La segnalazione di un articolo da parte di un amico del
blog mi offre lo spunto per una riflessione. L’articolo ha per argomento il “dibattito sugli effetti che le nuove tecnologie,
robot, computer e software, avranno [e hanno] sull’occupazione nei prossimi
decenni”. Scrive l’articolista:
Si continua a parlare, da
destra ma anche da sinistra (vedi le teorie della decrescita e alcune tesi post
operaiste), di “fine del lavoro”, ma resta il fatto che l’unica fonte di valore
economico resta, innegabilmente, il lavoro erogato, in varie forme, dalle
classi subalterne.
E fin qui dice
bene, anche se non precisa che non tutto il lavoro “erogato, in varie forme, dalle classi subalterne” produce
valore, altrimenti anche uno come
Fabrizio Corona è un lavoratore produttivo poiché incentiva la produzione di
libri di diritto criminale. Poi continua:
… a picchi di automazione elevatissimi,
corrisponde oggi il lavoro manuale di centinaia di milioni di operai ridotti in
condizioni di semischiavitù.
Molto bene anche qui, magari avrebbe potuto esplicitare
meglio sul fatto che sebbene il capitalista introduca nuovo
macchinario e attrezzatura per risparmiare lavoro, tuttavia ciò non si traduce
nella diminuzione della giornata lavorativa, bensì nell’abbreviazione del tempo
di lavoro necessario a produrre una determinata quantità di merce, ma pazienza. Segue quindi una frase tra
parentesi:
se oggi Marx fosse vivo,
direbbe che l’estrazione di plusvalore relativo ed assoluto sono forme
complementari piuttosto che tappe diverse di un processo storico.
Manco per il cazzo, direbbe invece. Di questi tempi un po’
tutti lo tirano per le bretelle con degli spropositi che manco si sognerebbe. Vediamo
di chiarirci un po’ le idee in proposito dando la parola a Marx:
Chiamo plusvalore assoluto il
plusvalore prodotto mediante prolungamento
della giornata lavorativa; invece, chiamo plusvalore relativo il plusvalore che
deriva dall’accorciamento del tempo
di lavoro necessario e dal corrispondente cambiamento nel rapporto di grandezza
delle due parti costitutive della giornata lavorativa.
Da un certo punto di vista la
differenza fra plusvalore assoluto e plusvalore relativo sembra, in genere,
illusoria. Il plusvalore relativo è assoluto perché comporta un prolungamento
assoluto della giornata lavorativa al di là del tempo di lavoro necessario per
l’esistenza dell’operaio stesso. Il plusvalore assoluto è relativo, perché
comporta uno sviluppo della produttività del lavoro che permette di limitare il
tempo di lavoro necessario ad una parte della giornata lavorativa.
Come si vede, l’estrazione di plusvalore relativo e assoluto sono
due momenti che non si escludono ma stanno in rapporto tra loro, e tuttavia la
loro differenza va ricercata nel processo storico dello sviluppo del modo di
produzione capitalistico, faccenda il cui dettaglio qui tralasciamo. Un fatto è
però di fondamentale importanza: il plusvalore,
comunque inteso, non può mai essere “forma complementare” del processo di
produzione capitalistico, poiché esso rappresenta lo scopo determinante del
modo di produzione capitalistico (*).
E allora per quale motivo si leggono tali e tante
sciocchezze? Non credo si tratti di questo caso specifico, ma in genere si deve
tener conto anzitutto di un qui pro quo non casuale, ossia nel far credere
che il plusvalore sia prodotto da tutto il capitale, e non invece dalla sola
sua parte variabile, vale a dire dal lavoro non pagato dell’operaio (ho già trattato l’argomento
specificatamente QUI).
In base a questa tesi scorretta, i
padroni hanno poi modo di sbraitare che l’introduzione di impianti e
macchinari automatici nel processo produttivo riduce progressivamente la
funzione dell’operaio nella produzione, il che dimostrerebbe che il
capitalismo moderno limita sempre più lo sfruttamento della forza lavoro. In
realtà, le macchine, per quanto automatiche, sono sempre capitale costante: il
loro valore può solamente trasferirsi nei nuovi prodotti, ma non può produrre
il minimo incremento.
Il fatto che i capitalisti
impieghino macchinari automatici ed assumano un minor numero di operai,
dimostra soltanto che si è ancor più intensificato lo sfruttamento della
forza lavoro mediante l’estrazione di plusvalore relativo, ottenuta attraverso
l’intensificazione dei ritmi e dei carichi di lavoro e l’uso delle tecnologie
più avanzate.
L’impiego del macchinario, il suo miglioramento, aumenta il
tempo di lavoro di cui si appropria il capitalista attraverso la condensazione
del tempo di lavoro, giacché ogni frazione di tempo viene riempita con più
lavoro. Mi spiego: crescendo l’intensità del lavoro, mediante l’impiego del
macchinario, non solo aumenta la produttività (quindi la qualità) del lavoro,
ma aumenta anche la quantità di lavoro in un dato intervallo di tempo. Come
diceva quel “neoplatonico” di Marx, i pori del tempo vengono per così dire
rimpiccioliti dalla compressione del lavoro.
Succede anche un altro fatto che non dovrebbe meravigliare e
che implicherebbe molte altre considerazioni: l’impiego del macchinario, il suo
miglioramento, nell’aumentare la produttività del lavoro, riduce il tempo di
lavoro necessario per la riproduzione della forza-lavoro, ossia l’equivalente
del tempo di lavoro contenuto nei salari. Perciò a parità di durata della
giornata lavorativa complessiva, risulta prolungato il tempo di pluslavoro.
Qui bisognerebbe introdurre il discorso sugli effetti che il
macchinario e il suo miglioramento comportano nel processo produttivo dal lato
della caduta tendenziale del saggio del profitto, e come ciò abbia una diretta
influenza nella composizione organica del capitale, ma di questo ho già scritto
altre volte. Invece accennerò solo al fatto che l’automazione ha aperto la
strada al sistema dei turni, perciò il capitalista ha allargato fino al limite
estremo la giornata lavorativa, accrescendo il tempo di pluslavoro a sua
disposizione e, dunque, la quota di plusprodotto, vale a dire quella parte non
retribuita di prodotto che rappresenta il plusvalore.
(*) La produzione
capitalistica non è soltanto produzione di merce, è essenzialmente produzione
di plusvalore (Il Capitale, cap.
14). Motivo propulsore e scopo
determinante del processo capitalistico di produzione è in primo luogo la
maggior possibile autovalorizzazione del capitale, cioè la produzione di
plusvalore più grande possibile, e quindi il maggiore sfruttamento possibile
della forza-lavoro da parte del capitalista (ibidem, cap. 11).
Grazie per l'eccellente riflessione, davvero.
RispondiEliminamauro