sabato 5 gennaio 2013

Un primo passo: lavorare meno


Ripropongo un post del 25 ottobre 2011.


Il modo di produzione capitalistico ha manifestato chiaro e da sempre la natura del conflitto, quindi la necessità di impoverire il lavoro per sopravvivere, per garantirsi una base decente di profitto. Svalutare il lavoro per tutelare il profitto è il leitmotiv che può essere colto nella sostanza di ogni discorso dei portavoce padronali.

Basterebbe questo, sul piano politico, per dire che la democrazia su queste basi economiche è un bluff. Comanda il capitale, le propaggini politiche obbediscono e le chiacchiere stanno a zero. Questa è la condizione che qualsiasi salariato sperimenta ogni giorno perché costretto dalla necessità a rinchiudersi nella prigione senza sbarre per almeno otto ore. Ed è lì che egli fa i conti con il tempo della propria vita che fugge e che nessuna lusinga pensionistica, peraltro sempre più incerta, potrà restituirgli da vecchio.

Da un secolo la giornata lavorativa è inchiodata a questa misura giornaliera media di sfruttamento nonostante gli enormi e strepitosi progressi della produzione sotto ogni riguardo e nonostante la massiccia disoccupazione e sottoccupazione specie nelle fasce più giovani del proletariato. Il vecchio slogan, lavorare tutti, lavorare meno, aveva indubbiamente una sua ragione. Irriderlo è servito a nulla, la realtà si prende la sua rivincita, sempre. Naturalmente non sarà sufficiente lavorare meno, ma cambiare il lavoro stesso e perciò con esso la natura dei rapporti sociali. Abbiamo oggi tutti i mezzi congrui per farlo. Perciò ogni idea in questo senso viene percepitata come pericolosissima, ridicolizzata, combattuta.

Il modo di produzione capitalistico ha dimostrato a dismisura che per garantire la sua riproduzione allargata è costretto alla finanziarizzazione spinta a livelli un tempo inimmaginabili. Una contraddizione quest’ultima indispensabile, ma ne minaccia la sopravvivenza e quella stabilità sociale tanto cara alle palinodie liberali. Queste cose e altre ancora, segnano il limite storico di questo sistema economico. Il migliore, dicono, a fronte di tutti gli altri.

Sarebbe un po’ come dire che la storia deve fermarsi qua, non deve andare oltre a causa del fallimentare tentativo di cambiamento sperimentato in alcune realtà e peraltro in determinate condizioni storiche nel secolo scorso. Le nuove generazioni, invece di interrogarsi su che cosa non ha funzionato e perché, semplicemente rinunciano a ogni tentativo di immaginare le traiettorie di uscita da questa trappola in cui ci troviamo coinvolti nostro malgrado.

Vogliono riformare questo sistema, ad uso dei padroni, non cambiarlo. Poi, dopo un po’ i salariati si scoraggiano e molti, preso atto con cinismo della situazione, diventano semplicemente dei reazionari. Evidentemente che l’idea di cambiamento possa trasformarsi nel socialismo reale di memoria novecentesca li scoraggia in partenza. Non è casuale questo fatto, e non si può dire che la regia non sappia fare il proprio mestiere.  

4 commenti:

  1. Il post è splendido, ma in questo momento in questo Paese pare ci sia un 12% di persone ammesse al voto disponibili a votare la lista Monti. Il cui potenziale elettorale si dice arrivi fino al 25%. E le elezioni sono fra più di un mese: con Monti in televisione 24 ore al giorno tutti i giorni, è probabile che l'attuale 12% aumenterà.

    Poi naturalmente abbiamo tutti quelli che ancora votano Berlusconi.

    Di fronte a tali cifre si capisce come in Italia qualunque speranza di riscatto e redenzione sociale ed ideale sia morta, ammesso che sia mai stata viva. Siamo in un Paese di destra antropologica, destra come imprinting arcaico, destra come stupidità e come lucro, e destra come destino.

    mauro

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    1. IIN RISPOSTA A MAURO: dimentichi caro Mauro, che il principale partito in Italia, è quello degli ...astensionisti. Questo dovrebbe farti riflettere, e di molto, a proposito dell'antropologia italiota.
      Alle regionali siciliane, il 52,3%, NON HA VOTATO!
      Quando tizio o caio, prende il 12 o 20& dei voti, non è il 12 o 20% degli aventi diritti al voto, ma degli effettivi votanti.
      Anche in questo, cioè attraverso i sondaggi, ci fregano!.
      E' tutto un imbroglio (per noi) datosi che "LORO", hanno in mano la macchina massmediatica, e la fanno girare a seconda dei loro bisogni, i bisogni dei padroni cioè.
      Un saluto a te, ed a Olympe

      Franco

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  2. mi fa piacere che in italia si cominci a parlare del problema "modo di produzione capitalistico". ancora troppi in italia, a tutti i livelli, non riescono a vedere, diciamo cosí, che il modo di produzione capitalistico è arrivato al dunque già da trent'anni, e quindi il capitalismo cerca il plusvalore scatenenando il suo reparto finanziario. infatti è lo stesso capitalismo che agisce, non esiste differenza tra capitalismo produttivo e finanziario, è la stessa cosa, però in italia, purtroppo a tutti i livelli, si parla del cattivissimo capitalismo finanziario che ha causato la crisi. uscire dalla crisi significa non soltanto uscire dall'euro e ripensare i rapporti tra le nazioni in europa, ma anche risolvere il problema "come e perchè produrre in futuro?". la germania, che ha capito il problema da subito, la crisi del modo di produzione capitalistico inizia a meta degli anni settanta del secolo scorso, ha ingabbiato i suoi concorrenti europei nell'euro e li sta sfruttando al meglio, per lei naturalmente. questo lo fa perchè il potere tedesco fa da sempre politica di potenza. la germania vuole diventare, oltre che potenza economica, potenza politica e militare servendosi dei suoi servi europei e quindi neutralizzando un pericolo molto grosso. si da tempo, non ha fretta, nel frattempo vivono bene nei confronti degli altri, perchè il suo popolo deve andare a letto collo stomaco passabilmente pieno, soprattutto di birra, perchè se no mugugna e non esegue più gli ordini. c'è un libro, per quel che ne so uno solo e per me da leggere assolutamente, che descrive perfettamente la crisi del modo di produzione capitalistico: " Die große Entwertung", di E. Lohoff e N. Trenkle, Unrast Verlag (www.unrast-verlag.de), 48043 Münster. gli autori sono di sinistra e non vedono di buon occhio, perchè sanno come andrà a finire per la germania, la politica di dominio del potere tedesco. purtroppo esiste per ora solo in tedesco ed io vorrei che venisse tradotto al più presto in italiano. concludo dicendo che sul punto "crisi del modo di produzione capitalistico" si dovrebbe insistere per poter chiarire meglio il da farsi.
    franco valdes, piccolo proletario di provincia

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    1. ciao Franco. sul tema ho scritto innumerevoli post, da ultimo questo:
      http://diciottobrumaio.blogspot.it/2013/01/i-penan-non-tagliano-piu.html

      anche sulla germania ho scritto diversi post. il prossimo 31-1 ne dedicherò un altro. saluti

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