Caro Sergio
Marchionne,
anche se con molto ritardo,
ritengo sia giunto il momento di rispondere alla sua lettera, inviatami il 9
luglio 2010. Vorrei tanto poterla incontrare perché ho delle domande da porle
e, soprattutto, vorrei cercare di capire dov’è finito l’uomo che ci disse:
«Scrivere una lettera è una cosa che si fa raramente e solo con le persone alle
quali si tiene veramente. Vi scrivo prima di tutto come persona, prendete
questa lettera come un modo più diretto e più umano che conosco». So che non è
sua abitudine interloquire con chi ha di fronte, che non ama il confronto né il
conflitto; mentre io penso che alla base di ogni rapporto ci sia prima il
confronto e, se necessario, anche un sano conflitto per poter raggiungere degli
obiettivi.
Io in fabbrica ci sto da 30
anni, ho svolto tantissimi lavori e ho contribuito, senza presunzione, ai
profitti dell’azienda. Ecco perché mi sembra irrispettoso da parte sua
togliermi il lavoro che ho svolto sempre con il massimo impegno e continuità,
nonostante i tanti disagi. Se era vero che teneva a noi, perché ha cambiato
idea? Un uomo, quando fa delle scelte così difficili, deve avere il coraggio di
guardare negli occhi coloro che ne pagheranno le conseguenze, altrimenti è solo
un codardo. Come mamma, anch’io ho dovuto guardare negli occhi i miei figli per
dire loro che le cose sono cambiate e che bisogna essere pronti a fare enormi
sacrifici. Ma anche che dobbiamo resistere e rimanere insieme, perché restare
uniti nei momenti di difficoltà è la sola cosa che aiuta.
Lei non ha voluto fare questo
sforzo. Non ha atteso che passasse la bufera. Ha gettato la spugna cercando di
mettersi al sicuro. Troppo semplice così: i veri eroi sono quelli che resistono
soprattutto nei momenti di difficoltà. Ma lei l’alternativa l’aveva, noi no.
«Vi scrivo da uomo», continuava la sua lettera, «che ha creduto e crede ancora
fortemente che abbiamo la possibilità di costruire insieme, in Italia, qualcosa
di grande, di migliore e di duraturo. Perché la cosa peggiore di un sistema
industriale, quando non è in grado di competere, è che alla fine sono i
lavoratori a pagarne direttamente e senza colpa, le conseguenze». Perché ha
dimenticato tutto questo? E il fatto che nelle fabbriche c’erano uomini e
donne, ognuno con una propria storia e con una famiglia e dei figli da
mantenere? Senza rancore, le chiedo di avere l’umiltà di ammettere che ha
fallito. Il suo piano di Fabbrica Italia ha seminato un numero indefinito di
disoccupati; 50enni senza pensione e giovani senza futuro.
L’Italia, Paese che lei dice di
amare, resterà probabilmente senza la Fiat e, se il governo non interviene,
rischiamo di finire in mano agli speculatori che vorranno appropriarsi solo dei
nostri marchi. Se l’obiettivo era di abbassare il costo del lavoro, forse l’ha
ottenuto. Noi saremo, in futuro, il Paese in cui sarà più utile investire. Una volta affamati non saremo più liberi di
poter scegliere e se avremo un lavoro sarà senza diritti e a basso salario.
Eppure lei scriveva: «Non abbiamo intenzione di toccare nessuno dei vostri
diritti, non stiamo violando alcuna legge. Quello che stiamo facendo è tutelare
il lavoro, proprio quel lavoro su cui è fondata la Repubblica italiana. Non c’è
nessuna contrapposizione tra azienda e lavoratori, sappiamo bene che la forza
di un’organizzazione arriva dalle persone che ci lavorano e lo avete dimostrato
nel 2004 salvando la Fiat dall’orlo del fallimento». E continuava:
«Quello di cui c’è bisogno è un grande sforzo collettivo, una specie di patto
sociale per condividere gli impegni, le responsabilità e i sacrifici. È il
momento di guardare al bene comune e di lasciare da parte gli interessi
particolari. Sono convinto che anche voi, come me, vogliate per i nostri figli
e per i nostri nipoti un futuro diverso e migliore».
Noi quei sacrifici li stavamo
facendo, avendo accettato la sfida. Lei invece ha inevaso tutte le promesse,
chiudendo il nostro stabilimento. Sottolineo nostro perché ritengo che la Fiat,
proprio per i motivi da lei citati, sia anche nostra. Le parole scritte nella
sua lettera hanno un acre sapore di postumo. Resta l’amarezza di non avere
avuto il diritto di replica. Ma anche per lei non si prospettano momenti
sereni. Ci sarà un tempo in cui tutti coloro che hanno avallato le sue scelte e
l’hanno osannata in parlamento nel febbraio del 2011, prenderanno le dovute
distanze. La storia ci insegna che questa, in Italia, è una pratica molto
diffusa.
Silvia Curcio operaia Irisbus
Lunedì, 03 Settembre 2012
mah, sarà un caso che nel parlamento non ci sia un operaio?
RispondiEliminaè da tempo che sostengo che marchionne è destinato a fare un bel botto,con i suoi giochetti da travet di piccolo cabotaggio della finanza luganese.
peccato che, come al solito, il malloppo è già ben al sicuro nella sua posticcia residenza svizzera, in cui,naturalmente, riesce a pagare meno tasse che in italia.
l'insieme è così grottesco che ci vuole tutto il mestiere del giocoliere scalfari per attribuirgli un qualsiasi senso civile.
ciao,ciao,l'hai visto il film? gianni