In Italia i detenuti nelle carceri sono quasi settantamila. Di
questi, circa il 30%, ovvero quasi 17mila, sono giovani dai 18 ai 26 anni. È
raro – e non è una novità – che tra i detenuti vi siano soggetti appartenenti
alle classi alte. Non perché i ricchi siano personcine ontologicamente più
oneste, bensì perché delinquono diversamente, tanto che i loro misfatti non
sono menzionati nei casellari giudiziari e anzi spiccano quale vanto nei rispettivi
profili manageriali.
Quali sanzioni penali effettivamente somministrate si contano,
per esempio, a carico dei padroni che violino le norme a tutela del lavoro? Non
permettono forse tali violazioni di ricavare dei profitti straordinari e ben
più remunerativi di molti dei reati contro il patrimonio? Nondimeno la
criminologia, incoraggiata dalle pseudoscienze psicoanalitiche,
fornisce interpretazioni soprattutto sulle origini individuali e sociali del
crimine, ma si guarda bene dal mettere tali interpretazioni in relazione con la
base materiale della società, ossia con l’economia e i rapporti di classe. Del
resto tutti abbiamo cognizione di quanto la procedura penale sia condizionata
da ragioni di censo, nonostante il principio sancito costituzionalmente della
legge uguale per tutti.
Ci dovremmo chiedere anzitutto perché la pena del carcere
sia rimasta in troppi casi la colonna portante del sistema repressivo, e perché soprattutto in una situazione economica definita di crisi gravissima lo Stato preferisca spendere non meno di seimila euro il mese a cranio anche per quei
detenuti imputati o condannati per reati altrimenti perseguibili per via
amministrativa, anziché intervenire con pene pecuniarie o comunque alternative al carcere.
Spesso si tratta di reati inesistenti sotto il profilo del danno sociale poiché
riguardano comportamenti individuali come nel caso della tossicodipendenza.
Il vero ed esclusivo interesse dello Stato è di indurre
all’obbedienza attraverso un ampio uso delle sanzioni. L’efficienza con cui
l’autorità riesce a imporre l’osservanza delle norme stesse e a reprimere le
trasgressioni, non dipende semplicemente dalla severità delle pene e dall’applicazione
delle misure di carcerazione. L’argomentazione secondo cui l’aumento della
criminalità sarebbe determinato da un eccesso d’indulgenza, viene smentita per
contro dal chiaro esempio offerto dalla situazione penale e carceraria
statunitense. È indubbio, in generale, che la crisi economica e dell’ordine
sociale tende a far lievitare gli indici di criminalità, mentre la stabilità
economico-sociale tende a farli diminuire.
Soprattutto per certe tipologie di reati, una migliore
applicazione pratica del principio di proporzionalità tra delitto e sanzione,
quindi l’espiazione della pena su basi alternative al carcere, potrebbe
ugualmente soddisfare le vittime del reato stesso e avere in più la virtù
dell’economicità, contando che ciò eviterebbe anche sofferenze superflue
all’autore del reato. Di tutta questa problematica non c’è la minima traccia
nel dibattito politico in generale e segnatamente in quello elettorale. In capo
a tutto c’è la discussione – sterile agli effetti pratici – sulle tasse; ma a
ben vedere anche quella di ridurre le spese di giudizio e di carcerazione è una
strada che porta risparmi e magari un po' di civiltà.
Un post da incorniciare.
RispondiEliminagrazie Luca. purtroppo la faccenda interessa a pochi. come quella del post che segue. un paese di analfabeti ed egoisti.
EliminaE' così. All'intransigenza verso chi si appropria direttamente di un bene (fosse anche solo per mangiare) corrisponde l'impunità di coloro che invece delinquono da una posizione di dominio, stando in equilibrio sul filo dei dispositivi giuridici. Anche solo la rappresentazione mentale di questo stato di cose ha effetti devastanti sul piano dell'aggregazione sociale.
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