di Tommaso Di Francesco (sul manifesto di ieri)
Oggi, 11 settembre 2011, avrebbe dovuto essere la data ideale per una celebrazione sempre più rituale e distante dell'attacco alle Torri gemelle di dieci anni fa. Tanto più che Osama bin Laden, il nemico numero uno, è stato ucciso. E trionfa il pensiero corrente, unico e politicamente corretto, sparso a bracciate da Bernard Henri-Lévy, il consigliere militare anglofrancese ancorché "nuovo filosofo", che vuole che Al Qaeda, la jihad internazionale del terrore e l'integralismo islamico, siano stati sconfitti insieme dall'Occidente e dall'islam moderato. A questo abbiamo ridotto la complessità della primavera nel mondo arabo: a rassicurante sgravio di coscienza per i nostri sensi di colpa. E invece, proprio per effetto degli sviluppi delle cosiddette rivolte arabe, la ferita dell'11 settembre 2001 torna nella sua evidenza di vulnus non rimarginabile nel corpo dell'America e dell'Occidente tutto. Parliamo della precipitazione della crisi in Egitto e della nuova configurazione del potere in Libia, il tutto nel contesto della crisi-voragine del modello produttivo e finanziario delle economie capitalistiche globali.
Al Cairo torna ad esplodere nel sangue piazza Tahrir, la stessa che ha detronizzato il faraone Mubarak ora sotto processo, l'uomo che è stato il garante degli interessi occidentali, dei confini con Israele, cioè della pace armata in Medio oriente. Piazza Tahrir era finora sospesa: da una parte i movimenti sotterranei della contestazione giovanile e sociale, dall'altra i militari che presidiano la «transizione» e i Fratelli musulmani che accumulano credibilità, formalmente come unico partito organizzato e alternativo al vecchio potere. In queste ore al Cairo è nuovamente esplosa la rabbia popolare contro i militari e contro le provocazioni armate di Israele, primo beneficiario dello status quo che Mubarak garantiva. Senza dimenticare che in questo settembre la leadership palestinese chiederà all'Onu il riconoscimento dello Stato di Palestina. Ed ecco che un nodo irrisolto ma presente nel sentimento e nella formazione dei giovani arabi torna incandescente e sfugge di mano alle cancellerie occidentali.
In Libia, dove ad una iniziale rivolta popolare si è sovrapposto un colpo di stato strisciante dentro il regime di Gheddafi, accade qualcosa di più paradossale. Abdel Hakim Belhaj, l'uomo che ha in mano il potere militare di Tripoli e che controlla la maggior parte delle milizie insorte che hanno combattuto e che continuano a combattere, altri non è che un ex rappresentante di Al Qaeda che dichiara di avere alla fine detto no a Osama bin Laden, per occuparsi meglio della Jihad in Libia e nel Maghreb.
E ora Belhaj accusa Stati uniti e Gran Bretagna per la sua "rendition", vale a dire per la sua cattura e consegna alle galere gheddafiane. Mentre, tra le rovine libiche, emerge la prova che il nuovo sistema spionistico del regime era allestito e sostenuto da tecnologie e intelligence coordinate già nel 2007-2008 dal governo francese (Sarkozy era ministro degli interni). Ecco una riprova di quella «trappola nella quale gli americani sono finiti, da loro stessi allestita quando trenta anni fa decisero di utilizzare i jihadisti per sconfiggere l'Urss», sostiene Lucio Caracciolo nel suo ultimo e bel libro America vs America. Altro che guerra di civiltà.
E veniamo al precipizio della crisi economica mondiale. Pochi mesi fa Barack Obama, nell'anniversario del suo storico discorso del Cairo, tra le altre considerazioni dichiarava: «Quello delle rivolte arabe è un mondo di 400 milioni di persone, per la maggior parte giovani. Ho scoperto che questa realtà ha esportazioni inferiori a quelle della Svizzera». Vale la pena chiedersi: di fronte alla conferma del crack dell'economia globale, contro chi si rivolteranno e a chi si rivolgeranno le masse giovanili arabe, ricche di domande e riempite solo di promesse e miraggi, quando le capitali dell'Occidente alle prese con i disastri interni diranno no alle loro richieste di sviluppo e integrazione? Ora che non c'è più nemmeno il Terzo Mondo?
No, le macerie dell'11 settembre non sono memoria, bruciano ancora. E dietro, drammaticamente, s'intravvede solo la possibilità di una nuova guerra.
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