È sintomatico il fatto che un pugno di grandi ricchi
abbia saputo convincere più del 90% della società che quanto è nel loro interesse è nell’interesse di
tutti. È sintomatico come un pugno di abili comunicatori abbia saputo sfruttare
il malcontento popolare per far passare l’idea che le cause della crisi non
vanno cercate nelle contraddizioni del sistema economico ma negli sprechi e
inefficienze della politica. Ed è del pari sintomatico come in un periodo di
crisi e recessione le multinazionali della tecnologia non meno di quelle
farmaceutiche e del trading riescano a realizzare superprofitti semplicemente
approfittando del proprio monopolio.
Scrivevo il 6 giugno dell’anno scorso:
Pensare che sia la politica a determinare le scelte decisive
è pura velleità. Un esempio: alcuni gruppi di trading, una dozzina dei
più grandi gruppi, sono dotati di magazzini, flotte e stabilimenti sparsi per
il mondo: Glencore controlla il 55%
dello zinco e il 36% del rame mondiale; nel 2010, Vitol e Trafigura – due
trading house con sede in Svizzera – hanno venduto mediamente 8 milioni di
barili di petrolio al giorno, più delle esportazioni dell'Arabia Saudita; le
cosiddette ABCD – ovvero le americane
Adm, Bunge, Cargill e la francese Dreyfus – tengono in pugno le commodities alimentari: controllano fra
il 75 e il 90% dei cereali mondiali.
Ecco chi decide il prezzo dei cereali con i quali si sfama il
pianeta, il prezzo del petrolio con cui batte il cuore del mondo. 787
grandi corporation controllano l'80 per cento delle più importanti imprese del
mondo e un gruppo ancora più ristretto composto da 147 gruppi
controlla il 40 per cento delle più importanti multinazionali del pianeta.
Alcune decine di banche e di hedge fund fanno il bello e il
cattivo tempo sui mercati finanziari, compresi quelli in tempo reale
nelle dark pools che nessun governo riuscirà mai a
controllare. Nelle sedi importanti in cui si prendono decisioni vincolanti per
miliardi di persone, la parola democrazia non viene mai pronunciata perché essa
non ha semplicemente senso.
Il personale politico e/o tecnico che siede nei parlamenti o nei
palazzi di governo deve anzitutto fare i conti con questa realtà
internazionale, quindi con la banca mondiale, il FMI, le agenzie di rating, la
commissione europea, la Bce, ecc.. Poi anche con la realtà interna, costituita
da un intreccio d’interessi e di poteri grandi e piccoli, legali e illegali,
che controllano il voto attraverso i media, le caste, i clan e le mille
clientele. Non solo controllano il voto, ma alimentano ad arte anche le
illusioni-disillusioni necessarie per farti andare a votare e far credere che
la prossima volta il cambiamento sarà possibile.
L’ultimo libro di Joseph Stiglizt (che Grillo chiama nel suo blog
familiarmente “Joe”), tradotto in italiano per i tipi dell’Einaudi e dal titolo
Il prezzo della disuguaglianza, è
incentrato prevalentemente sul tema di come risolvere la crisi fiscale dello
Stato dal lato della tassazione dei profitti e dei grandi patrimoni. Egli
condensa le sue proposte in otto punti a pagina 345. Tutte cose di buon senso e
che possono produrre anche dei risultati dal lato delle entrate: i beni
immobili non possono scappare e perciò si possono tassare; eliminare le
scappatoie fiscali, tassando di più le rendite, ecc.. Tassare di più i profitti
è già molto più difficile poiché le scappatoie sono molte, e soprattutto perché
i monopoli farebbero presto a scaricare i maggiori oneri sui prezzi.
Comunque sia, la critica di questi accademici, così come dei loro
sedicenti seguaci alla Grillo, è sempre laterale rispetto alle criticità del
sistema. Ciò che sfugge è il movimento reale che produce crisi di squilibrio e
crea tensioni sociali e alterazioni nel tempo psicologico delle attese.
Attendersi risposte dai governi nazionali è un’illusione, poiché come scrive
Sergio Romano “i mali delle democrazie
europee”, sono “irreparabili” dal
momento che i governi democraticamente eletti sono andati perdendo “gli strumenti necessari per governare”
e “appaiono nel migliore dei casi
esecutori di politiche decise altrove o fortemente condizionate da eventi che non possono controllare”.
Preso atto di questo stato di cose, la soluzione non può essere
quella di un ritorno all’indietro, considerato realisticamente impossibile, ma
quella di una spinta in avanti verso un’Europa che assuma i caratteri di un
vero Stato federale. Resta aperto il problema della legittimazione delle
istituzioni europee come portato della sovranità popolare. Ma è ben chiaro come
il problema della democrazia in tal modo sia fatto calare dall’alto e non nasca
come naturale espressione di volontà provenienti dal basso. Si tratterebbe in
tal caso di applicare un’etichetta a un prodotto già confezionato e il cui
contenuto opaco è già stato deciso da altri.
Ecco
quindi, per tornare al mio post di ieri, che nel momento storico in cui è
finito un ciclo economico e le relative dinamiche politiche e sociali sono
entrate in coma, ossia nel momento in cui il sistema non più in grado di
reggere economicamente un welfare a debito, farsi strada un nuovo modello di
democrazia che in realtà è una tecnocrazia neoliberista nella quale la finzione
della rappresentanza ha fatto kaputt.
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