Ci aspettando altre sei settimane di chiacchiere preelettorali,
nostre e altrui. A queste, seguiranno altre due settimane di litigiose
acrobazie sui risultati delle urne, quindi scontatissimi dibattiti sulle
alleanze di governo e sui primi provvedimenti del nuovo esecutivo. Saremo così impegnati
fino all’estate per poi riprendere nel prossimo autunno le geremiadi sulla
crisi e le relative ricette cucinate secondo i più diversi disgusti. Questo
genere di dispotismo mediatico non solo ci incatena nell’azione ma ci
sottomette anche nei pensieri all’autorità di piccoli tiranni dalle vedute
limitate, di cortigiani televisivi e servili scrittori di giudizio debole e
corrotto.
Di là del fatto che i personaggi della scena politica, cioè della
telenovela televisiva, ci siano simpatici o del tutto odiosi, che cosa cambia
in definitiva per le nostre vite, per il nostro quotidiano disastro fatto di
lavoro sfruttato, malpagato, precario? Beninteso: quando il lavoro c’è,
altrimenti è disoccupazione. Che cosa ha dichiarato Stefano Fassina al Financial Times? Alcune perle: “In Italia per un’impresa non è difficile licenziare qualcuno
…”. Qualcuno sì, ma anche intere fabbriche. E grazie a chi? E poi: “cercheremo un accordo con i sindacati e le imprese per
congelare gli adeguamenti di stipendio in cambio d’investimenti”. E perché non rendere per
legge obbligatorio rinvestirne una percentuale dei profitti? “Non
rinegozieremo il fiscal compact o l’obbligo di pareggio di bilancio in
Costituzione”, giura l’esponente piddino sulla nuova santa trinità: Fmi, Bce,
Ue. Prepariamoci a un altro pellegrinaggio di lacrime e sangue.
Qualunque risultato esca dagli imbrogli di questa legge
elettorale, chicchessia il demiurgo vincente, i nostri redditi continueranno a
essere scarsi e con essi saremo chiamati a salvare altre banche, come la Monte
Paschi le cui azioni guadagnano in questi ultimi giorni il 40%! Una festa per
gente che si strafotte delle elezioni, perché comunque il sistema è dalla loro e
permetterà di continuare a guadagnare milioni senza alcuna fatica, irridendo i
poveri grulli&grilli che si fanno un mazzo tanto per pochi spiccioli e
litigano tra loro per scegliere il pifferaio di turno.
L’ho scritto in novembre e pare la situazione – sul breve – voglia
smentirmi: siamo alla vigilia di un’altra tormenta borsistica, altre bolle e altre
balle sulla crisi. Non date retta all’euforia di un momento, perché, come
scrivo da sempre, il capitalismo è fallito anche se non è morto. Non prima di averci messi
sottoterra.
Soprattutto questo: "E perché non rendere per legge obbligatorio rinvestirne una percentuale dei profitti?"
RispondiElimina(possibile risposta: Perché a certe domande l'economista di un partito democristiano travestito non sa dare risposta; non è che non vuole, proprio non rientra nelle corde di un partito imbottito di gente che il rosso lo collega soltanto al cardinalizio).
Sarebbe da fissare per legge un coefficiente di rapporto proporzionale tra stipendi dei vertici, della base, cifre di bilancio, utili ecc.
In questo modo magari non si demonizza il diritto ad arricchirsi, ma si attivano strumenti di controllo sulla speculazione selvaggia e l'avidità di un capitalismo dallo stomaco senza fondo. Soprattutto, si eviterebbe di fare sparate inconcludenti del tipo "Le fabbriche ai lavoratori". Cominciamo a imporre per legge (si chiamerebbe "dittatura parlamentare della legalità" quella cosa che pare tanto brutta a chi è timoroso di prendere decisioni nette) che oltre una certa cifra percentuale i rapporti di distanza sociale tra le parti diventano laceranti e le "congiunture" saltano.
O si è buoni a saper di percentuali soltanto quando si tratta di emanare tasse?
Forse il capitalismo muore di inedia, se gli si sottrae il capitale, rendendolo strumento e non idol-ismo cui immolare sangue umano misto a grasso di macchinari.