mercoledì 16 gennaio 2013

Un problema inesistente



In Italia i detenuti nelle carceri sono quasi settantamila. Di questi, circa il 30%, ovvero quasi 17mila, sono giovani dai 18 ai 26 anni. È raro – e non è una novità – che tra i detenuti vi siano soggetti appartenenti alle classi alte. Non perché i ricchi siano personcine ontologicamente più oneste, bensì perché delinquono diversamente, tanto che i loro misfatti non sono menzionati nei casellari giudiziari e anzi spiccano quale vanto nei rispettivi profili manageriali.

Quali sanzioni penali effettivamente somministrate si contano, per esempio, a carico dei padroni che violino le norme a tutela del lavoro? Non permettono forse tali violazioni di ricavare dei profitti straordinari e ben più remunerativi di molti dei reati contro il patrimonio? Nondimeno la criminologia, incoraggiata dalle pseudoscienze psicoanalitiche, fornisce interpretazioni soprattutto sulle origini individuali e sociali del crimine, ma si guarda bene dal mettere tali interpretazioni in relazione con la base materiale della società, ossia con l’economia e i rapporti di classe. Del resto tutti abbiamo cognizione di quanto la procedura penale sia condizionata da ragioni di censo, nonostante il principio sancito costituzionalmente della legge uguale per tutti.

Ci dovremmo chiedere anzitutto perché la pena del carcere sia rimasta in troppi casi la colonna portante del sistema repressivo, e perché soprattutto in una situazione economica definita di crisi gravissima lo Stato preferisca spendere non meno di seimila euro il mese a cranio anche per quei detenuti imputati o condannati per reati altrimenti perseguibili per via amministrativa, anziché intervenire con pene pecuniarie o comunque alternative al carcere. Spesso si tratta di reati inesistenti sotto il profilo del danno sociale poiché riguardano comportamenti individuali come nel caso della tossicodipendenza.

Il vero ed esclusivo interesse dello Stato è di indurre all’obbedienza attraverso un ampio uso delle sanzioni. L’efficienza con cui l’autorità riesce a imporre l’osservanza delle norme stesse e a reprimere le trasgressioni, non dipende semplicemente dalla severità delle pene e dall’applicazione delle misure di carcerazione. L’argomentazione secondo cui l’aumento della criminalità sarebbe determinato da un eccesso d’indulgenza, viene smentita per contro dal chiaro esempio offerto dalla situazione penale e carceraria statunitense. È indubbio, in generale, che la crisi economica e dell’ordine sociale tende a far lievitare gli indici di criminalità, mentre la stabilità economico-sociale tende a farli diminuire.

Soprattutto per certe tipologie di reati, una migliore applicazione pratica del principio di proporzionalità tra delitto e sanzione, quindi l’espiazione della pena su basi alternative al carcere, potrebbe ugualmente soddisfare le vittime del reato stesso e avere in più la virtù dell’economicità, contando che ciò eviterebbe anche sofferenze superflue all’autore del reato. Di tutta questa problematica non c’è la minima traccia nel dibattito politico in generale e segnatamente in quello elettorale. In capo a tutto c’è la discussione – sterile agli effetti pratici – sulle tasse; ma a ben vedere anche quella di ridurre le spese di giudizio e di carcerazione è una strada che porta risparmi e magari un po' di civiltà. 

3 commenti:

  1. Risposte
    1. grazie Luca. purtroppo la faccenda interessa a pochi. come quella del post che segue. un paese di analfabeti ed egoisti.

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  2. E' così. All'intransigenza verso chi si appropria direttamente di un bene (fosse anche solo per mangiare) corrisponde l'impunità di coloro che invece delinquono da una posizione di dominio, stando in equilibrio sul filo dei dispositivi giuridici. Anche solo la rappresentazione mentale di questo stato di cose ha effetti devastanti sul piano dell'aggregazione sociale.

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