il Bitcoin non è molto diverso dalla tradizionale moneta contabilizzata elettronicamente dalle banche, e soddisfa le caratteristiche di garanzia necessarie, ossia la sua proprietà può essere univocamente e irrevocabilmente identificata, e non è possibile il double spending, cioè la doppia spesa con gli stessi bitcoin (né con la stessa somma in conto corrente).

Nel caso del Bitcoin la funzione di garanzia è stata assegnata non a un’istituzione finanziaria, ma a tutta la rete peer-to-peer (P2P), grazie al sistema blockchain (vediamo subito cos’è), pertanto è stata sostituita la fiducia bancaria con la crittografia.

L’architettura tecnica del Bitcoin, nella sua idea essenziale e nella sua dinamica inerziale, è meno complicata di quanto si creda. Il fatto che le chiavi di tutti i portafogli Bitcoin siano pubbliche, rende pubbliche tutte le transazioni, memorizzate in un database – una sorta di “libro contabile” generale, disponibile a tutti i nodi della rete, appunto la blockchain (“catena di blocchi”) – che finisce per contenere lo storico di tutti i movimenti di tutti i bitcoin generati, a partire dall’indirizzo del loro creatore fino all’ultimo proprietario. Questo permette di verificare che i bitcoin oggetto di una qualsiasi transazione appartengano effettivamente a un dato portafoglio.

Questo per quanto riguarda la circolazione dei bitcoin. Altra questione è quella della creazione della massa dei bitcoin in circolazione (quello che con la moneta tradizionale fa la banca). Confermare un pagamento in bitcoin significa risolvere un problema di crittografia ricevendo in cambio una ricompensa in nuovi bitcoin.

Tuttavia, il grosso della creazione di bitcoin avviene con cadenza temporale costante. Il software Bitcoin rilascia nella rete P2P un blocco Coinbase: lo potremmo definire un problema crittografico da risolvere. Il primo computer della rete che ne arriva a capo, trovando attraverso dei calcoli una serie di numeri, riceve una ricompensa in bitcoin di nuova emissione (un valore che si dimezza ogni quattro anni circa).

È dunque una specie di caccia al tesoro, che viene definita attività di mining, ossia di “estrazione” (simbolicamente dell’oro). Dapprima per i “minatori” erano sufficienti dei computer personali per risolvere il problema crittografico. Man mano che la rete è cresciuta, il problema crittografico si è fatto più complesso. I proprietari dei relativi pc hanno iniziato ad acquistare hardware specializzati in quel particolare processo di calcolo, e sono nati i mining pool: nodi di rete che si sono uniti, per accrescere la potenza in termini computazionali, spartendosi poi la ricompensa in nuovi bitcoin a seconda del contributo al processo di calcolo dato da ciascun computer.

Si è prodotta una sorta di élite che effettua Coinbase, risolve complessi problemi matematici per aggiungere nuovi blocchi alla catena e verifica le transazioni, traendone un guadagno in nuovi bitcoin, a fronte di una massa di utenti che non possono che limitarsi a utilizzare la criptovaluta. In breve: grandi capannoni, situati generalmente nei pressi di centrali elettriche, dalle quali attingono l’energia per alimentare un enorme numero di computer dedicati all’attività di mining.

Fino al 2021, in Cina era delocalizzata una percentuale notevole del processo di mining, con la medesima logica della delocalizzazione manifatturiera. Vi lavorano addetti al controllo dei computer, a salari cinesi, che operano in lunghi turni, spesso dormendo sul posto. Dopo le restrizioni cinesi, il Kazakhstan e il Canada sono diventati hub importanti per il mining di criptovalute, in particolare Bitcoin.

Da moneta speculativa le criptovalute, dunque anche i bitcoin, si sono trasformati anche in moneta di riserva. Il 23 gennaio, Trump ha firmato l’ordine esecutivo Strengthening American Leadership in Digital Financial Technology, con cui apre la strada alle criptovalute. In tal modo affossando le valute digitali delle banche centrali e favorendo le criptovalute private. L’ordine presidenziale è la pietra tombale sul progetto di dollaro digitale emesso dalla FED e, in generale, sull’utilizzo all’interno degli Stati Uniti di qualsiasi valuta digitale nazionale.

Il 6 marzo, con un altro ordine esecutivo, il presidente USA ha istituito una “riserva strategica di bitcoin”, nella previsione di ampliarla ad altre criptovalute al fine di “stabilire una riserva di asset digitali degli Stati Uniti”. Al momento nel conto andranno “tutti i bitcoin detenuti dal Dipartimento del Tesoro che sono stati definitivamente confiscati come parte di procedimenti penali o civili”. Ciò segna un cambiamento nel ruolo di Bitcoin all’interno del sistema finanziario globale, da attività speculativa a strumento di riserva macroeconomica legittimo e riconosciuto.

In caso di grave crisi finanziaria, queste riserve basate sul nulla che funzione avranno? Appunto quella di essere semplicemente virtuali. Che cosa potrebbe succedere? Parafrasando Enrico Cuccia a proposito di Mediobanca, si può dire che se anche l’Impero romano è crollato ... . E dunque? Risposta: perché preoccuparsi di cose sulle quali nulla sappiamo ancora e nulla possiamo?

(*) Il sistema Bitcoin è non solo sicuro ma anche trasparente. Ogni persona può generare un numero infinito di doppie chiavi crittografiche (pubblica/privata) e dunque un numero infinito di portafogli (indirizzi) Bitcoin: anche uno per ogni singola transazione. Se la chiave privata viene smarrita, i bitcoin a essa associati sono irrimediabilmente persi, distrutti come banconote in un falò, perché non esiste altro che quel codice per dimostrarne la proprietà e quindi utilizzarli.

lunedì 30 giugno 2025

[...]

Ora sappiamo perché i treni e aerei non arrivano in orario.

I 32 stati membri della NATO si sono impegnati a spendere almeno il 5% del PIL per le spese militari. L’obiettivo dovrebbe essere raggiunto in un decennio, trasformando di fatto l’alleanza in un'economia di guerra permanente.

Coloro che biasimano (eufemismo) qualsiasi tipo di spesa sociale non hanno nulla da dire. Questo riarmo aumenterebbe la spesa militare collettiva della NATO da 1.500 miliardi di dollari nel 2024 a 2.800 miliardi di dollari, quasi il doppio della spesa bellica, senza considerare l’inflazione o la crescita economica. Questa cifra da sola supererebbe l’intero PIL annuo di paesi come l’Italia.

Per la Gran Bretagna, che attualmente ha un bilancio militare di circa 60 miliardi di sterline, il parametro di riferimento del 5% significherebbe un aumento a circa 140 miliardi di sterline l’anno, ovvero più del doppio delle spese per la “difesa”.

La Germania si sta preparando ad aumentare la spesa militare da circa il 2% al 5% del PIL entro il 2029, raggiungendo i 225 miliardi di euro l’anno. Con il “fondo speciale” da 100 miliardi di euro approvato nel 2022 e oltre 1.000 miliardi di euro in pacchetti militari aggiuntivi varati quest’anno, i tedeschi diventeranno in pochi anni la più importante potenza militare europea. Ed è esattamente ciò che ha dichiarato il cancelliere Friedrich Merz: la Germania farà “della Bundeswehr l’esercito convenzionale più forte d’Europa”, come giustamente previsto “date le nostre dimensioni, la nostra potenza economica e la nostra posizione geografica”. Intendimenti così chiari si possono rintracciare nel Mein Kampf.

Migliaia di miliardi vengono investiti nelle spese per gli armamenti e la “sicurezza”, mentre i servizi pubblici vengono sistematicamente e scientificamente smantellati. Intanto da noi il maggior partito di “opposizione” (non ridiamo) è tutto preso nella difesa dei “diritti”, la sua segretaria generale partecipa a quelle che ormai sono diventate delle carnevalate e non più delle occasioni per marcare un diritto della differenza (che non va trasformato in virtù!), dichiarando che la destra, ossia fascisti e guerrafondai, fa “la guerra ai diritti” degli omosessuali, lesbiche e altri simili perseguitati. Avrebbe potuto aggiungere che la destra incoraggia le donne a rimanere in cucina. Come fossero una novità le profonde radici della violenza sessuale tout court, così come il razzismo strutturale, eccetera, che non attengono solo alla “destra”.

sabato 28 giugno 2025

Troppo tardi

Oltre il limite

Da una trentina d’anni è diventato una residenza per gente (molto) benestante. Dunque, posso vederlo solo dallesterno, però lo immagino nella sua aurea originale, quella di un albergo assai noto a cavallo tra due secoli. Tappa quasi obbligata per i viaggiatori asburgici che si recavano (o in rientro) sul Garda e a Venezia. Mi pare di ricordare che vi prese alloggio anche il dott. S. Freud (non ho qui con me le carte per asserirlo con certezza).

Poi venne la guerra, quella “grande”, seguita dal crepuscolo previsto e annunciato. Svanita l’atmosfera amica, la confortevole libertà di ogni cosa (per chi se la poteva concedere, ovviamente), le stanze del prestigioso albergo rimasero vuote e silenziose. Non s’udivano più le voci concitate delle baronesse boeme, né le imperiose degli ufficiali in missione, quelli che squartavano il nemico con estrema calma. D’un tratto, con la sconfitta e l’abdicazione, la moneta divenuta carta straccia, tramontò un’epoca e scomparve un mondo che sembrava inestinguibile. Venne ad affermarsi una realtà nella quale il vecchio ceto aristocratico e quello alto borghese si trovarono senza più nulla dopo aver goduto di tutto.

Accadrà ancora e ancora, possiamo scommetterci. E poi, che cosa resterà? Un medioevo bionico e riso alla cantonese?! La storia è sì storia di lotte, ma anzitutto tra popoli e razze (vedi, da ultimo, l’attualità). Lotta tra ceti dominanti, gente sanguinaria ma con gli occhi limpidi. Le plebi sono sempre e solo personale di servizio. Quanto alla democrazia, quella attuale è una pallida imitazione applicata ai bisogni della società imborghesita.

Un giorno del 1920, durante la guerra civile, su un treno in viaggio tra Mosca e la Siberia, un ex ufficiale di marina dello zar lesse L’ABC del Comunismo, un manuale introduttivo al comunismo scritto da Bucharin (fucilato nel 1938 per ordine di Stalin) e Preobrazenskij (stesso destino l’anno precedente). Parlando con i soldati rossi, l’ex ufficiale fu colpito dall’abisso che separava i nobili obiettivi dei leader della rivoluzione dalle motivazioni dei soldati. Questi uomini non sapevano nulla della teoria marxista, non ne erano interessati e non si curavano affatto di come sarebbe stata la nuova società russa. Solo una cosa motivava le loro azioni: il desiderio di distruggere il vecchio ordine.

Chi vede in tutto ciò (e in quello che scrivo) una contraddizione, ha ragione. Ciò non toglie sia uno sciocco chi guardi solo l’aspetto contraddittorio del racconto. Pukin, Gogol’, Turgenev, Tolstoj, Dostoevskij, aleggiavano sulle ceneri e sui cadaveri del mondo che avevano abitato. I loro fantasmi perseguitarono la classe dominante precipitata nel vulcano di cui preparavano l’eruzione. I più intelligenti l’avevano prevista; i più sensibili l’avevano giustificata. Tutti piansero sulla loro incoscienza. Troppo tardi. 

venerdì 27 giugno 2025

Più yogurt per tutti

 

Il vasetto di yogurt vuoto lo metto nell’apposito contenitore per la plastica, mentre 95 jet privati con ospiti, dopo aver attraversato l’Atlantico, atterravano a Venezia per le nozze di Jeff Bezos.

Per me è importante fare qualcosa per l’ambiente; è scontato. Ogni piccolo contributo aiuta il nostro pianeta. Ci credo fermamente.

Gli esperti stimano che conferire i vasetti di yogurt nella plastica consente di risparmiare circa 10 grammi di CO2 per vasetto, grazie alla migliore riciclabilità della plastica bianca sottile, mentre un jet privato emette circa 30 tonnellate di CO2 per volo transatlantico: con 95 voli di andata e ritorno, ciò equivale a circa 5.700 tonnellate di CO2.

Per quanto mi riguarda personalmente devo solo aprire 570 milioni di vasetti di yogurt per compensare le emissioni di CO2 causate dai jet privati per il matrimonio di Jeff Bezos.

Ce la posso fare, dico fra me con ottimismo: ne mangio subito un altro. I padroni dell’industria alimentare dovrebbero ringraziarmi.

L’inquinamento da carbonio degli aerei è ben lungi dall’essere l’unico problema ambientale causato da quel tipo di traffico. Emissioni ad alta quota di ossidi di azoto (NOx), composti solforati, vapore acqueo, costruzione e manutenzione degli aeroporti ...

Nel 2023, l’Unione Europea ha fatto un grande passo avanti: l’aviazione deve ridurre le proprie emissioni di gas serra. Entro il 2050, le compagnie aeree dovranno utilizzare il 70% di SAF (Sustainable Airplane Fuel), ovvero carburanti sostenibili per l’aviazione, secondo il regolamento denominato ReFuel-EU. Si è quindi presentato un problema: sebbene esistano molte alternative per sostituire il cherosene, nessuna è sufficientemente sviluppata da coprire il 70% dei carburanti utilizzati nell’industria aeronautica, che trasporta quattro miliardi di passeggeri l’anno e genera un fatturato di mille miliardi di euro.

E con che cosa vorrebbero sostituire il carburante attuale? Con il legno! Non per bruciarlo direttamente, questo è ovvio, ma per ottenere le famose biomasse legnose quale prodotto di un particolare processo al quale viene sottoposto il legname vergine (libera una certa dose di anidride carbonica, ma meno del cherosene). Tagliare boschi e foreste per far volare gli aerei. Con l’attuale crescita del traffico aereo – più 3% l’anno – il traffico raddoppierà entro il 2050, quindi anche con queste soluzioni a basse emissioni di carbonio, inquineremo ancora di più, oltre a tagliare boschi e foreste.

Decarbonizzare l’aviazione è impossibile. L’unica soluzione possibile? Volare di meno, e basta. Facile a dirsi. E allora bisogna mangiare più yogurt.

giovedì 26 giugno 2025

Sindaco subito

 

Venezia preferisce le “barche” alle gondole, non è una novità. La cosa ha i suoi rivoltosi, com’è normale. Dimenticano che la città ha meno abitanti del mandamento di Bassano del Grappa. Rispondessero al quesito: con quali soldi la manteniamo in piedi ‘sta città? È come una Isabella Teotochi in declino, vive di fama ed è costretta ad allargare le cosce per compiacere chiunque sia disposto a pagarla fingendo di credere l’imene intatto.

Tra sovraturismo e sovramediatizzazione, soffoca. Ma dietro la prova del turismo di massa, c’è la prova dei turisti più poveri, le colonne di zombie accusati di non consumare abbastanza e di non potersi permettere una suite, dunque di non saper far bene i turisti da spennare. Una città sempre al limite, anche dell’angoscia.

In epoca neolitica s’è stabilito che chi ha più soldi fa ciò che più gli comoda, il resto della storia ha seguito la stessa linea di condotta. Certo, il capitalismo è diventato apocalittico, ma andate a dirlo non già ai ricchi (si sa già come la pensano), ma a chi ha un reddito effettivo sopra i cinquantamila sesterzi. Andate a dir loro che ci penserà il “partito” a decidere il tasso medio di sopravvivenza.

C’è chi vorrebbe cambiare i sistemi come ci cambiamo le mutande, o anche più moderatamente limitare il potere tirannico della finanza e dell’economia senza regole. Non funziona così, la questione è un cicinin più complessa. Attenzione, c’è di peggio di un Bezos, per esempio un afrikaner con sindrome di Asperger, e anche un pazzoide che crede di essere Trump. E, scusate la psicanalisi, fino ad epoca recente non abbiamo avuto un certo Berlusconi del quale più o meno mezza Italia assorbiva le sue trovate come un alcolizzato sorseggia prosecco a colazione?

Il difetto più marcato che trovo in Jeff Bezos è la sua risata alla Paperino. Ma per il resto lo farei sindaco veneziano subito, ma anche presidente di qualsiasi altra cosa (squadra di calcio compresa).

mercoledì 25 giugno 2025

La guerra continua

 

Via libera della Unione Europea alla Montepaschi perché si mangi Mediobanca. Se la politica, che dovrebbero rappresentare gli interessi generali, non interviene, a vincere è sempre il mercato, cioè il capitale. Non ho nulla contro il capitale in sé, sarebbe come prendersela con la forza di gravità, tuttavia vorrei ricordare, nello specifico, che Montepaschi era una banca fallita salvata con denaro pubblico. E c’è di mezzo, nella storia di quella banca, anche un suicidio/omicidio che ovviamente non verrà mai chiarito.

Quanto alla tv, pubblica e privata, gli esperti politologi/strateghi provano ad inscenare la discussione allo stesso modo di quando un clown ne prende a calci un altro. D’estate poi la tv è una casa di riposo, più esattamente diventa un cronicario con ospiti che hanno sempre qualcosa di incontinente.

Veniamo al dunque: non volevamo (chi? è sempre più difficile rispondere a questa domanda) più sopportare le fatwa emesse dagli idioti leader religiosi dell’Iran contro scrittori, giornalisti o intellettuali. E invece il sionismo, la cui ideologia attuale è fanatica e determinata quanto quella del Terzo Reich, ha finito per renderci quasi simpatici (si fa per dire) quei cialtroni in tonaca e turbante.

L’AIEA ha sempre sostenuto che l’Iraq non possedeva armi di distruzione di massa, contrariamente alle affermazioni di Bush Jr. e della sua amministrazione di guerrafondai cinici e idioti. Oggi, a riguardo dell’Iran, afferma il contrario. E ha ragione di farlo perché il programma nucleare iraniano non è una fake news inventata per giustificare un’operazione militare illegittima.

Che l’Iran possa arrivare prima o poi ad ottenere attraverso la centrifugazione quantità sufficienti di uranio 235 per fabbricare l’arma nucleare è un fatto che sarà presto o tardi confermato. Ma tra questo e dire che Teheran userà l’arma nucleare ce ne passa. Anzitutto perché ci vogliono i mezzi idonei per lanciarla. E attualmente l’Iran non ne possiede. Posto che riuscisse a realizzare tutto questo, l’Iran non potrebbe in nessun caso usare l’arma nucleare. Il possesso di tale arma e la capacità di raggiungere un bersaglio a migliaia di chilometri servirebbe all’Iran da deterrente e per consentirgli di rompere il cazzo con una certa larghezza nel Medio Oriente sunnita, e ovviamente in primis a Israele.

Dunque l’attacco congiunto in territorio iraniano aveva, come obiettivo principale (per Trump), il cambio di regime, ossia un putsch interno al regime stesso, poiché una opposizione con capacità di abbattere il regime islamico non esiste ad oggi. Washington, dopo i primi bombardamenti, ha fatto marcia indietro. Resta da capire il perché. La prima risposta che viene in mente è che avevano fatto male i conti. La guerra continua.

[...]

 


Scusi, per Cortina ...

martedì 24 giugno 2025

Il punto in comune tra Trump, Putin, Netanyahu e Khamenei

Si va a dormire con una data situazione internazionale in essere e dopo poche ore questa situazione è già radicalmente mutata. Di questa imprevedibilità, del repentino mutamento di umori e atteggiamenti politici, si ebbe riscontro già negli anni Trenta del secolo scorso, senza però l’incalzante ritmo attuale.

Il 18 giugno, il quotidiano conservatore The Jerusalem Post, in una lettera aperta a Donald Trump, lo esortava: “Creare una coalizione in Medio Oriente per la spartizione dell’Iran e incoraggiare piani a lungo termine per un Iran federalizzato o diviso”.

Questo per dare l’idea di che cosa frulla per la testa dei sionisti, altro che la fiaba della bomba iraniana: spartirsi l’Iran e le sue risorse, prendere il controllo diretto dello Stretto di Hormuz – attraverso cui transita circa il 20% del petrolio mondiale – e di un bel pacchetto di forniture alla Cina.

Pare, da ciò che si apprende in queste nostre ore notturne, che tale progetto di cambio di regime sia stato, almeno per il momento, posto in stand-by. Le Borse internazionali non mancheranno di festeggiare e specie alcuni speculatori di trarre nuovi vantaggi.

Già relativamente alleati dalla caduta dell’URSS, Russia e Iran si sono avvicinati molto durante la guerra in Ucraina. Il 17 gennaio scorso hanno firmato un trattato di partenariato strategico che incoraggia l’assistenza economica, ma non prevede alcuna clausola di difesa reciproca, a differenza di quella che lega la Russia alla Corea del Nord.

L’unica cosa che interessa ai russi, non potendo fare altro dal momento dei loro attuali impegni militari, è che non ci sia troppa destabilizzazione nel Caucaso e che non vengano a mancare pezzi di ricambio iraniani per i loro droni.

Sempre sullo scacchiere del Grande Medio Oriente, il criminale sionista Netanyahu, attaccando la Repubblica Islamica dell’Iran, ha relegato in secondo piano tutto ciò di cui è accusato nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania.

Se la guerra condotta da Netanyahu contro l’Iran dovesse avere successo (sul “cessate il fuoco” trumpiano sono leciti dubbi), chi avrà l’audacia di chiedere che venga portato davanti a un tribunale internazionale colui che ha compiuto l’impresa erculea di sconfiggere i mullah e liberare il popolo iraniano?

Ancora una volta, i palestinesi fungono da variabile di adattamento per manovre politiche che vanno oltre il loro conflitto con Israele. Se domani il regime di Teheran crollasse, Netanyahu passerebbe da criminale di guerra a liberatore da un giorno all’altro. Ciò sarebbe a malapena credibile, ma non impossibile.

Ricordo, per esempio, che i soldati americani e britannici avevano affettuosamente soprannominato Zio Joe un certo Iosif VissarionoviDugavili. A letto e in guerra tutto è lecito, sostengono in molti (prevalentemente maschi).

Anche Libano, Siria e Arabia Saudita sono segretamente felici di vedere i loro avversari sciiti polverizzati dalle bombe. Ognuno fa i propri calcoli, tra le colonne del credito e del debito: cosa guadagno e cosa perdo sostenendo, silenziosamente, la strategia di Netanyahu?

Tuttavia queste sono solo ipotesi, tentativi di svuotare il mare con una cannuccia, poiché nessuno di noi sa veramente dove saremo domani e anzi già nelle prossime ore. Nemmeno Trump, Netanyahu, Putin, Xi Jinping o la Guida Suprema iraniana. Questo è l’unico punto che abbiamo in comune con loro.

lunedì 23 giugno 2025

Oggi lo sanno tutti

 

«Ripeto: l’Iran non è l’Iraq di Saddam, sia sul piano della capacità militare che relativamente alla sua posizione geo-strategica. Tutte le osservazioni secondo cui il ritardo degli attacchi militari di Trump contro l’Iran aprirebbe la strada verso la pace commettono l’errore di separare le azioni di Trump dalla crisi di fondo che ha guidato la politica estera americana per 30 anni. Nulla di ciò che è accaduto negli ultimi due giorni cambierà gli obiettivi militari degli Stati Uniti. Gli stessi imperativi geopolitici che hanno causato la crisi di questa settimana ne porteranno di nuovi

Questo è ciò che scrissi più di cinque anni fa e che ricalca quanto già scrivevo il 5 marzo 2012 con il titolo “Rinviata la terza o quarta guerra mondiale” (*). In un altro post, del 3 gennaio 2020 e dal titolo “Un film visto un secolo fa”:

«La più grave sconfitta patita dagli Usa nel dopoguerra sul piano geo-strategico, ancor più di quella patita nel sud-est asiatico negli anni Settanta, è stata la perdita del controllo sull’Iran. Oggi la più grave sciagura che possa capitare agli Usa e ai suoi alleati sarebbe un conflitto armato con l’Iran. Al Pentagono conoscono la geografia politica e anche quella fisica, perciò non ignorano che l’Iran rappresenta uno dei più essenziali cardini strategici dell’equilibrio mondiale.»

E proseguivo così: «È sufficiente un’occhiata a una carta geografica per rendersi conto che le più grandi riserve petrolifere mondiali sono localizzate tutt’intorno all’Iran, un paese che ha migliaia di chilometri di coste sul Golfo Persico e su quello di Oman, divisi dallo Stretto di Hormuz. Confina con la Turchia, l’Iraq, l’Azerbaijan, l’Armenia, il Turkmenistan, l’Afghanistan, e a sud-est con il Pakistan, è a contatto diretto con il Mar Caspio e non dista molto dal Mar Nero.

«L’Iran ha una superficie pari a Regno Unito, Francia, Spagna e Germania messi assieme, con quasi 80 milioni di abitanti. Un paese che dal punto di vista orografico è tutt’altro che una landa semi-desertica, ma uno dei più montuosi del mondo, con vette che sfiorano i seimila metri, tanto che a un’ora d’auto da Teheran la borghesia persiana va a sciare. Il nord del paese è ricoperto da foreste con un clima molto piovoso, un territorio ideale per la difesa da attacchi esterni e per praticarci la guerriglia.»

E difatti, oggi, Washington non ha invaso l’Iran ma lo bombarda da 18.000 piedi. Si dice che si punti a un cambio di regime a Teheran, e per una volta tanto questa tesi corrisponde al vero. Nel quadro strategico complessivo gli Stati Uniti non possono permettersi di avere un Iran ostile in prospettiva di una guerra con la Cina. L’obiettivo principale della strategia statunitense è sempre e comunque quello: la Cina. Questione di vita o di morte.

In un post del 18 maggio 2019, osservavo: «Emmanuel Macron si è lamentato del siluro americano all’accordo nucleare iraniano (l’Iran è la seconda economia nel Medio Oriente, quarto produttore di petrolio al mondo e secondo per riserve di gas naturale, 80 milioni di abitanti di cui più del 60% sotto i 30 anni). In un vertice UE della scorsa settimana in Romania, ha dichiarato: “Innanzitutto, l'Iran non si è ritirato da questo accordo. Secondo, se l’Iran si ritira da questo accordo, sarà responsabilità degli Stati Uniti”. Nel gennaio 2019, Francia, Germania e Regno Unito hanno costituito INSTEX, Instrument for Support of Trade Exchanges, uno special purpose vehicle (SPV) per permettere alle proprie aziende di fare affari con l’Iran senza incorrere nelle sanzioni statunitensi. È stato progettato con lo scopo di convincere il governo iraniano a non affossare l’accordo sul nucleare concluso nel 2015. Lo SPV ha sede a Parigi ed è diretto dal tedesco Per Fischer, che in precedenza ha ricoperto il ruolo di direttore di Commerzbank.»

Nello stesso post: «L’Istituto Internazionale di Studi Strategici di Londra, certo una fonte non indipendente, stima in 110 miliardi di dollari gli investimenti necessari all’Europa per lo sviluppo di capacità navali e 357 miliardi per prepararsi alla guerra contro la Russia. Per quale motivo l’Europa dovrebbe fare la guerra alla Russia non è detto nel documento dell’IISS.» Oggi lo sanno tutti.

(*) Come passa il tempo, era il 2012, ma il tema anche allora era esattamente quello di oggi: «Il generale Norton Schwartz (cognomi così sono un prerequisito per fare carriera) ha detto che i piani d’attacco sono pronti e sono stati inviati a chi di dovere. Oggi l’incontro tra Obama e Netanyahu. Il paradosso è che – a differenza d’Israele – l’Iran è firmatario del trattato di non proliferazione e, per il momento, e nel suo programma non c’è violazione. A confermarlo, secondo l’articolo del NYT, è l’intelligence che negherebbe che ci siano in corso programmi di armi nucleari. Cosa dire? Se l’Iran vendesse carrube alla Cina invece che petrolio forse gli Usa userebbero una tattica diversa.»

domenica 22 giugno 2025

La pallottola doveva disporre diversamente

 

Dobbiamo riconoscergli una qualità che non è così comune in politica: mantiene le sue promesse. E con una rapidità notevole. Epurazioni gigantesche nell’amministrazione federale, tagli al bilancio della sanità, dell’istruzione e dei programmi sociali, sia nazionali che internazionali, espulsioni di uomini, donne e bambini senza preoccuparsi se siano illegali o no, calci in culo alle università considerate covi di comunisti, i marines a sedare i manifestanti che protestavano contro le sue politiche, ha dichiarato guerra economica alla Cina e all’Unione Europea, lanciato un’offerta pubblica di acquisto molto ostile per Panama e il suo canale, annunciato la sua intenzione di annettere Canada e Groenlandia, eccetera. Provateci voi. Non ha derubato i suoi elettori, che ricevono generosamente ciò per cui hanno votato, senza inganni sulla merce come usa invece qui da noi.

L’unica défaillance è l’impegno a porre fine a tutte le guerre. Lì, raggiunge chiaramente i suoi limiti, per quanto alti possano essere. Il premio Nobel per la pace che sogna è ben di là della sua portata, ma non disperi perché è stato dato ad altri figli di puttana.

Questo scrivevo ieri sera, ma oggi le cose sono cambiate. Non solo, come si temeva, Trump non ha alcuna intenzione seria di mettere fine alle guerre, ma ha deciso di prendere parte in prima persona a quella iniziata per interposta persona tra lo Stato sionista e quello sciita di Teheran. C’è da chiedersi se Trump o qualsiasi altro presidente sia realmente in grado di mettere fine a una qualunque guerra se non dopo tanto tempo e nell’impossibilità di vincerla. C’è dell’altro, molto “altro” ancora e non si tratta di semplice “imperialismo”.

Andrej Gromyko, nelle sue memorie, scriveva:

«[...] vorrei rievocare un episodio: mi trovavo nel settembre 1963 a New York per l’Assemblea generale delle Nazioni unite, dove era giunto anche il segretario di stato Rusk per incontrarmi e parlarmi a nome di Kennedy. Ed ecco che cosa mi disse: “Il presidente è favorevole alla ricerca di strumenti per migliorare le relazioni con l’Unione Sovietica e per raggiungere la distensione”.

«Egli mi propone quindi di andare da qualche parte fuori città e proseguire la conversazione. Capii subito che dietro questa proposta si celava qualcosa di importante e acconsentii. Uscimmo da New York ciascuno per proprio conto.

Giunti al posto indicato, Rusk mi espose un’interessante idea del presidente: “Kennedy” disse “sta riflettendo alla possibilità di una riduzione delle truppe americane nell’Europa occidentale”.

Ne parlammo a lungo, passeggiando. La comunicazione di Rusk era di indubbio e notevole interesse. Era una notizia inattesa e anche, per così dire, sensazionale. Certo, il presidente era giunto a questa conclusione non d’improvviso, ma dopo serie riflessioni.

[...] Ma solo pochi giorni dopo la pallottola di un assassino doveva disporre diversamente».

Memorie, Rizzoli, 1989, pp. 130-31. Scriveva ancora Gromyko: «E non si può fare a meno di rilevare la straordinaria coincidenza tra l’idea di Kennedy e quanto dichiarato dal presidente Roosevelt alla conferenza di Jalta: “Gli Stati Uniti adotteranno ogni ragionevole misura per tutelare la pace, ma non al prezzo di mantenere un grosso esercito in Europa, a tremila miglia dagli Usa. L’occupazione americana sarà pertanto limitata nel tempo”».

sabato 21 giugno 2025

Le guerre di ieri, di oggi, di sempre

 

Era l’America bianca, egocentrica e dominatrice del mondo, quella della classe media, che idolatrava il successo sociale attraverso il lavoro più della ricchezza dei banchieri di Wall Street. Venne il Vietnam, il Laos e la Cambogia, e quella stessa classe media prese a gridare davanti alla Casa Bianca: “Hey, hey Lyndon B. Johnson, how many kids did you kill today?”.

È quello di allora uno slogan evergreen: quanti bambini avete ucciso ieri e nei giorni precedenti a Gaza, a Teheran, a Tel Aviv, a Kiev, a Donec’k e altrove? Ovunque sia arrivata la zampata vampiresca il conteggio dei torti e delle ragioni è sempre dispari. Per un verso o per l’altro trovano sempre delle buone ragioni per uccidere. Prese una per una sono formidabili, supportate da asettiche slide che ne dimostrano l’inesorabile necessità. Inutile insistere, hanno ragione.

Allora fregava un cazzo dei bambini asiatici che morivano sotto le bombe ad Hanoi e mitragliati lungo il Mekong; quello che non volevano vedere erano i propri figli e fratelli mandati a morire a 10mila km di distanza per una guerra imperiale che si sapeva già persa. Lo stesso vale oggi: in fondo a molti di noi frega un cazzo che ogni giorno decine di persone vengano falciate da raffiche di mitra mentre sono in fila per il pane. Quello che non si vuole è che rincari il petrolio e di poter andare in ferie tranquilli. Per il resto, ne riparliamo a settembre inoltrato.

Una differenza tra le guerre di ieri e quelle di oggi però cè. I leader politici attuali parlano dei missili e delle armi nucleari come delle casalinghe in cucina, così come nessuno sa ancora se il magnate immobiliare newyorkese, un opportunista e un apprendista dittatore, scatenerà la terza guerra mondiale.

Intanto qui da noi ci si sta accorgendo che al governo c’è una manica di fascisti. Ma con calma, non c’è fretta. Se poi guardiamo quali sarebbero i candidati a sostituirli si viene presi dallo sconforto.

venerdì 20 giugno 2025

L'ottimismo del Principe

 

Ieri sera, eccezionalmente, ho guardato la trasmissione Piazzapulita, sulla rete televisiva del padrone del Corriere della Sera e di altro ancora. Dico eccezionalmente perché è un tipo di trasmissione che non manca di una certa livorosa faziosità nel creare il “caso” anche dove non c’è, oppure esagerandone l’importanza fino a farlo diventare dramma (do you remember epidemia virale?).

Il servizio televisivo trattava, tra l’altro, della situazione in cui versa la città di Agrigento, che come tutti sappiamo è stata scelta quale capitale italiana della cultura 2025. Riassumere quanto detto nel servizio televisivo sarebbe cosa lunga e anche piuttosto complicata e penosa, tra opere finanziate e mai realizzate, un degrado comune che va ben oltre ogni dire. Emblematiche, come sempre accade, le facce di bronzo a cera persa dei boss locali, rappresentanti di un potere senza scrupoli che ancora oggi ci vorrebbe incantare con i suoi ritornelli fessi e invecchiati.

Scrivevo giusto due giorni or sono a proposito di una città veneta: “che assomiglia sempre più a una città del meridione. Beh, non esageriamo, non gli assomiglia, ma ad ogni modo il degrado si nota”. Confermo, dire che quella città assomiglia a quella angosciante Agrigento, che sembra una città posta su una stella morta, sarebbe una smodata esagerazione.

Dobbiamo amare comunque questa grande regione e le sue città cariche di storia e di bellezza, tuttavia consapevoli, almeno per quanto mi riguarda, che si ha a che fare con una società, stanca e debole, che si vanta di un patrimonio culturale e artistico che non le appartiene, che anzi cerca in tutti modi di lasciar morire d’incuria o in un silenzio di sostanziale indifferenza e complicità.

Di chi la colpa? Certo del clima, non vi sono dubbi. Ma non del climate change, piuttosto di un clima sociale e politico che c’è da sempre. Ed infatti, non a caso, la trasmissione televisiva s’intitolava “I gattopardi”, citazione del titolo al plurale del celeberrimo romanzo di Tomasi di Lampedusa. Lo scrittore siciliano sosteneva che la situazione di miserabile arretratezza e degrado, in cui versava la Sicilia dell’Ottocento, sarebbe durata ancora per dei secoli.

Giuseppe Tomasi, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, era un ottimista.

giovedì 19 giugno 2025

La normale fatica del tempo

Ieri sera, dalla Gruber, si poteva “toccare con mano” la differenza tra chi è nato e ha fatto politica in una certa epoca e quelli che, invece, sono venuti dopo, cresciuti a Tom Cruise che salva il mondo. Cortocircuiti di nostalgia? Quasi.

Apprezzata positivamente tale differenza, avrei chiesto a M. D’A.: quand’era presidente del consiglio, chi ha mandato i bombardieri italiani nell’ex Jugoslavia? Mi risponderebbe sicuramente con delle buone ragioni. Le sue, ovviamente.

Il vostro Tom, la procreazione assistita cinematografica, salverà il mondo ancora una volta? In fondo, mi dico, non è questo il punto. Il mondo, in ogni caso, ormai sappiamo che è finito da un pezzo. Il mio mondo.

mercoledì 18 giugno 2025

Per fortuna c’è il Papa

 

A guardare in giro è tutto un disastro. Palazzi e palazzine messi a nuovo anche con i miei denari, ma poi non c’è una via del centro, per non parlare delle strade periferiche, che non sia ridotta a una buca dopo l’altra. Non c’è un’unghia di asfalto libero nelle città che non sia stata adibita a parcheggio a pagamento con tariffe da rapina. A chi vanno tutti quei soldi? I parchi cittadini sono diventati inagibili, nel senso che frequentarli significa assumersi dei rischi di vario genere. Non parliamo poi delle stazioni ferroviarie dove bivaccano dei rottami umani venuti da chissà dove e con intenzione di farsi mantenere. Sto parlando di una città del nord, che assomiglia sempre più a una città del meridione. Beh, non esageriamo, non gli assomiglia, ma ad ogni modo il degrado si nota.

Di tutto ciò non si occupano i fabbricanti di discorsi totalizzanti in tv e nelle sagre della “cultura”, salvo stigmatizzare (eufemismo) l’astensione elettorale, ossia quelli che si sono spogliati delle loro costruzioni illusorie. Mi stupisco del contrario: troppa gente va ancora a votare, a farsi prendere per il culo da questa camorra che pensa solo ai cazzi propri. Quindi ti trovi a pensare cose immonde: una nuova guerra è esattamente ciò di cui il mondo ha urgente bisogno. No, un momento, questa è solo rabbia, poi passa e si ricomincia a ragionare. Ma diventa sempre più difficile non andare fuori di testa e il mio ringraziamento va a tutti coloro che hanno reso tutto questo possibile.

Ora c’è un barlume di speranza nel mondo e la situazione potrebbe migliorare ulteriormente per tutti: secondo gli esperti, qualcuno potrebbe presto lanciare un missile nucleare da qualche parte, mettendo così la ciliegina sulla torta dell’attuale situazione mondiale. Effettivamente tutti concordavamo sul fatto che la situazione fosse diventata piuttosto monotona ultimamente, con la guerra in Ucraina, il genocidio nella Striscia di Gaza e altri conflitti di cui non c’importa, come Myanmar, Sudan, Etiopia eccetera. Per fortuna c’è il Papa, dice qualcuno.

martedì 17 giugno 2025

Patrimoniale: venisse un cancro

 

Le riserve auree, a livello globale, superano quelle in euro. Nel 2024 il prezzo dell’oro è aumentato del 30% e quest’anno ulteriormente del 27%, raggiungendo i 3.500 dollari l’oncia, 100 volte il livello raggiunto quando Nixon ruppe nel 1971 la convertibilità dollaro-oro. Se all’epoca si fosse investito un milione di lire in oro, pari a circa cinque stipendi medi, oggi il capitale investito avrebbe raggiunto i 50.000 euro, vale a dire 30 stipendi medi. Questa stima grossolana, ma non lontana dalla realtà, ci dice innanzitutto quanto ci siamo impoveriti.

Non tutti impoveriti, ovviamente. Per la prima volta la ricchezza finanziaria delle famiglie ha superato la soglia dei 6.000 miliardi. Tra conti correnti, titoli, azioni, fondi comuni e assicurazioni, il totale di quelli che chiamano “risparmi” (con l’evasione dell’Iva, dell’Irpef, con aliquote ridicole per successioni e donazioni?) l’aumento è stato di oltre 249 miliardi rispetto al 2023. Se non ve ne siete accorti è perché siete distratti. Si tratta di un aumento della ricchezza finanziaria pari a cinque finanziarie belle toste. Potessero morire di cancro tutti quelli che sostengono che ci vorrebbe una patrimoniale per riequilibrare un po’ i conti.

Poi dicono che l’Italia cresce poco. Bugiardi. La rendita cresce tantissimo. Nell’ultimo lustro gli investimenti degli italiani in strumenti finanziari sono saliti del 30%. Come scrive il 24ore, si tratta del frutto della laboriosità, della prudenza e del senso di responsabilità di milioni di cittadini. I fondi comuni nel 2024, rispetto ai 12 mesi precedenti, registrano un balzo del 17,6%: da 722 miliardi a quasi 850 miliardi di euro. Ottima performance anche dei titoli di Stato, che passano da 431 al 493 miliardi, con un incremento del 14,3% in un solo anno. Anche la liquidità non è male: 1.600 miliardi, ma cresce solo del l’1%, segno che c’è fiducia e una buona propensione per gli investimenti finanziari.

Intanto il debito globale ha raggiunto un nuovo livello record, pari a 324.000 miliardi di dollari per governi, famiglie, imprese e banche. Circa tre volte il Pil mondiale. Siamo seduti a culo nudo sui Campi Flegrei.

Il debito pubblico americano supera i 36 mila miliardi di dollari, più del 120% del Pil, e l’ammontare detenuto da creditori esteri è di oltre 26 mila miliardi di dollari. Dal 2010 a oggi la quota del debito estero, soprattutto in titoli e azioni, è salita dal 20% all’88% del prodotto interno lordo. Il valore di queste azioni è cresciuto quasi del 400%.

L’idea di Trump è quella di contenere il debito pubblico e aumentare le entrate con l’arma dei dazi, pensando di abbattere il deficit commerciale con gli altri Paesi e far crescere la produzione negli Stati Uniti, ma vuole anche finanziare nuovi tagli delle tasse per i ricchi e politiche espansive che rischiano di aggravare il problema del debito.

Si è discusso, nei circoli più autorevoli, della possibilità di convertire il debito del Tesoro a lungo termine in obbligazioni perpetue che non rimborsano mai il capitale, ma continuano a pagare solo gli interessi. Nel luglio 2023, il Congressional Research Service ha pubblicato un rapporto che esamina questa possibilità.

È una eventualità solo teorica? Secondo il Segretario al Tesoro, Scott Bessent, gli Stati Uniti non andranno mai in default sul loro debito, un’affermazione che richiamava il vecchio detto secondo cui non bisogna mai credere a nulla finché non viene ufficialmente smentito.

Una mossa del genere, regolarmente respinta e considerata, soprattutto da Giappone e Cina, una mossa di default, non è stata ufficialmente discussa nei principali circoli finanziari internazionali. Ma va ricordato che nemmeno le misure adottate da Nixon il 15 agosto 1971 furono discusse. I partner finanziari ed economici e gli alleati degli Stati Uniti ne vennero a conoscenza come tutti gli altri quando videro il presidente in televisione.

lunedì 16 giugno 2025

Non è colpa della cuoca

 

Insalata di pesche, pistacchi, salvia e formaggio di capra. Quindi mais e carne al carbone. Perché perdersi quei gustosi bocconi cancerogeni? Queste ricette, corredate da foto, le offre alla carta il Financial Times.

Tuttavia le malattie da alimentazione non sono la principale causa di morte tra gli statunitensi nella fascia d’età tra 1 e 44 anni (lo diventano subito dopo). La prima causa di morte sono gli infortuni accidentali, ma la seconda causa di morte per la fascia di età 1-44 anni è il suicidio.

Nel 2023, secondo i Centers for Disease Control and Prevention (CDC), 12,8 milioni hanno pensato seriamente al suicidio, 3,7 milioni hanno pianificato di farlo, 1,5 milioni l’hanno tentato e 49.000 persone ci sono riuscite. I dati provvisori sopra riportati si basano sui certificati di morte ricevuti (possono essere sottostimati per quanto riguarda alcune etnie). In rapporto alla popolazione un tasso doppio rispetto all’Italia.

I tassi di suicidio sono aumentati del 37% tra il 2000 e il 2018 e sono diminuiti del 5% tra il 2018 e il 2020. Tuttavia, i tassi sono tornati al picco nel 2022. I giovani sotto i 35 anni muoiono più per suicidio che per malattie cardiache, cancro, diabete e omicidio. Allo stesso tempo, i CDC hanno osservato che il numero di suicidi negli Stati Uniti è in costante aumento dall'inizio del XXI secolo.

Il tasso di suicidio tra gli uomini nel 2023 era circa quattro volte superiore a quello tra le donne. Gli uomini rappresentano il 50% della popolazione, ma sono responsabili di quasi l’80% dei suicidi. I gruppi razziali/etnici con i tassi più elevati nel 2023 erano i nativi americani non ispanici e i nativi dell'Alaska e i bianchi non ispanici. Le armi da fuoco sono il metodo più comune utilizzato nei suicidi. Nel 2023, oltre il 50% dei suicidi è stato commesso con armi da fuoco.

Come se non bastasse il suicidio, l’omicidio è una delle prime cinque cause di morte nella stessa fascia di età. Nella prima metà della vita, gli americani muoiono più per infortuni e violenza – come incidenti stradali, suicidi o omicidi – che per qualsiasi altra causa, inclusi cancro, HIV o influenza.

Ciò potrebbe trovare spiegazione nel fatto che circa il 20% degli americani soffre di disturbi mentali (Mental Health America). Secondo un rapporto pubblicato nel 2024, questa percentuale è salita al 23%. Tra i giovani di età compresa tra 12 e 17 anni, oltre il 20% ha sperimentato almeno un episodio depressivo in forma grave.

Il problema dell’uso frequente e talvolta eccessivo di psicofarmaci negli Stati Uniti non è nuovo. Un’assistenza sanitaria mentale di qualità è spesso accessibile alle fasce più abbienti della popolazione, mentre i farmaci possono essere acquistati da una percentuale maggiore di popolazione, che magari non ha la possibilità di pagarsi uno strizzacervelli. 

Negli Stati Uniti è accreditato un modello sanitario in cui le difficoltà psicologiche e psichiatriche vengono rapidamente classificate come crisi biochimiche individuali, piuttosto che come il risultato di conflitti interiori, traumi, problemi familiari o pressioni sociali. Pertanto, alle persone che presentano dei disturbi vengono spesso prescritti farmaci invece di terapeuti. È un modello d’intervento che ha preso piede anche in Europa. Questo contribuisce a una transizione di massa verso un sollievo farmacologico dei sintomi e in certi casi ad abbracciare ... le armi (in senso stretto).

domenica 15 giugno 2025

Il problema di Israele

 

Questa mattina il quotidiano la Repubblica titolava di un bambino israeliano morto a causa dei missili iraniani. Non si può non provare pietà per quel bambino e i suoi familiari, raccapriccio per ciò che sta accadendo. Tuttavia, spero di non peccare di cinismo, se i fabbricanti di opinione pubblica avessero dedicato altrettanti titoli e spazi uguali per le migliaia di bambini palestinesi uccisi a raffica e con premeditazione dalle truppe sioniste, i quotidiani sarebbero dovuti uscire nell’ultimo anno e mezzo con una foliazione almeno tripla ogni giorno.

Lo Stato di Israele, un’entità inventata a tavolino, esiste solo sulla base della forza, e nessun infingimento può mascherare tale realtà storica. Le medesime ragioni che i sionisti fanno valere per la loro esistenza, valgono anche e con più forte ragione per i palestinesi richiusi nel ghetto da Israele.

La propaganda sionista, i media ne sono abbondantemente intossicati, si dimostra tanto più incauta in questo frangente in quanto non fa che ravvivare l’odio contro il giudaismo, fino ad ispirare paradossalmente consensi e simpatie per quell’abominevole regime teocratico vigente in Iran da quasi mezzo secolo. Per contro, è Israele a instillare l’odio per i palestinesi e gli arabi in generale (definiti con i termini più spregiativi) e cioè per quelle popolazioni di razza semitica alla quale dicono di appartenere storicamente gli stessi ebrei.

Sentir parlare ancora di due Stati e due popoli, fa capire quanto profonda sia l’ignoranza a proposito del sionismo e dei suoi programmi razziali, egemonici ed espansivi. Va però tenuto conto, in prospettiva, che sotto il profilo demografico Israele è piccola cosa rispetto al crescente mondo mussulmano circostante, e la sua crescita demografica viene soprattutto da comunità diffidenti o reticenti (gli haredim) verso l’establishment nazional-sionista.

Il continuo sostegno finanziario e militare da parte degli Stati Uniti a Israele non potrà continuare all’infinito. Anche se i parametri economici sono ancora buoni, lo stato di guerra pressoché permanente (costato 100 miliardi nel 2024) influenza l’impiego della manodopera (circa il 15% dei dipendenti arruolati nella riserva, secondo Italian Trade Agency) così come il flusso turistico, in forte calo.

Troverà in futuro Israele la forza e le risorse necessarie per vivere di vita propria? Potrà farlo solo espandendosi e appropriandosi delle risorse altrui, dunque innescando sempre nuovi motivi di conflitto con i popoli che vivono attorno (e non solo). Il problema di Israele è dunque l’esistenza stessa di Israele.

venerdì 13 giugno 2025

Non è colpa della geografia

 

Netanyahu l’ha fatta grossa. L’Iran non è la Striscia di Gaza e la sua inopia, né il Libano e nemmeno la Siria. Gli Stati Uniti dicono che non c’entrano, tuttavia senza l’avallo di Washington non ci si spinge fino a Teheran. La moderazione americana verso Mosca va intesa anche in tal senso: hanno bisogno della neutralità russa per occuparsi del resto.

Con la caduta del famoso Muro, ebbe fine anche Jalta e l’ordine mondiale che ne fu la conseguenza. Le leadership attuali non sono in grado di creare e mantenere un nuovo ordine mondiale. Lo sviluppo del capitalismo, arrivato a un certo stadio, diventa caotico oltreché ineguale, e ciò modifica i rapporti di forza tra le potenze e ne mette in crisi l’equilibrio.

Nuove potenze emergenti, come la Cina e l’India, hanno bisogno del loro spazio vitale, e di una quota maggiore del bottino, di una nuova spartizione. Le convulsioni del trumpismo sono l’ultima manifestazione delle difficoltà incontrate dall’imperialismo americano nell’arginare l’invadenza dei nuovi player mondiali.

Quanto alla vecchia Europa, il più importante mercato, essa rischia di essere travolta di fronte a una crisi severa delle relazioni transatlantiche. Questo spiega in gran parte perché non solo la borghesia ma anche i ceti popolari, presi dal panico e dall’insicurezza, guardino alle esperienze politiche del passato per la soluzione dei loro problemi attuali.

Pertanto, pensare che le guerre recenti che vi sono state (vedi l’ex Jugoslavia), quelle in atto e quelle in preparazione siano un affare che non ci riguarda direttamente, sarebbe un grossolano abbaglio. Il disordine mondiale e la lotta tra gli imperialismi ci prende tutti, anche i moltissimi distratti. Lo si voglia o no, presto o tardi vi saremo trascinati per “dovere” o per dispiacere.

Vi sarebbe un modo per opporsi a tutto ciò, ma le premesse ideologiche e le condizioni materiali di tanta parte della popolazione europea non lo consentono. In ciò la grave responsabilità storica di tutti coloro che si sono illusi che il “mercato”, la globalizzazione e le nuove tecnologie avrebbero potuto sciogliere le contraddizioni immanenti al modo di produzione capitalistico e la relativa contesa imperialistica.

Ci sono periodi di tempo che ci sembrano lunghissimi perché s’aspetta una chiamata, un lavoro, la pensione, un matrimonio, una morte, un’eredità, la pioggia o la fine di una malattia. In realtà si tratta quasi sempre di pochi mesi o pochi anni. Ora aspettiamoci una guerra che non sembra per noi imminente e di cui però sentiamo parlare ogni giorno e alla quale tutti i governi si stanno preparando.


giovedì 12 giugno 2025

La differenza tra urina e uranio

 

C’è chi ama la montagna e chi il mare. Anche entrambi, ma per una vacanza diventiamo monoteisti, ci sono delle preferenze. Quando guardo dalle finestre di casa e vedo le montagne, mi assale tanta malinconia, specie la sera. Quello della montagna è un mondo affascinante, certo, di alte vette e laghetti algidi, ma quando cerco l’orizzonte lo sguardo sbatte contro un muro di carbonato doppio di calcio e di abeti assiderati.

Il mare è bellissimo e preziosissimo. Eppure, per molto tempo, lo abbiamo visto in un modo molto meno romantico: recetto della spazzatura, anche della più pericolosa, ovvero di quella nucleare. Tra il 1946 e il 1993 – data in cui queste discariche marine furono vietate – 14 paesi hanno scaricato i loro rifiuti radioattivi in 80 siti in tutto il mondo, nell’Artico, nel Pacifico e nell’Atlantico (circa 200.000 barili di rifiuti nell’Atlantico nord-orientale, al largo delle coste europee).

Gli Stati Uniti e l’URSS hanno addirittura sommerso i reattori altamente radioattivi delle centrali elettriche, e la Francia ha scaricato i residui dei test nucleari al largo delle coste della Polinesia. Anche Regno Unito e Svezia vi si sono dedicate con impegno. I relativi bidoni sono stati progettati per contenere la radioattività per circa vent’anni, non molto di più. È evidente che ora sono completamente fatiscenti. Su quale sia l’impatto basterebbe chiederlo al tonno, in vasetto o scongelato “fresco”, che oggi o domani sarà il nostro pranzo. L’isotopo fissile che si taglia con un grissino.

Gli “scienziati” approvarono in genere il metodo: l’idea era che i barili alla fine avrebbero avuto delle perdite, ma che la radioattività si sarebbe diluita così tanto nell’oceano da non avere più alcun effetto. Scienziati, appunto, non necessariamente tutti al soldo dell’industria nucleare. Com’è possibile abbiano avallato un simile demenziale inquinamento?

In linea di principio, la teoria della diluizione non è del tutto assurda. Sappiamo che urinare in una piscina o nel Mediterraneo non ha gli stessi effetti. Ma questo non è un motivo per applicare questo ragionamento a priori alla radioattività, e c’è ovviamente anche una differenza tra urina e uranio.

Il mare pullula di vita, di innumerevoli microrganismi e persino di pesci, e non sappiamo quasi nulla delle interazioni tra le profondità e la superficie, e poco anche delle interazioni biologiche. Supponiamo che un gambero si aggiri vicino a un bidone radioattivo, venga poi mangiato da uno squaletto che ci viene venduto come vitello di mare, oppure venga inghiottito dall’amico tonno di cui sopra, e che dunque finisca nel nostro piatto. La probabilità di contaminazione potrebbe essere bassa, ma non completamente nulla. Se hai 70anni d’età è una cosa, ma se ne hai solo 10, sappi che la radioattività ha il difetto di accumularsi.

Si potrebbe sperare che le autorità nucleari si sarebbero almeno prese la briga di localizzare i bidoni e le fuoriuscite. Figuriamoci! I bidoni radioattivi sono stati rilasciati un po’ dappertutto, ma non si dispone di dati molto più precisi. Forse non si è trattato di un desiderio di nasconderlo, ma hanno semplicemente pensato che non fosse importante. Specie da qualche anno a questa parte, quando sento parlare di “scienziati” e di “autorità” preposte a qualche cosa mi prende come un raptus ...

Dato lo stato di degrado di questi bidoni, pensare di riportarli in superficie (da 4.000 metri e oltre?) è ancora più pericoloso che lasciarli dove sono. Oltre ai rifiuti scaricati deliberatamente, ci sono anche gli oggetti radioattivi accidentalmente (?) finiti in acqua. Ad esempio, diversi sottomarini nucleari sono andati perduti nell’Atlantico. Ci sono persino bombe atomiche inesplose! Negli anni ‘60, i missili intercontinentali non erano ancora comuni, di conseguenza, le potenze nucleari avevano una flotta di aerei che solcava costantemente i cieli, trasportando bombe apocalittiche pronte per essere sganciate. Alcuni di questi bombardieri si schiantarono in mare con il loro carico radioattivo (per i curiosi, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) ha stilato un elenco di incidenti che hanno coinvolto materiali nucleari negli oceani.

I mari sono serviti da discarica non solo per il nucleare. Sono stati usati per ogni sorta di veleni. Durante la Seconda guerra mondiale, l’esercito tedesco accumulò grandi quantità di armi chimiche. Cosa fare di questa roba? Beh, semplicemente scaricarla nel Baltico! Sempre con la stessa argomentazione: niente di male, perché diluisce. Sempre dal lato “discarica chimica”: dopo che il DDT fu vietato negli anni ‘70, gli Stati Uniti se ne sbarazzarono scaricando 25.000 barili di questo insetticida altamente tossico al largo della costa californiana. L’impatto ambientale? Non lo sappiamo ancora oggi.

Ora abbiamo qualche remora in più nel considerare il mare come una discarica. La tendenza attuale è più quella di sfruttare le profondità marine per estrarre minerali per cellulari o batterie elettriche. Ma il problema è lo stesso. Dato che non sappiamo nulla o quasi di questi ecosistemi, non sappiamo nemmeno quali conseguenze questo possa avere. Chi sogna di industrializzare gli abissi sta commettendo gli stessi errori idioti di chi ieri li ha usati come discarica.


mercoledì 11 giugno 2025

La moda è un diritto di tutti

 

Passeggiando tra i banchi del mercato, vedo scene curiose. Per esempio l’assalto (termine appropriato) di donne a un certo banco di abbigliamento. Quel banco è diventato il luogo d’appuntamento per eccellenza di donne di tutte le età, ma specialmente molto mature, di ceto sociale simil-benestante. Molti capi di abbigliamento low cost, non proprio degli stracci (ci sono altri banchi di vendita per questo genere merceologico), comprese borsette carine e di buon materiale ma non di gran marca. Insomma, un successo commerciale perché, come ci raccontano, “la moda è un diritto, non un privilegio”.

Ho fatto una mia indagine: di dove e di come siano prodotti i capi ed oggetti d’abbigliamento non importa a nessuna di loro. Una discreta qualità e il basso prezzo è tutto ciò che le interessa. Questo fenomeno, ovviamente, non riguarda solo l’abbigliamento, ma si riscontra per altri oggetti della nostra vita quotidiana.

Un tempo le belle dame e i gentiluomini erano indifferenti al destino delle donne e degli uomini che, dall’altra parte del mondo, lavoravano come schiavi per produrre il cacao o il caffè che ingollavano in tazze di fine porcellana con il mignolo in aria. Oggi i consumatori del fast fashion sono guidati dalla stessa indifferenza e cinismo. Un paio di mutande tessute a 10.000 km dai nostri glutei, una sedia verniciata ai tropici di una famosa marca svedese, un frigorifero importato da chissà dove, lampadine prodotte in Cina, palloni cuciti in India, eccetera.

La moda ha creato una nuova casta di aristocratici, benestanti e no, che pretendono di comprare vestiti a loro piacimento senza preoccuparsi degli schiavi moderni, bestie da soma il cui destino è per noi indifferente, che li hanno prodotti dall’altra parte del pianeta. Le famose catene immateriali di cui parlava un giovanotto di Treviri. Questa società dei consumi ci ha resi i nuovi schiavisti, ben sistemati nel nostro piccolo comfort egoistico, abituati a far fare ad altri lavori che noi non vogliamo fare e di cui vogliamo ancora meno conoscere l’esistenza.

Ognuno di noi torna a essere un piccolo negriero moderno. Sappiamo (?) da tempo quanto sia inquinante l’industria tessile (un solo lavaggio di indumenti in poliestere può rilasciare 700.000 fibre di microplastica, che possono finire nella catena alimentare), non solo per i prodotti tossici utilizzati per tingere e trattare i tessuti, ma anche per il loro trasporto su navi portacontainer, le più grandi delle quali consumano fino a 300 tonnellate di (pessimo) carburante il giorno. La produzione folle di abiti (ogni anno vengono consumati 130 miliardi di capi di vestiario) che a volte i clienti indossano solo tre o quattro volte l’anno è praticamente un atto criminale (*).

I lobbisti del fast fashion dimostrano che nella mente del cliente esiste una discrepanza tra ciò che crede di acquistare e la realtà. I consumatori rinunciato a comprendere come sia fatto l’oggetto che acquistano. Come i bambini che credono che gli yogurt crescano nei campi, gli adulti credono che i vestiti maturino sugli alberi e che basti allungare la mano per raccoglierli.

Abbiamo bisogno di questi vestiti a buon mercato per poter godere anche noi del “diritto alla moda”, che un giorno potrebbe diventare oggetto di referendum, rispettato con la stessa religiosità dei diritti alla libertà di espressione, di coscienza e di movimento. Comprare pantaloni e camicie, non importa se orribili e volgari, è diventato vitale quanto pensare ed esprimersi. Le libertà fondamentali allo stesso livello dei saldi e delle promozioni al 50%.

(*) L’industria tessile è la terza delle più impattanti al mondo per gas serra, dopo l’agricoltura e i trasporti totali, ma più dell’aviazione e del trasporto marittimo messi insieme); la seconda più inquinante del pianeta dopo il petrolio. L’impiego di prodotti sintetici come acrilico, viscosa (semisintetico), l’elastan (lycra), la poliammide (nylon) e il poliestere (quest’ultimo il più impiegato: 60 milioni di tonnellate prodotte nel 2021); enorme uso dell’acqua nel ciclo di produzione (produzione fibre vegetali e loro lavorazione); rilascio di sostanze chimiche tossiche nell’aria e nell’acqua, tra cui agenti cancerogeni e interferenti endocrini; smaltimento dei rifiuti, eccetera.

Per esempio, la tintura e la finitura di un capo di abbigliamento rappresentano circa il 36% delle emissioni chimiche nell’ambiente. Una delle sostanze chimiche utilizzate (non la più nociva) è il cd. bianco di titanio, ossia biossido di titanio (TiO2), un composto inorganico utilizzato come pigmento bianco o catalizzatore (in uso additivo alimentare: E171). Insolubile, il TiO2 causa piogge acide quando reagisce con acqua e aria. Inalato è cancerogeno.

Secondo l’Agenzia Europea dell’Ambiente, nel 2020 gli acquisti di prodotti tessili nell’UE hanno generato emissioni di CO2 equivalenti a 270 kg pro capite. Ciò significa che i prodotti tessili consumati nell’UE hanno generato emissioni di gas serra pari a 121 milioni di tonnellate. Secondo il WWF il settore emette 1,7 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno, ma c’è anche chi stimo 4mld di tonnellate. Oggi, oltre il 95% dei prodotti tessili venduti è realizzato con materiali vergini. Il fabbisogno di materie prime vergini rimarrà enorme anche se si svilupperanno settori circolari. Ad ogni modo, meno della metà degli abiti usati viene raccolta per il riutilizzo o il riciclo, e solo l’1% viene riciclato in nuovi abiti. Riciclare materiali potenzialmente tossici non ha senso se non si riesce a risolvere il problema durante il processo di riciclaggio, che ovviamente deve essere pulito.