Con la fine di Bretton Woods, ossia della convertibilità del dollaro in oro, la massa monetaria in circolazione di qualsiasi valuta non ha più alcun aggancio con la quantità di oro presente nelle varie banche centrali. In tal modo la moneta s’è sganciata dal valore reale e universale della merce oro.
La banconota non è più segno di un valore tangibile, ma è divenuta in tutto e per tutto un pezzo di carta a mezzo del quale si riconosce legittimità a due poteri: il primo è politico, ed è quello che fa capo a uno Stato o all’Unione europea, e autorizza un’istituzione finanziaria a stampare quel pezzo di carta, a cui riconosce un “corso legale”, ossia forzoso; il secondo è economico, ed è esercitato da una banca, che la politica ha definito “centrale”, che ha l’autorità di emettere moneta e di essere garante del sistema di circolazione.
Una moneta garantita da che cosa? Dalle riserve auree? Esigue, rispetto alla massa di moneta circolante. Questo fatto apre già un problema, che non viene in luce proprio perché la circolazione di una moneta si basa sulla fiducia di tutti. Fino a quando?
Se all’interno di una comunità nazionale e internazionale accetto di effettuare transazioni di beni e servizi sulla base di valori nominali di una moneta cartacea (molto spesso le transazioni sono computerizzate), posso anche accettare che lo scambio economico avvenga sulla base non di una banconota ma di un codice, precisamente di una stringa alfanumerica, che mi permetta di acquistare beni e servizi. Ecco che quella stringa digitale alfanumerica diviene una moneta, un Bitcoin, una moneta digitale che opera senza intermediari finanziari.
Possedere dei bitcoin significa avere un portafoglio virtuale – ossia un indirizzo Bitcoin (sequenze casuali alfanumeriche lunghe in media 33 caratteri) – che utilizza un sistema di crittografia asimmetrico, a doppia chiave, pubblica e privata (ogni coppia di chiavi è formata in modo tale che ciò che viene cifrato con una, può essere decifrato solo con l’altra): ai bitcoin è associata la chiave pubblica del portafoglio, e ogni individuo può spendere solo la criptovaluta collegata al proprio indirizzo, mentre la chiave privata consente di apporre la propria firma digitale per effettuare il pagamento (*).
Concettualmente il Bitcoin non è molto diverso dalla tradizionale moneta contabilizzata elettronicamente dalle banche, e soddisfa le caratteristiche di garanzia necessarie, ossia la sua proprietà può essere univocamente e irrevocabilmente identificata, e non è possibile il double spending, cioè la doppia spesa con gli stessi bitcoin (né con la stessa somma in conto corrente).
Nel caso del Bitcoin la funzione di garanzia è stata assegnata non a un’istituzione finanziaria, ma a tutta la rete peer-to-peer (P2P), grazie al sistema blockchain (vediamo subito cos’è), pertanto è stata sostituita la fiducia bancaria con la crittografia.
L’architettura tecnica del Bitcoin, nella sua idea essenziale e nella sua dinamica inerziale, è meno complicata di quanto si creda. Il fatto che le chiavi di tutti i portafogli Bitcoin siano pubbliche, rende pubbliche tutte le transazioni, memorizzate in un database – una sorta di “libro contabile” generale, disponibile a tutti i nodi della rete, appunto la blockchain (“catena di blocchi”) – che finisce per contenere lo storico di tutti i movimenti di tutti i bitcoin generati, a partire dall’indirizzo del loro creatore fino all’ultimo proprietario. Questo permette di verificare che i bitcoin oggetto di una qualsiasi transazione appartengano effettivamente a un dato portafoglio.
Questo per quanto riguarda la circolazione dei bitcoin. Altra questione è quella della creazione della massa dei bitcoin in circolazione (quello che con la moneta tradizionale fa la banca). Confermare un pagamento in bitcoin significa risolvere un problema di crittografia ricevendo in cambio una ricompensa in nuovi bitcoin.
Tuttavia, il grosso della creazione di bitcoin avviene con cadenza temporale costante. Il software Bitcoin rilascia nella rete P2P un blocco Coinbase: lo potremmo definire un problema crittografico da risolvere. Il primo computer della rete che ne arriva a capo, trovando attraverso dei calcoli una serie di numeri, riceve una ricompensa in bitcoin di nuova emissione (un valore che si dimezza ogni quattro anni circa).
È dunque una specie di caccia al tesoro, che viene definita attività di mining, ossia di “estrazione” (simbolicamente dell’oro). Dapprima per i “minatori” erano sufficienti dei computer personali per risolvere il problema crittografico. Man mano che la rete è cresciuta, il problema crittografico si è fatto più complesso. I proprietari dei relativi pc hanno iniziato ad acquistare hardware specializzati in quel particolare processo di calcolo, e sono nati i mining pool: nodi di rete che si sono uniti, per accrescere la potenza in termini computazionali, spartendosi poi la ricompensa in nuovi bitcoin a seconda del contributo al processo di calcolo dato da ciascun computer.
Si è prodotta una sorta di élite che effettua Coinbase, risolve complessi problemi matematici per aggiungere nuovi blocchi alla catena e verifica le transazioni, traendone un guadagno in nuovi bitcoin, a fronte di una massa di utenti che non possono che limitarsi a utilizzare la criptovaluta. In breve: grandi capannoni, situati generalmente nei pressi di centrali elettriche, dalle quali attingono l’energia per alimentare un enorme numero di computer dedicati all’attività di mining.
Fino al 2021, in Cina era delocalizzata una percentuale notevole del processo di mining, con la medesima logica della delocalizzazione manifatturiera. Vi lavorano addetti al controllo dei computer, a salari cinesi, che operano in lunghi turni, spesso dormendo sul posto. Dopo le restrizioni cinesi, il Kazakhstan e il Canada sono diventati hub importanti per il mining di criptovalute, in particolare Bitcoin.
Da moneta speculativa le criptovalute, dunque anche i bitcoin, si sono trasformati anche in moneta di riserva. Il 23 gennaio, Trump ha firmato l’ordine esecutivo Strengthening American Leadership in Digital Financial Technology, con cui apre la strada alle criptovalute. In tal modo affossando le valute digitali delle banche centrali e favorendo le criptovalute private. L’ordine presidenziale è la pietra tombale sul progetto di dollaro digitale emesso dalla FED e, in generale, sull’utilizzo all’interno degli Stati Uniti di qualsiasi valuta digitale nazionale.
Il 6 marzo, con un altro ordine esecutivo, il presidente USA ha istituito una “riserva strategica di bitcoin”, nella previsione di ampliarla ad altre criptovalute al fine di “stabilire una riserva di asset digitali degli Stati Uniti”. Al momento nel conto andranno “tutti i bitcoin detenuti dal Dipartimento del Tesoro che sono stati definitivamente confiscati come parte di procedimenti penali o civili”. Ciò segna un cambiamento nel ruolo di Bitcoin all’interno del sistema finanziario globale, da attività speculativa a strumento di riserva macroeconomica legittimo e riconosciuto.
In caso di grave crisi finanziaria, queste riserve basate sul nulla che funzione avranno? Appunto quella di essere semplicemente virtuali. Che cosa potrebbe succedere? Parafrasando Enrico Cuccia a proposito di Mediobanca, si può dire che se anche l’Impero romano è crollato ... . E dunque? Risposta: perché preoccuparsi di cose sulle quali nulla sappiamo ancora e nulla possiamo?
(*) Il sistema Bitcoin è non solo sicuro ma anche trasparente. Ogni persona può generare un numero infinito di doppie chiavi crittografiche (pubblica/privata) e dunque un numero infinito di portafogli (indirizzi) Bitcoin: anche uno per ogni singola transazione. Se la chiave privata viene smarrita, i bitcoin a essa associati sono irrimediabilmente persi, distrutti come banconote in un falò, perché non esiste altro che quel codice per dimostrarne la proprietà e quindi utilizzarli.