lunedì 25 settembre 2023

Non è il papa degli stuprati

 

I temi preferiti da Francesco l’Argentino, vescovo di Roma e papa dei cattolici, sono lo squilibrio nord/sud, la povertà, i migranti che muoiono cercando di raggiungere le nostre coste, il cambiamento climatico: tante nobili cause! Il papa è davvero uno di sinistra? Per quanto il concetto di sinistra sia oggi slavato in candeggina, non facciamoci ingannare dal suo tono falsamente benevolo ed empatico: è un gesuita in versione populista. La dottrina sociale della Chiesa fu uno dei nuclei centrali del peronismo.

Del vecchio continente, dell’Europa ricca e decadente, sempre più miscredente, gli importa solo che “accolga”. Gli piace sottolineare le responsabilità collettive, quelle dei paesi europei, ex coloni e attuali grandi inquinatori. La ricchezza del Vaticano è apparsa grazie allo Spirito Santo. Dovrebbe ricordarsi di ciò che per secoli hanno combinato i cattolici in America Latina, ma è roba troppo datata e il mea culpa dura il tempo di una scorreggia.

Non aspettatevi che porgano la guancia, né l’una né l’altra, o che la smettano di mettere le mani nei pantaloni dei ragazzini. E poi il buon Francesco è il papa degli annegati, non degli stuprati. Per costoro, l’ufficio reclami del Vaticano è chiuso.

Soprattutto cerca di tenersi lontano dalle responsabilità delle decine di migliaia di stupri e violenze messe in atto dai preti cattolici in tutta Europa (tranne che in Italia, ovviamente). Anche la Svizzera, così attenta a non pestare le uova vaticane, ha dovuto attendere un rapporto sugli stupri dell’Università di Zurigo, pubblicato la settimana scorsa. Poco più di mille abusi, ma si deve tener conto che molte persone sono morte e molte altre sono ancora murate nel proverbiale riserbo elvetico.

Per un caso di calendario, due giorni prima della diffusione del rapporto la Conferenza dei vescovi svizzeri ha confermato l’apertura di indagini canoniche preliminari contro diversi vescovi emeriti o in servizio sospettati di occultamento di violenze sessuali o aggressioni da parte di religiosi cattolici.

Per non dire della Commissione indipendente sugli abusi sessuali nella Chiesa in Francia. Un approfondito lavoro statistico ha stabilito una stima del numero delle vittime dei preti pedofili: più di 200.000 presunte vittime e una “portata minima” stimata tra 2.900 e 3.200 preti pedofili dagli anni ‘50. Anche in questo caso, come dice lo studio Svizzero, si tratta della punta dell’iceberg.

Personalmente non mi faccio distrarre dalle cifre, specchio preferito, non solo su questo tema, di chi vuole distrarsi dall’essenziale, ossia che non si vogliono mettere in chiaro i motivi che stanno alla base della pederastia ecclesiastica. Quanto al resto, mi pare evidente che dietro alcune frasi e prese di posizione di circostanza si nasconde l’instancabile ossessione di negare la realtà: per decenni la gerarchia cattolica ha nascosto sistematicamente e deliberatamente migliaia di crimini (anche omicidi), ha coperto i loro autori e spesso ha permesso loro di ricominciare, affrancandosi ostinatamente dalla giustizia civile.

Francesco e i suoi cardinali “affermano di voler far luce” sugli abusi sessuali dei preti, ma rifiutano di consentire l’accesso agli archivi della nunziatura e del Vaticano. Vili pagani che vogliono ficcare il naso negli affari clericali. L’uomo con la mitra vuole concentrarsi sulla situazione dei migranti e sul deplorevole atto di chi brucia i libri “sacri”.

Quando alla fine di giugno un cittadino iracheno di 37 anni, fuggito dal suo Paese, ha bruciato alcune pagine del Corano davanti alla più grande moschea di Stoccolma, nell’ambito di un raduno autorizzato dalla polizia svedese, subito Francesco si è offeso in questi termini: «Ogni libro considerato sacro dai suoi autori deve essere rispettato, per rispetto dei suoi credenti. [...]. Sono indignato e disgustato da queste azioni».

Ogni libro ritenuto sacro dai suoi autori? E da quando il papa conosce chi ha scritto la Bibbia, oppure i Vangeli? Quanto al Corano, basta sfogliarlo per rendersi conto di che cosa si tratta e di chi nel corso di un paio di secoli può averlo scritto. Se seguissimo il ragionamento del papa, e se domani scrivessimo un libro “sacro”, nessuno avrebbe il diritto di bruciarlo, di gettarlo nella spazzatura o di usarlo come sostegno del letto.

Il libro sacro “va rispettato, per rispetto dei suoi credenti”? Secondo il sovrano pontefice il credente sarebbe quindi un essere umano di qualità morale, spirituale e intellettuale superiore a chi non crede. Si stabilisce così una gerarchia tra credenti e non credenti. Se vivi senza il Vangelo, senza la Torah o senza il Corano, le tue convinzioni sono di fascia bassa rispetto alle convinzioni di fascia alta dei credenti. Così ha deciso il papa.

Vedere i libri bruciati non è mai stato stata una cosa molto rassicurante. Per secoli questo privilegio è stato riservato proprio alla Chiesa e più in generale alle religioni. Ma questi testi non sono stati scritti da romanzieri, filosofi, accademici o politici. Sono opere interne alle religioni, scritte per sottomettere e controllare le persone, perché obbediscano ciecamente. Bruciarli è un atto di libertà, che libera dalla loro presa sulle coscienze. Bruciarli ha il significato di liberarsi dalle loro catene, dalle affermazioni arbitrarie di cosa è bene e cosa è male.

Daremmo la colpa a uno schiavo per aver spezzato le sue catene per riconquistare la libertà?

domenica 24 settembre 2023

C'è del metodo nell'esproprio

 

Sulla tassazione degli extraprofitti delle banche il governo si predispone a fare marcia indietro (già sono in rete le bozze delle modificazioni), consentendo alle banche di capitalizzare la tassazione prevista dal provvedimento di agosto. Con ancor maggior diritto anche salariati e pensionati dovrebbero poter capitalizzare in proprio le maggiori imposte dovute su eventuali aumenti di reddito.


Non solo le banche, tassare gli extraprofitti di farmacie, centri di analisi mediche e altri laboratori, che non hanno mai guadagnato tanto quanto negli anni del Covid.

Lo stesso si potrebbe dire delle società Internet i cui profitti sono esplosi durante il lockdown, e di tante altre realtà economiche e finanziarie, come le società di intermediazione mobiliare, eccetera.

Molte attività e società hanno ottenuto con il Covid i loro migliori risultati. Stiamo parlando di profitti in crescita del 40-60%, mentre sarebbero crollati del 20-30% senza gli aiuti statali. E ora continuano la vendemmia moltiplicando i loro prezzi con la scusa dell’inflazione. Li lasciamo così grassi?

La globalizzazione economica e la legislazione della UE hanno svuotato in gran parte il ruolo fiscale degli Stati. Lo shopping dei trattati fiscali permette alle multinazionali di far divergere la sede delle attività economiche dall’ubicazione dei profitti, garantendone l’occultamento legale (tra l’altro i country by country reporting non sono pubblici, salvo quelli delle finanziarie).

Non solo le multinazionali, ma come ben sappiamo è ampia la frode delle piccole e medie imprese e dei liberi professionisti. Non male il fatto di definirle “professioni liberali” quando si vive di solidarietà nazionale. Si tratta di un vero e proprio abuso del bene pubblico il non restituire allo Stato e alla società almeno una parte dei profitti straordinari realizzati grazie al Covid, all’inflazione e pura speculazione.

Questa classe di devianti fiscali rifiuta sia i fini che i mezzi di tassazione. E per quanto vi è costretta, trova una solida sponda nella complessità fiscale e l’uso sapiente del diritto tributario (uno stuolo di fiscalisti, commercialisti, notai, avvocati per l’ottimizzazione fiscale, che non è roba per redditi tassati alla fonte).

Sia chiaro, non mi faccio lusingare dalla sociologia fiscale, anche perché considero la “legalità”, non solo in materia fiscale, un fatto tecnico e non politico. La dittatura del capitale, la legge del più forte, è abilmente dissimulata ed è una realtà storica che non può essere rovesciata attraverso le “riforme”.

Una limatura ai profitti farebbe sembrare il sistema un po’ meno iniquo, e però neanche questo viene concesso. L’aristocrazia del denaro ha stravinto e le plebi non si prendono cura di queste cose, impegnate come sono in altre faccende di pensiero (non affatichiamole).

La situazione è chiara: esiste un rapporto sistemico tra indebitamento a beneficio di una classe privilegiata di rentiers e tassazione della maggioranza. I creditori, rentiers degli Stati in debito, formano un’élite finanziaria globalizzata, e i contribuenti nazionali hanno l’onere di ripagare il debito. Meglio di tutti lo sanno i greci, quelli poveri s’intende.

Il rigore di bilancio, con la sua quota di prelievi aggiuntivi. L’ineguale tassazione, non serve un manuale per saperlo, non solo produce perdita di entrate pubbliche, ma rafforza la stratificazione sociale e il ruolo ricattatorio delle consorterie politiche (i vampiri di Bruxelles e di altri covi simili la chiamano attività di lobbying, oppure ruling fiscale, ossia negoziazione privilegiata delle imposte).

I beneficiari di rendita, ossia coloro che detengono il debito dello Stato, esercitano pressioni, con l’appoggio delle agenzie di rating, affinché il rimborso del debito sia garantito dal controllo delle finanze pubbliche. Perciò si taglia la spesa sociale, mentre tassare gli utili delle società e i cospicui patrimoni è sempre un no, no, no. Con motivazioni stupide a cui un bambino non crederebbe.

Arriviamo dunque alla categoria sociale che risparmia (i famosi “risparmiatori”), costituita prevalentemente da veri benestanti, categoria favorevole alle misure che mirano a evitare il fallimento delle banche e, più in generale, il collasso del sistema finanziario. Hanno interesse a sostenere i piani di austerità che assicurano il controllo delle finanze pubbliche, essenziale per il rimborso del debito, ma sono ovviamente riluttanti a mettere in discussione il loro status sociale, e molti di loro sono propensi alla “rivolta fiscale” e criticano il peso degli aumenti fiscali che li colpiscono (di striscio).

Non si pensi che sia solo un tratto “italiano”. Il chiagni e fotti è un piatto del menù internazionale, come gli spaghetti o la pizza.

Questa categoria sociale è quella che più massicciamente vota, è politicamente trasversale, ma per ovvie ragioni più orientata a destra, sostiene compatta di essere liberale ma con grandi variazioni per quanto riguarda il sentimento di giustizia sociale. È oscillante nel voto, sfiduciata ma pronta a farsi rappresentare da chi prometta di farlo nei suoi interessi (che considera sempre legittimi).

Quanto alla Banca centrale europea, essa dà una mano continuando il suo folle rialzo dei tassi d’interesse, con il rischio reale di uccidere la gallina dalle uova d’oro con una recessione economica.

Concludendo: non si può credere che ciò accada per caso o motivato da particolari congiunzioni socio-astrali. C’è del metodo in questa follia, nei privilegi fiscali delle classi dominanti e nell’impoverimento strutturale dello Stato: il capitalismo avanzato espropria lo Stato delle sue proprietà facendolo diventare dipendente dai creditori privati.

L’indebolimento dello stato sociale mette in discussione tutto il resto: crollo della politica, crollo del pensiero, crollo della ragione. Ripeto: c’è del metodo nell’esproprio da parte dei padroni della società.

Ci stanno mandando a sbattere contro il muro suonando il clacson, e ne sono orgogliosi. Danno la colpa alla spesa sociale, alle pensioni, sanità, scuola, eccetera. Quanto alla sovranità, c’è chi ne parla, e chi se la compra.

(*) Il sen. Enrico Borghi ha ragione solo in parte quando scrive che il concetto di “extraprofitto” richiama il marxista “plusvalore”. Per Marx, e per la stringente realtà economica, si tratta in ogni caso di estorsione di valore. Marx lo distingue in plusvalore relativo e assoluto. Ma non si può pretendere che degli scribacchini del libero scambio, i teorici dell’efficienza del mercato che parlano di “sacrificio richiesto alle banche”, abbiano la benché minima idea di che cosa si tratti e soprattutto avvertano la decenza di nominare cose di cui conoscono al massimo il significato più superficiale.

venerdì 22 settembre 2023

Creare “fatti sul campo”

 

Nel mezzo di una crisi militare sempre più profonda innescata dal fallimento dell’offensiva di primavera dell’Ucraina, dopo aver dimissionato il suo ministro della difesa e tutti i suoi vice, ieri il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj ha trascorso delle ore a porte chiuse al Pentagono, incontrandosi con il segretario alla difesa Lloyd Austin e poi con il presidente Joe Biden, alti funzionari del governo, rappresentanti del Senato e importanti esponenti della Camera.

Gli incontri hanno fatto seguito ai discorsi di Biden e Zelenskyj al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, in cui Biden ha escluso qualsiasi soluzione negoziata del conflitto mentre Zelenskyj ha recitato la solita parte che in Vietnam fu di Ngô Đình Diệm, “il Churchill dell’Asia sud-orientale”, secondo la definizione di Lyndon Johnson.

Il Pentagono ha affermato che l’incontro mirava a “discutere i requisiti di capacità a lungo termine dell’Ucraina e come sostenerli in futuro in termini di deterrenza verso la Russia”. Nonostante mesi di propaganda mediatica, l’offensiva ucraina si è rivelata una sanguinosa debacle, che le agenzie di intelligence statunitensi ammettono non riuscirà a raggiungere gli obiettivi minimi prefissati.

La verità è presto detta: annunciata con mesi d’anticipo, iniziata il 4 giugno, la controffensiva di primavera, con l’obiettivo primario di attraversare la “linea Surovikin” nel sud del paese e raggiungere il mare d’Azov, dopo mesi di tentativi si è rivelata un’impresa sanguinosissima e finora senza speranza. Le forze di Kiev sono riuscite a passare la prima delle tre linee di difesa costruite dalle truppe del genio russe lungo il fronte. Raggiunta la seconda linea a sud di Robotyne, nell’oblast di Zaporizhia, gli ucraini hanno guadagnato, secondo Le Monde, un’area di appena 1,5 kmq di territorio agli inizi di settembre, ma non sono riusciti ad andare oltre.

Da metà ottobre, con l’arrivo dell’inverno, tutto sarà reso molto più difficile. Del resto, se all’esercito ucraino venisse ordinato di continuare ad oltranza l’offensiva, i soldati si ammutinerebbe. Non sono più disposti a morire per la cricca corrotta di Kiev e per gli interessi di Washington, ma questo non si adatta alle sciocchezze scritte dal dipartimento di stato statunitense e riprese da buona parte dei media occidentali. Ciò non significa che anche i soldati russi mobilitati non soffrano la loro situazione in trincea e le gravi perdite, ma né Mosca né Kiev comunicano dati in proposito.

Anche sul fronte interno le cose non vanno meglio, dove la popolazione è sempre più stanca del conflitto in corso. Da notare che il miliardario ucraino Igor Kolomoisky, artefice dell’ascesa di Zelenskyj e presidente del Parlamento ebraico europeo (esiste!), è stato incriminato formalmente per manipolazione finanziaria delle sue partecipazioni nel settore del petrolio e del gas: lo riportano i media ucraini.

Con il fallimento dell’offensiva ucraina, l’amministrazione Biden è giunta alla conclusione che l’unico modo per raggiungere gli obiettivi degli Stati Uniti è aumentare massicciamente il loro coinvolgimento nel conflitto. Biden teme che l’esito delle elezioni del 2024 possa mettere a repentaglio il proseguimento del coinvolgimento degli Stati Uniti nel conflitto e sta cercando di trasformare la guerra in uno scontro diretto con la Russia, ossia di creare “fatti sul campo” che renderebbero impossibile a una nuova eventuale amministrazione di porre fine al conflitto.

giovedì 21 settembre 2023

Chi luciderà gli stivali


Una cosa in particolare mi manda fuori dai gangheri quando leggo un libro o un articolo. Sono le citazioni o gli aneddoti riferiti a Marx senza indicazione della fonte. Una disinvoltura piuttosto comune sotto qualunque bandiera, ma che nella pubblicistica italiana trova il suo modello esemplare.

Stavo leggendo un articolo pubblicato a suo tempo da un giornale al quale in anni lontani sottoscrissi più volte un abbonamento, nonostante vi scrivesse gente come Giovanni Riotta e il fantasma di Lucia di Lammermoor. Riporto l’aneddoto così come viene raccontato nell’articolo:

«[...] torna alla mente l’episodio di Marx con la signora Kugelmann, la moglie del noto ginecologo che ospitò il filosofo a casa sua, per alcuni mesi, dopo che aveva ultimato la stesura del primo libro del Capitale.

Trovandosi tutti insieme a tavola, si narra che un ospite avesse punzecchiato la “vecchia Talpa” provocandolo con una domanda su chi avrebbe lucidato le scarpe nella società comunista. “Lei, naturalmente!”, lo fulminò Marx.

La signora Kugelmann, per stemperare il clima, commentò scherzosamente che non riusciva a immaginarsi Marx in una società veramente egualitaria, visti i suoi gusti e le sue abitudini così aristocratici. “Nemmeno io”, fu la risposta del filosofo tedesco, “quell’epoca verrà ma noi non ci saremo più!”».

Sia chiaro: sostanzialmente quanto raccontato è esatto, ma che ci volete fare, ho la fissa per i maledetti dettagli.

Per prima cosa bisogna risalire alla fonte, che come ho detto non è citata nell’articolo. Ricordavo l’aneddoto, sebbene l’avessi letto quasi mezzo secolo fa. Sgranocchiando un grissino e bevendo un primo bicchiere di un decente vermentino sardo acquistato stamani con lo sconto del 30%, mi diressi verso il mio sancta sanctorum per pescarvi a mano sicura il volume che riguarda l’aneddoto sul Grande Vecchio (*).

Consulto l’indice al nome di Gertrud Kugelmann, moglie del dottor Ludwig Kugelmann, pioniere della ginecologia, quindi le relative pagine. Trovo conferma nei miei sospetti, ovvero che alcuni dettagli nell’articolo del giornale non corrispondevano esattamente a quanto testimoniato dalla figlia di Gertrud.

È vero che Marx fu ospite dei Kugelmann nel 1867, ma non per “alcuni mesi”, bensì per alcune settimane. Non solo “dopo la stesura” de Il Capitale, ma proprio tra aprile e maggio nel mentre ad Amburgo l’editore Meissen stava stampando il libro (vedi lettera del 24 aprile e 7 maggio ad Engels). Marx già il 19 di maggio faceva ritorno a Londra, soggiornando a Manchester da Engels dal 21 maggio fin verso il 2 giugno 1867 (MEOC, XLII).

Vero anche, secondo la testimonianza resa da Franziska Kugelmann dopo il 1900, che Marx alla domanda su chi avrebbe lucidato le scarpe nella “società del futuro” aveva risposto: «Lei, naturalmente!». Tuttavia, secondo Franziska, ciò non avvenne a tavola, ma in un contesto imprecisato, e quella fu l’unica volta in cui Marx perse la pazienza per simili domande.

Anch’io (si parva licet) perdo la pazienza quando mi chiedono di congetturare sul futuro e di proporre soluzioni o azioni per il presente. In genere, si tratta di postulanti che hanno bisogno di sapere in anticipo a quale futuro capataz dovranno lucidare gli stivali.

(*) Colloqui con Marx e Engels, Testimonianze raccolte da Hans Magnus Enzensberger, Einaudi, 1977, p. 258.