Scrivevo in un post del 28 luglio di due anni fa:
È passato solo qualche lustro da quando i soliti funzionari
ebbri di buona coscienza liberale avevano dichiarato la fine delle ideologie,
tranne la loro ovviamente. Era accaduto in coincidenza con gli avvenimenti del
1989 e dintorni, cioè nel momento in cui il sistema economico occidentale,
convinto che l’astuzia della merce avesse vinto definitivamente, celebrava i
suoi fasti anche sul piano politico-ideologico. Ora la borghesia, preso atto
che si trattava di un miraggio, è costretta a una nuova e lacerante
consapevolezza, la stessa che sotto la sferza della crisi s’intrufola negli
strati più profondi della coscienza di ciascuno, e cioè all’evidenza del tramonto
del vecchio mondo (*).
Di fronte a un proletariato vinto ma minaccioso a causa
della crisi, la borghesia è decisa a giocare d’anticipo, prima che subentri un
movimento organizzato di rivolta che mandi tutto all’aria. Perciò arruola nuovi
liquidatori del marxismo, i più impavidi legionari travisati da recuperatori
dell’autentico Marx, in realtà i più fedeli revisionisti del suo pensiero. Da
un lato essi debbono ammettere con fluenti perifrasi che il rapporto
capitale-lavoro e la poetica dell’alienazione sono esattamente i medesimi che
qualunque salariato sperimenta da sempre; dall’altro si compiacciono nel
sostenere che il Vecchio ineguagliabile critico dell’economia capitalistica in
definitiva è uno spettro innocuo e non così pessimista nella sua diagnosi del
capitalismo. L’essenziale infine è rassicurare con disincanto la maggioranza
operosa che non c’è uscita credibile da questo cul de sac.
Aggiungevo anche:
Le crisi cicliche rappresentano momenti solo temporanei di
risanamento del sistema. Nel momento in cui ristabiliscono (anche se in modo
violento e con perdite di ricchezza) le condizioni della valorizzazione, il
processo di accumulazione capitalistica riprende, benché con sempre maggiore
difficoltà. Questa cogenza indica di per sé che il modo di produzione
capitalistico ha raggiunto il culmine della fase espansiva ed è entrato nella
sua crisi generale-storica, laddove le insanabili contraddizioni minacciano non
solo le sue stesse capacità di riprodursi, ma anche l’esistenza stessa della
società umana. D’altra parte, la discrasia tra l’enorme capacità e potenzialità
delle forze produttive sociali e la sempre più miserabile prospettiva delle
condizioni di vita delle masse minacciate dalla crisi – così come l’esaurirsi
delle risorse – mette sempre più in evidenza l’assurdità di questo sistema.
Resta inteso però che allo stesso modo in cui si
devono respingere le teorie del “crollo”, vanno anche disattese le concezioni
che deducono la necessità del comunismo dall’ingiustizia e dalla malvagità del
capitalismo, così come dalla pura volontà rivoluzionaria del proletariato. Come
si può desumere da quanto detto nel paragrafo precedente, nella misura in cui
la crisi nega la possibilità di uno sviluppo illimitato ed equilibrato
dell’accumulazione capitalistica, allo stesso modo nasce la necessità e
possibilità della rivoluzione per il superamento del sistema.
Questo è ciò che scrivevo di certi “recuperatori” di Marx. E
tuttavia vi è anche un’altra corrente di pensiero – genericamente
anticapitalista (come se ciò significasse di per sé qualcosa) e libertaria, antiautoritaria,
egalitaria, antistatalista, anarchica, oppure che rivendica un ascetismo
universale (insomma quella fuffa lì) – la quale spara a zero contro ciò che
chiama il “marxismo utopico”, nato
direttamente dalle illusioni “dell’idealismo
hegeliano e oseremo dire anche di quello platonico il quale inficia l’analisi
materialista di Marx ed Engels e che nasconde soltanto gli auspici, i desideri
e le speranze di questi grandi rivoluzionari”.
Cazzo, questi pettegoli non usano certo delle perifrasi per
dire che Marx ed Engels erano degli inguaribili soggettivisti speranzosi e
moralisti desiderosi. Chiaro che qui abbiamo a che fare con posizioni che
ignorano in che cosa consista “l’idealismo hegeliano” e, per contro, la
dialettica materialistica. Anzi, nel caso specifico, essi fanno espressamente
riferimento alle teorie di Jared Diamond, ossia alle posizioni tipiche di un
materialismo largamente esposto al naturalismo e che si concentra quasi
esclusivamente sui fattori bio-geografici, senza tener conto adeguatamente
dell’evoluzione dei rapporti sociali e la progressiva produzione di un
"secondo" ambiente, "artificiale", da parte della società
umana. Insomma, quel metodo di studio che tratta la storia delle società umane
alla stregua di colonie di topi.
Questi minuti riformatori, nel vedere che ogni cosa porta in
sé la propria contraddizione, colgono anche quelle della società dominante e
perciò il contrasto di classe. Tuttavia non scorgono dalla parte del
proletariato nessuna funzione storica autonoma,
nessun movimento politico che gli sia
proprio. Questi papaverici filosofi hanno come obiettivo, nel loro spirito
teleologico, quello di “opporsi alle
barbarie di un capitalismo incapace di offrire un’alternativa alla distruzione
del nostro pianeta”. E come vi si oppongono? “ … ritornando alla forma-Movimento [laddove] essa si è sviluppata a livello internazionale con caratteristiche
antiliberiste e anticapitaliste a partire dal Wto di Seattle del dicembre 1999
da cui è nato il Movimento dei Forum mondiali”.
Piripicchio, siamo alle svolte epocali. Pragmatici, essi
citano Keynes: Quando l’accumulazione di
ricchezza non rivestirà più un significato sociale importante, interverranno
profondi mutamenti nel codice morale. L’amore per il denaro come possesso, e
non come mezzo per godere i piaceri della vita, sarà considerato una passione
morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali e a metà
patologiche che si consegnano con un brivido allo specialista di malattia
mentali.
È qui esplicitato tutto il fraintendimento di questi
chiacchieroni. Nemmeno in Urss l’accumulazione di per sé di ricchezza rivestiva
più un significato sociale importante, così come l’amore per il denaro come
possesso. Del resto, non è l’amore per il denaro come possesso che spinge il capitale all’accumulazione di ricchezza. Con
quelle frasette del cazzo di Keynes sparisce tutta la problematica che riguarda
i rapporti di produzione, evapora il concetto stesso di modo di produzione e
quello di processo di valorizzazione in quanto processo di produzione di plusvalore
(non quindi semplicemente di “ricchezza” e “denaro” tesaurizzato). Così come
non è quel che viene fatto, ma come viene fatto, con quali mezzi di
lavoro, ciò che distingue le epoche economiche, allo stesso modo non è
semplicemente quel che ne viene fatto
della ricchezza ma come essa viene
prodotta che distingue un modo di produzione da un altro e con esso i
relativi rapporti sociali, compresi
quelli afferenti alla ridistribuzione.
È tipico di tutte le teorie borghesi, nella misura in cui osservano
il capitalismo solo dal punto di vista della circolazione – ossia del denaro –mirare
a dimostrare che la contraddizione fondamentale del modo di produzione
capitalistico non consiste nello sfruttamento della forza-lavoro, bensì
nell’ingiusta ripartizione della ricchezza prodotta, per cui sarebbe
sufficiente un’equa distribuzione dei redditi – e quindi una riforma o una
serie di riforme – per eliminare l’ingiustizia della società. Nel caso
specifico basterebbe far sparire il denaro e la sua funzione.
Non aspirano dunque alla rivoluzione radicale, è sufficiente
quella parziale, quella che lascia in piedi i pilastri del capitalismo. Cosa
diceva già nel 1848 Marx di questo esercito di salvezza planetaria munito di
troppe buone intenzioni? «Al posto dell'azione
sociale deve subentrare la loro propria inventiva personale; al posto delle
condizioni storiche dell'emancipazione, condizioni immaginarie; al posto della
graduale organizzarsi del proletariato come classe, un'organizzazione della
società da loro stessi escogitata di sana pianta. Per costoro la storia
universale dell’avvenire si risolve nella propaganda e nella realizzazione
pratica dei loro piani sociali».
E chi sono costoro? Le stesse categorie di persone alle
quali alludeva Marx, sempre 165 anni or sono, riferendosi al socialismo
conservatore borghese:
«Una parte della
borghesia conta di rimediare alle ingiustizie sociali per garantire l'esistenza
della società borghese. È il caso di economisti, filantropi, umanitari,
miglioratori della condizione delle classi lavoratrici, benefattori, protettori
degli animali, promotori di associazioni di temperanza, riformatori di ogni
risma e colore. E questo socialismo borghese è stato elaborato in interi
sistemi».
Il loro compito è sempre stato quello – allora come oggi –
di distogliere il proletariato da ogni tentazione rivoluzionaria, sostenendo
che a giovarle avrebbe potuto essere non un qualsiasi mutamento politico, ma
solo un mutamento delle condizioni materiali di esistenza, dunque dei rapporti
economici. “Per mutamento – scrive Marx – delle condizioni materiali di
esistenza questo tipo di socialismo non intende però in alcun modo l'abolizione
dei rapporti borghesi di produzione, possibile solo con la rivoluzione, ma
miglioramenti amministrativi che restino sul terreno di questi rapporti di
produzione e che dunque non tocchino affatto il rapporto tra capitale e lavoro
salariato”.
(*) «Le
frasi apologetiche per negare le crisi intanto sono importanti in quanto esse
dimostrano sempre il contrario di ciò che vogliono dimostrare. Esse – per
negare la crisi –, affermano l'unità là dove esiste antitesi e contraddizione.
Dunque, intanto sono importanti in quanto si può dire: esse dimostrano che se
di fatto le contraddizioni da esse eliminate con la fantasia non esistessero,
non esisterebbe neanche la crisi. Ma in realtà la crisi esiste, perché queste
contraddizioni esistono. Ogni ragione che essi sostengono contro la crisi è una
contraddizione eliminata con la fantasia, quindi una contraddizione reale,
quindi un motivo della crisi. Questo desiderio fantasioso di negare le
contraddizioni non fa che confermare le contraddizioni reali di cui ci si
augura proprio l'inesistenza” (Teorie del
plusvalore, II, parte IV, “Le crisi”).