lunedì 28 febbraio 2011

Il grande arazzo



In attesa di sviluppi dalla “rivoluzione laica” in Libia, promossa da “giovani” guidati dall’anelito di “libertà” e “democrazia”, Eugenio Scalfari deve ammette che: «il loro grido di riconoscimento e di vittoria è spesso quello tradizionale “Allah è grande”». Il profeta di Civitavecchia, seccato per i ritardi con cui giungono le grida di “vittoria”, è arrivato a dire che il petrolio libico è “dei peggiori” per qualità e che la produzione di quel paese è al di sotto del 2% del totale mondiale. La volpe e l’uva.
Il nostro più grande giornalista vivente azzarda un vaticinio sul prezzo del petrolio: «si è impennato a causa della speculazione, ma non ha l'aria di tenere a lungo anche perché la monarchia saudita deve procurarsi nuovi titoli di benemerenza con l'Occidente e non ha alcun interesse a speculare al rialzo sui prezzi del greggio». Sarà il caso che qualcuno della redazione economica di Repubblica spieghi al barbuto filosofo che 1) non è l’Opec a speculare in questo momento sul prezzo degli idrocarburi, e che anzi il ministro del petrolio saudita, Ali al-Naimi, ha detto in una conferenza stampa, dopo un incontro dei ministri delle nazioni produttrici di petrolio e consumatori a Riyadh, in Arabia Saudita, che «L’Opec è pronta a soddisfare qualsiasi carenza dell'offerta anche a fronte di quanto succede»; 2) La Libia è il primo paese in Africa e classificato settimo paese al mondo in termini di dimensioni delle sue riserve di greggio, che sono stimate a 43,7 miliardi di barili, pari al 3,5% del totale delle riserve mondiali di petrolio greggio.
Ciò che ci circonda è dunque un grande arazzo di menzogne su cui ci nutriamo, per dirla con Harold Pinter. Tutto questo serve da parametro per misurare la qualità della cosiddetta informazione e dei relativi operatori.
Intanto, questa mattina, come ogni lunedì, miliardi di salariati iniziano una nuova settimana di lavoro (chi ne ha uno), con la stessa giustificata malavoglia e comprensibile disinteresse di sempre. Dall’altro lato, decine di migliaia di piccoli e grandi funzionari del capitale accendono i loro computer convinti come sono di essere il sale della terra, che la ricchezza e il denaro siano prodotti dai loro clik ma soprattutto per merito del loro genio, non rendendosi conto di essere solo dei piccoli sciacalletti al servizio esclusivo di un gioco di cui in realtà conoscono assai poco.

domenica 27 febbraio 2011

De rebus bellicis



Se la Libia fosse solo uno scatolone di sabbia, nessuno se ne occuperebbe più di tanto. È invece anche un mare di petrolio e gas, con sei milioni di abitanti (il reddito procapite più alto del continente, fatto salvo quello dei bianchi sudafricani) a cui vendere ogni sorta di merce. E poi armi. Si dirà che quelli in atto sono fatti clamorosi, così come gigantesche sono state le balle che ci sono state finora raccontate di bombardamenti aerei di città e di fosse comuni (vedi post). Notizie comunque molto meno rilevanti di quelle irachene. Anche lì ci sono le rivolte, con morti e feriti, ma in sottordine.
Tanto per fare degli esempi: il 17 febbraio ci sono stati almeno tredici morti e oltre trenta feriti nel bilancio provvisorio di un attentato dinamitardo compiuto con un'autobomba a Muqdadiya, località a nord-est di Baghdad. Il 25 febbraio altri 14 morti e 124 feriti, fra cui 17 poliziotti e soldati, e quattro edifici pubblici sono stati incendiati. Il giorno dopo quattro ingegneri iracheni sono rimasti uccisi in un attacco contro la principale raffineria di petrolio del paese, nella città settentrionale di Baiji. Sentito qualcosa nei telegiornali?
Torniamo in Libia. Enorme l’influsso della “campagna mediatica sistematica e massiccia d’informazione drogata, o di disinformazione, proveniente dall’estero, che non esita a ricorrere a bufale a volte spudorate”, scrive Maurizio Matteuzzi sul manifesto di oggi. “Tripoli appariva ieri tranquilla, più tranquilla di venerdì e dei giorni scorsi. Traffico normale, gente per le strade, pochi poliziotti e miliziani dal bracciale verde in giro …”. Eppure “Questo è il resoconto di quanto si è potuto vedere nella Tripoli di ieri. Oggi può essere tutt’altra storia. O già nella notte perché quando cala il buio la città, già difficile da decifrare alla luce del giorno, diventa un mistero. Un mistero fatto d’improvvise raffiche di kalashnikov che si sentono distintamente”.
“Gheddafi, a meno di imprevedibili e improbabili coup de théâtre finali, ha perso la partita”, conclude il corrispondente da Tripoli. Una partita giocata da avversari “misteriosi”, ma non tanto. L’intelligence di alcuni paesi arabi e europei ha lavorato bene, ma non ha ancora concluso. Le dichiarazioni recenti di Berlusconi e La Russa la dicono lunga sulla manona italiana.
Comunque vada a finire, per il popolo libico (certamente non per l’élite e i capi bastone locali) finirà male. Non c’è nessuna rivoluzione, né lì né altrove. I fattori che contano sono tutti saldamente in mano alla borghesia e ai suoi funzionari. Ci sarà solo un cambio di regime, una nuova spartizione del bottino, una nuova bandiera alla quale rendere omaggio, un nuovo inno da cantare nelle piazze.

... e quella del mondo arabo



Al Jazeera è una rete informativa internazionale con sede a Doha, Qatar.
È di proprietà della Qatar Media Corporation (la Fininvest del Qatar). Il presidente è Hamad bin Thamer Al Thani, già responsabile dell’informazione del Qatar e cugino dell’emiro. Infatti il Qatar è un emirato governato dalla famiglia Al Thani.
Fondata nel 1996, Al-Jazeera ha ricevuto un prestito di 147 milioni dollari dall'Emiro e da allora ha sempre ricevuto un generoso sostegno da parte dello stesso Emiro. Secondo Zubair Iqbal dell'Istituto per il Medio Oriente, Al Jazeera è finanziato "essenzialmente per ragioni strategiche. Il Qatar ha l'ambizione di diventare un attore importante nella regione. . . . .”.
Su cosa sia il Qatar e cosa rappresenti nella sua strategia Al Jazeera, vedi qui.

sabato 26 febbraio 2011

La stampa del mondo libero


Non sappiamo ancora nulla, ma proprio nulla, su chi ha organizzato e diretto la “rivolta” in Libia. Da diversi giorni scrivo che ci stanno raccontando balle, evidenti enormi gigantesche balle. I propagandisti di certi fogli e fogliacci italiani non hanno nessun ritegno, non provano la minima vergogna.
Maurizio Matteuzzi, esperto in particolare di esteri e di Sudamerica, un persona intellettualmente onesta prima ancora di essere un eccellente giornalista (me ne sono occupato nei post relativi al caso Battisti), si trova a Tripoli e fa un po’ l’elenco delle enormità che sono state scritte e dette in questi giorni, riprese dai media italiani soprattutto da Al Jazeera e da Al Arabiya.
Innanzitutto Gheddafi e vivo, come poi s’è visto. Il soggetto non è simpatico a nessuno, ma ciò non toglie che è ancora al potere, anche se non è escluso che possa perderlo e fare la fine che merita. Quindi la storia dei bombardamenti. Matteuzzi racconta di una ginecologa libica che ha studiato in Italia e lavora attualmente a Tripoli. Il medico riceve telefonate allarmatissime dai suoi famigliari che guardano la tv italiana la quale racconta di bombardamenti aerei in atto nel quartiere di Fascilum, nel centro della capitale, proprio mentre la ginecologa è seduta in un caffè di … Fascilum. E anche gli altri quartieri della capitale, fa sapere l’articolista, non sono stati bombardati.
L’altro scoop: le fosse comuni.  Ricordo i titoli di La Repubblica: 10mila morti, 50mila feriti. Evidenti cazzate. In malafede, però. Ecco perché questa “rivolta” fa sospettare lo zampino di …… E del resto è gente che sbandiera il vesillo di re Idris, non potendo mettere in mostra quello delle multinazionali. Le foto delle fosse hanno fatto il giro del mondo. «Ieri – scrive l’inviato del manifesto – siamo stati anche noi, giornalisti italiani, sul luogo del delitto, a Tagiura, un quartiere periferico di Tripoli, sul lungomare: le fosse comuni – almeno lì – semplicemente non esistono, si tratta di un normale cimitero islamico con lavori in corso sulle normali tombe».
Anche la storia che i “rivoltosi” avrebbero espugnato “l’aeroporto militare di Mitiga”, sul lungomare, nella loro supposta avanzata verso la capitale è una patacca. «L’aeroporto appare del tutto tranquillo e sorvegliato fuori dai militari di guardia, dei ribelli non c’è traccia».
Alla fine dell’articolo, Matteuzzi ci dice che i disordini di ieri a Tripoli, secondo alcuni, pare abbiano provocato un morto, forse tre.
Domani, dice la ginecologa libica incontrata da Matteuzzi, sarà di certo un’altra giornata di scoop. «Una campagna di disinformazione grossolana e scientifica insieme, l’avevo vista solo con Saddam Hussein e le sue armi di distruzione di massa».
La campagna per i datteri libici continua ed è sulla base di queste meschine bugie che l'amministrazione Obama si appresta a chiedere sanzioni contro il popolo libico.

venerdì 25 febbraio 2011

Para bellum



Non ci sarà nessuna rivolta in Arabia Saudita e probabilmente nemmeno in Bahrain. Non sono invece escluse altre “rivolte” in Africa. È in questo continente che si sta combattendo, sempre più alla luce del sole, lo scontro tra grandi potenze. Siamo solo ai preliminari. La Cina ha in Africa 5.000.000 (cinque milioni) di ingegneri, tecnici e operai. Per contro, gli Stati Uniti addestrano attraverso il Comando Africa (Africom) le forze armate dei principali paesi del continente. La Nato, invece, sta per concludere un trattato di partnership militare con l’Unione africana (53 paesi), il cui Q.G. è in costruzione a Addis Abeba.
Intanto leggo che la Russia, la cara vecchia Russia, ha deciso di spendere 474 miliardi di euro entro il 2020 per equipaggiare le sue forze armate con mezzi ed armi più efficaci. Il piano è stato illustrato ieri dal vice ministro russo della difesa Vladimir Popovkin, già Ca. SM delle Forze spaziali russe. La priorità sono le forze strategiche nucleari: è prevista la costruzione di otto sottomarini nucleari multiuso (nella foto) del tipo 885 "Ash" dotati di missili balistici R-30 Bulava (teoricamente può essere dotato di 6 testate MIRV, ma ha una sola testata da 550 kt, in modo da non dover rimuovere l’elettronica anti ABM), con una gittata di 8-10.000 km. Saranno modernizzati anche i bombardieri strategici Tupolev-160. Entro i prossimi 11 anni, Mosca acquisterà inoltre 600 aerei, mille elicotteri, 100 navi e 56 sistemi di missile terra-aria S-400. Il nuovo armamento sarà tutto made in Russia, tranne quello non disponibile nel mercato nazionale. L’ex generale ha anche ricordato la produzione militare realizzata nel 2010: otto satelliti, 23 aerei, 37 elicotteri, 19 aerei con missili anticarro, 16 radar di difesa aerea, sei vettori per missili del sistema forze di terra, 61 carri armati, quasi 400 veicoli corazzati da combattimento e 6,5 mila veicoli.

La spartizione dei datteri



In Libia più che una guerra civile è in atto una “rivolta”, guidata dai “giovani” per la “libertà” e la “democrazia”. Il resto lo fa internet. L’Europa e l’Italia in particolare sono preoccupate per l’importazione dei datteri, i diritti civili e umani. Ma fino a ieri l’altro delle questioni migratorie, così com’erano trattate dalla Libia, su mandato, non interessava a nessuno. Tanto meno in Italia.
Il ministro della difesa italiano, nel corso di una trasmissione televisiva, dichiara che le forniture di armi italiane alla Libia risalgono all’epoca di Craxi e nessuno gli ride in faccia. Chiedere alla AgustaWestland, controllata Finmeccanica (quota libica nella capogruppo è del 2,1%), solo per quanto riguarda l’elicotteristica. Sempre Finmeccanica ha firmato contratti con la Libia (luglio 2009) per 20 miliardi di dollari. E dei contratti in atto tra la Fininvest e il Colonnello già si sa tutto, come per esempio con la Laftitrade, dove sono presenti con quote rispettivamente del 22% e 10% nel capitale della società di produzione e distribuzione cinematografica Quinta Communications, fondata da Tarak Ben Ammar.
Il livello d’informazione è questo nell'età dell'innocenza, e il “pubblico” gradisce. Del resto gli interessi in gioco sono enormi e il dott. Michele Santoro fa bene a non citarli, ad insistere invece sui principi, perché con altre cose ci si brucia davvero, oppure può succederti un banale incidente sul raccordo anulare.

Il più sornione è stato Luttwak, il quale ha detto che gli Usa e la Ue hanno stima dei ministri italiani. Cioè di come l’Italia sta trattando la faccenda. Impareggiabile il suo candore nel dire che questi popoli "non sono ancora pronti sul piano culturale e sociale per la democrazia". Un concetto estemamente flessibile quello di democrazia per simili galantuomini, per i quali, invece, gli indiani americani erano prontissimi a ricevere lezioni di democrazia e di religione dai coloni europei. E anche gli africani venivano importati nelle piantagioni dei padroni bianchi per essere redenti ai principi di uguaglianza, libertà e fraternità.
Sotto i loro piedi, i sei milioni di libici hanno una ricchezza enorme di cui, in maggioranza, godono solo di piccolissime briciole. L’Ente nazionale idrocarburi (meglio scrivere le cose per esteso) italiano ha in atto contratti per altri trent’anni e più. Lo stesso dicasi per le altre decine di compagnie straniere che operano sul posto. I libici mangiano prodotti quasi esclusivamente italiani, le attrezzature e le infrastrutture (vedi Impregilo e gruppo Trevi, ma anche Selex ecc.) sono in larga parte italiane. Non parliamo poi di sistemi d’arma, istruttori ed equipaggiamenti.
Chi sta facendo le scarpe a Gheddafi (sempre che ci riescano)? Per conto di chi, s’è vero, gli ufficiali libici disertano? Chi ha organizzato e dirige effettivamente questa faccenda? Non è dato sapere. Nemmeno Gheddafi e il suo entourage hanno interesse a svelare i retroscena. Il progetto qual è? La spartizione, probabilmente. Non va dimenticato che la Libia partecipa nelle bluechips europee con quote dell’ordine di oltre 60 miliardi di euro. Insomma un mare di denaro e di petrolio e di gas, ma ciò che importa veramente al business e ai politici sarebbero la “libertà” e i diritti umani del popolo libico. Perché no?
* * *
Ieri è comparso questo comunicato di Finmeccanica (diciottobrumaio è stato anche visitato da questo) che in sostanza, nello smentire, conferma. Gli elicotteri AW139, per esempio, possono essere adibiti ad usi sia militari, paramilitari e anche civili. Lo stesso dicasi per l'AW 109. E della Oto Melara cosa ci dicono? E poi, perché avere la coda di paglia? L'Italia è uno dei principali paesi esportatori di gadget ad uso militare.

giovedì 24 febbraio 2011

Quando la volenza si fa chiamare giustizia



Jean Léon Jaurès il 31 luglio 1914 ha 55 anni, è segretario del Partito socialista unificato, ed è stato tutto il giorno al Quay d’Orsay con  Abel Ferry, nominato vice segretario di Stato per gli Affari Esteri nel primo governo formato da René Viviani (che non ha potuto riceverlo).  L’intento era di scongiurare la guerra con la Germania.
A sera, come spesso gli accade, Jaurès cena presso il café du Croissant (nell'omonima via, dove al n. 16 aveva sede il quotidiano l'Humanité; il bistrot fa angolo con rue Montmatre, II arrondissement, esiste ancora) con amici e compagni di partito. La conversazione ovviamente ha un unico tema: quelle teste di cazzo del governo sono disposte ad entrare in guerra. Per mesi la stampa reazionaria ha preso di mira Jaurès per la sua contrarietà ad ogni avventura militare. Egli siede con le spalle alla finestra, aperta a causa del caldo, che dà sulla strada. Solo una tendina lo separa dal suo assassino, il quale la scosta e spara due colpi di rivoltella. Un proiettile colpisce Jaurès alla nuca, mortalmente.
L'assassino è Raoul Villain, di Reims, 29 anni, tranquillo e pio, biondo, occhi azzurri, studente di Archeologia presso l'Ecole du Louvre, e soprattutto un aderente della Lega di giovani amici dell’Alsazia-Lorena, un gruppo di studenti nazionalisti, sostenitori della guerra e vicino all'Action francaise. Subito arrestato sul posto dichiara di aver agito da solo per "togliere di mezzo un nemico del suo paese". Aveva acquistato un revolver Smith & Wesson, e prima di sparare aveva scritto alcune lettere incoerenti. Insomma un classico dell’omicidio politico.
Fu imprigionato. I medici lo dichiarano sano di mente. Per un simile delitto era prevista senz’altro la pena di morte, ma per tutta la durata del conflitto, tra un cavillo giuridico e l’altro, non fu processato. Nel marzo 1919, finalmente si celebra il processo. È un momento di euforia per la Francia vittoriosa e per via della Conferenza di pace.
La parte civile al processo chiede la pena della detenzione, in ossequio alla contrarietà di Jaurès per la pena di morte. Il pubblico ministero chiede anch’egli la condanna alla detenzione per l’imputato (fatto singolare) senza peraltro fissare l’entità della richiesta di pena (fatto ancora più singolare). Ma la cosa veramente stupefacente è che i giurati, dei buoni e patriottici borghesi che non avevano fatto la guerra, dichiarano (11 su 12) non colpevole l’imputato.
Raoul Villain fu rilasciato e si rifugiò a Ibiza. La vedova Jaurés fu condannata al pagamento delle spese processuali, il loro figlio era morto al fronte.

La voce dei padroni



Hitler usava Goebbels come esperto di sinonimi e contrari. Anche la pubblicità e la comunicazione fanno largo uso di sinonimi e contrari. Quando i portavoce dei padroni del mondo, cioè di quelli che controllano tutto, compresi la tecnologia e i mezzi di comunicazione terrestre e satellitare, parlano di “mercato”, intendono in realtà dire “capitale”, termine scomparso nella sua accezione originale. È parso molto più conveniente sostituire “mercato” a “capitale” per avere un effetto di neutralità. Se a decidere sono i “mercati”, è un po’ come se piovesse. Si tratta di un fenomeno "naturale", a fronte del quale, al massimo, puoi aprire l’ombrello. Se invece scrivo che l’aumento del prezzo dei carburanti è conseguenza delle decisioni del “capitale”, le implicazioni nel discorso pubblico sono diverse e potenzialmente assai pericolose.
Prova a dire che le speculazioni sui carburanti e i generi di prima necessità sono determinate dai capitalisti, cioè dalla borghesia, e vanno a colpire anzitutto i salariati e i pensionati. Non sarebbe politicamente corretto. Ti eliminano come elemento indesiderabile, di disturbo.
E per essere garantiti da eventuali effetti indesiderati nell’uso della terminologia, dal discorso pubblico sono spariti anche i riferimenti alle classi sociali. Sono state semplicemente relegate nelle soffitte della storia e sostituite da sinonimi: cittadini, consumatori, elettori, utenti, ecc.. Prendiamo il New York Times di ieri: «I prezzi dell'energia più elevati agiscono come una tassa sui consumatori, riducendo la quantità di potere d'acquisto discrezionale che essi hanno».
Non potendo cancellare la realtà, la si occulta cambiando il senso alle parole. Chi cazzo sono i “consumatori” ai quali si riduce il “potere d'acquisto” dal momento che gli aumenti dei carburanti “agiscono come una tassa”? Quelli che abitano nelle ville di Beverly Hills o del Massachusetts, nei mega attici di New York, nei ranch del Texsas? E cosa significa potere d'acquisto “discrezionale”? È il lamento dei pescecani dei settori merceologici diversi da quello degli idrocarburi. A noi, sembra dire il NYT, non fotte nulla di come spendono i propri salari gli schiavi, ma se i capitalisti del settore petrolifero aumentano, senza alcuna necessità (vedi più avanti) i prezzi dei carburanti, è chiaro che vengono in culo alla concorrenza, ai produttori e venditori di altri prodotti.
Tanto è vero che subito soggiunge: «Tali preoccupazioni hanno fatto scendere il Dow Jones di 178,46 punti, o 1,44 per cento, a 12,212.79. L’indice azionario più ampio, lo Standard & Poor's, è diminuito 27,57 punti, o 2,05 per cento, a 1,315.44, mentre l'indice composito Nasdaq perde 77,53 punti, o 2,74 per cento, a 2,756.42».
Altro che i “consumatori”, il NYT scrive che questo genere di dumping, di speculazione, è contrario all’etica del libero mercato, cioè gli speculatori e i petrolieri la stanno facendo troppo sporca. Infatti il ministro del petrolio saudita, Ali al-Naimi, ha detto in una conferenza stampa, dopo un incontro dei ministri delle nazioni produttrici di petrolio e consumatori a Riyadh, in Arabia Saudita, che «L’Opec è pronta a soddisfare qualsiasi carenza dell'offerta anche a fronte di quanto succede».
Scrive sempre il giornale americano: «Tom Kloza, l'analista capo presso il Servizio informazioni per i prezzi del petrolio, ha stimato che i sauditi potrebbero estrarre un surplus da 1 a 1.5 milioni di barili nel giro di pochi giorni. Come più grande produttore, l'Arabia Saudita è di gran lunga il più influente membro dell'Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, con una capacità di riserva da 4 a 5 milioni di barili al giorno nel giro di poche settimane. Questa quantità è più del doppio del petrolio che verrebbe perso globalmente se la produzione in Libia fosse interrotta completamente».
I "mercati", i capitalisti e gli speculatori, cioè i mandanti delle "rivolte", festeggiano e incoraggiano i propri media a colpire con il solito terrorismo: 10mila morti, 50mila feriti, al rialzo. Chissà, forse tra vent'anni ne sapremo qualcosa di più. Intanto in Egitto e Tunisia, come largamente previsto, comandano i militari, e di balle come “libertà” e “democrazia” non si stente più parlare. Diceva bene un certo Marx: «la borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali [...] gli uomini sono finalmente costretti a considerare con occhi liberi da ogni illusione la loro posizione nella vita, i loro rapporti reciproci».

mercoledì 23 febbraio 2011

Petrolio, sangue e chiacchiere



Scrivevo in un post di ieri che la dietrologia è una brutta cosa, ma che le apparenze mediatiche portano ad acchiappare farfalle.
Le cause della rivolta in Libia possono essere diverse, ma noi, scrivevo, non ne sappiamo nulla, per il semplice motivo che in questi e molti altri casi le notizie che contano veramente non ci vengono date. Gli affari sono affari (di qualsiasi tipo) e il pubblico non deve esserne coinvolto, bensì distratto a base di intrattenimento, democrazia, voto, sovranità popolare e altre balle consimili.
Ci raccontano tante cose su Gheddafi, anche quella degli oppositori in Cirenaica che guardano al mito della Senussia e di Omar Mukhtar.  Quindi Gheddafi avrebbe sempre snobbato  le tribù del Gebel, gli Orfella, gli Zintan, i Roseban. Sicuramente sarà così, ma non convince che le cose nascano così, all’improvviso.
Nel post precedente ho cercato, per quanto mi è stato possibile, di dare qualche ragguaglio sulla situazione economica della Libia. E in tale contesto c’è un fatto che risalta, ovvero che la Libia è una miniera d’oro nero, con giacimenti di idrocarburi giganteschi, soprattutto se si considera che il paese ha solo 2/3 degli abitanti della Lombardia pur essendo il 16° per estensione del mondo. Nel 2007 è stato valutato che soltanto circa il 30% delle risorse energetiche della Libia è stato esplorato.
Quindi il ruolo del National Oil Corporation (NOC), che funziona sia da gestore delle concessioni con le imprese estere sia da compagnia petrolifera nazionale. Il NOC è la 25° compagnia, del Top 100, a livello mondiale. Non proprio una scartina. Attraverso proprie controllate, come la Waha Oil Company (WOC), la Arabian Gulf Oil Company (AGOCO), la  Zueitina Oil Company (ZOC) e la Sirte Oil Company (SOC), il NOC segue una politica di sfruttamento in proprio dei nuovi giacimenti e di recupero con nuove tecniche di quelli abbandonati dalle compagnie straniere quando il prezzo del petrolio non ne permetteva lo sfruttamento.
Insomma è in atto un gioco molto ingarbugliato e pericoloso per il controllo e lo sfruttamento delle risorse minerarie libiche (l’estrazione di un barile di greggio ha un costo a volte che non supera un dollaro), di cui siamo pressoché all'oscuro, e che vede probabilmente il NOC sotto tiro, come un’organizzazione governativa libica proprietaria dei giacimenti e che vuole smarcarsi non poco dall’influenza straniera. Non è quindi escluso che colpendo Gheddafi si voglia in realtà colpire il NOC e la sua politica delle concessioni.

martedì 22 febbraio 2011

Le Grand Jeu



In Tunisia c’è stata la rivolta “del pane”, in Egitto supponiamo ci sia stata per via del falafel. Ma in Libia, per quale motivo centinaia di persone si farebbero ammazzare? La Libia è un paese economicamente in salute, con in atto un vasto piano di sviluppo infrastrutturale, la popolazione partecipa delle ricadute delle esportazioni di minerali, il reddito pro capite è più che buono (13.000 euro), il tasso di povertà al 7% (in termini non tanto relativi sta meglio dell’Italia). Tutto quindi a causa di quel dispotico bizzoso di Gheddafi, oppure possiamo adombrare che c’è dell’altro?
La Libia ha una popolazione di sei milioni di abitanti, è cresciuta nel 2008, in termini reali, a un tasso del 6,7% (secondo altre fonti: 3,4) a fronte di un tasso di crescita del 6,8% nel 2007 e 10,3% nel 2005. Ma è salita poco nel 2009 e la crescita nel 2010 non è stata granché. Per quanto concerne l'inflazione, dopo il picco avuto nel 2008 con valori pari al 10%, si assiste a una riduzione negli anni 2009 (3%) e 2010 (5%) e proiezioni per il 2011 in ribasso. Insomma, la Libia è troppo dipendente dall’esportazione degli idrocarburi e quindi dal loro prezzo. Se nel 2008 le entrate del governo nel settore degli idrocarburi è stata pari al 57,4% del PIL rispetto al 6,6% delle entrate provenienti da settori diversi,  nel 2009 c’è stato un tracollo. Ma vediamo come si colloca la Libia a livello globale.
Nel 2008 ha prodotto il 2,2% della produzione di petrolio greggio del mondo e si è classificata quarta tra i paesi africani e 17^ a livello mondiale in termini di volume di greggio prodotto. La produzione del gas è aumentata del 90% tra il 2004 e il 2008, di cui circa 2/3 è esportata, lo 0,5% della fornitura mondiale di gas.  La Libia è il primo paese in Africa e classificato settimo paese al mondo in termini di dimensioni delle sue riserve di greggio, che sono stimate a 43,7 miliardi di barili, pari al 3,5% del totale delle riserve mondiali di petrolio greggio (non poco, evidentemente). La Libia ha 1.540 miliardi di metri cubi di riserve di gas naturale, circa lo 0,8% del totale mondiale.
Le estrazioni sono regolate dalla legge n. 2 del 1971, mentre la legge n. 5 del 1997 disciplina gli investimenti esteri nei settori non-oil. Inoltre, la legge n. 443 del 2006 regola i rapporti commerciali con le aziende internazionali, compresi gli idrocarburi e i minerali. Questa legislazione richiede alle imprese straniere di avere un partner locale che detenga una partecipazione minima di una quota del 35% in tutte le joint venture. Si tratta quindi di una quota di proprietà statale, cioè il National Oil Corporation (NOC), che funziona sia da gestore delle concessioni con le imprese estere sia da compagnia petrolifera nazionale (Tamoil). L’Eni fa la parte del leone, con un accordo che le ha consentito di prolungare fino al 2042 la durata dei suoi titoli minerari per l'estrazione di petrolio nel Paese e fino al 2047 quelli per l'estrazione del gas. Però Tripoli ha imposto una revisione del contratto orientata alla riduzione delle estrazioni fino al 50%. Tuttavia a Banca Centrale Libica ha investito 50 milioni di euro in azioni Eni!
Nel 2008 agivano in Libia più di 50 compagnie petrolifere internazionali (IOC), lavorando sulla produzione di petrolio e di gas e nell’esplorazione. Tripoli ha rivisto al ribasso anche gli accordi di produzione tra il NOC e IOC, tra cui l’austriaca OMV AG, la Repsol di Spagna e Total di Francia, si sono rivisti portare a una quota inferiore la produzione di petrolio. Inoltre si è registrato un disaccordo tra NOC e China National Petroleum Corp. (Cnpc), per via di una società canadese acquisita dai cinesi, la Verenex Energy Inc., che  tra le sue attività in Libia aveva lavorato per il gas e l'esplorazione di petrolio nel bacino di Ghadames dal 2006 e aveva scoperto diversi giacimenti. Il governo, attraverso il NOC, ha contestato ai cinesi l'acquisizione della Verenex con conseguenti strascichi legali.
Insomma, è ancora una volta la pentola petrolifera che bolle, provocando molto vapore, quello che serve ad offuscare gli affari, le complicità tra ambienti libici e compagnie, eccetera eccetera. A farne le spese i soliti poveracci.

Gli amici di Muammar Abu Minyar al-Gaddafi




Quanto sta accadendo nel Nord Africa (e nel Vicino Oriente) può essere frutto delle circostanze, ma queste si stanno spingendo al di là dell’ordinario e anche dello straordinario per essere delle comuni circostanze. C’è quindi un piano preordinato? Sicuramente in un’area così vitale per gli interessi Usa e Ue (ma non solo) quanto avviene in successione non può avere un così elevato grado di casualità.
Le dietrologie sono pericolose, anche perché non siamo al corrente di nulla. Per esempio, i dispacci diplomatici di WikiLeaks sono imbarazzanti ma risibili quanto a reale contenuto informativo. Le comunicazioni importanti sono trasmesse in cifra con sistemi dedicati e tramite corrieri. Ma anche fidarsi delle apparenze, delle notizie dei media, non aiuta a capire di più. A meno di non voler credere alla cosiddetta rivoluzione di twitter. Non è in atto nessuna rivoluzione, il potere è saldamente in mano ai militari in Tunisia ed Egitto. Della Libia non sappiamo nulla di preciso, ma anche lì detterà legge l’esercito. E del resto, armi ed equipaggiamenti non sono prodotti sul posto e per far volare aerei ed elicotteri non basta il carburante.
Le comunicazioni libiche sono basate su Intelsat (organizzazione intergovernativa ma di proprietà di Goldman Sachs), Arabsat (principale operatore di satelliti per telecomunicazioni in Medio Oriente con sede in Arabia Saudita) e Intersputnik; quindi cavo sottomarino con Francia e Italia; ponte radio a microonde per la Tunisia e l'Egitto; scattering troposferico in Grecia; partecipante Medarabtel.
Pertanto, i “rivoltosi”, da soli, al massimo possono servire il tè o prendere un barcone per l'Italia.

P..S. Per chi avesse iteresse: Central Bank of Libya, Annual Report

lunedì 21 febbraio 2011

Una domanda: diversi in cosa?



Silvio Berlusconi, il quale non perde occasione per farsi ritrarre nel ricevere la comunione, ha dichiarato di non voler “disturbare” l’altro statista suo amico, quello di Tripoli, mentre uccide centinaia di suoi concittadini. Quello di Berlusconi è quantomeno un peccato di omissione, ma certamente troverà pronto qualche buon prete disposto ad assolvere, a contestualizzare e in nome di dio misericordioso a perdonare. Del resto, Vittorio Messori non ha detto che un conto è ciò che fa il Vaticano e altra cosa è la Chiesa? E lui di Vangelo se ne intende!
* * *
Ogni pezzo richiede pochi gesti, sempre uguali, misurati, studiati e cronometrati da “esperti”. È il “lavoro” coattivo alla catena. Per ore, giorni, settimane, tutta la vita, sempre gli stessi movimenti. È un fare che impegna il corpo, non la mente, che vaga altrove, al mutuo, ai figli, al prossimo giorno in famiglia, quando finalmente l'operaio ritroverà altri gesti e relazioni. Ma sarà per poco, come quando si ricarica una batteria esausta. Poi daccapo, anzi, con ritmi accelerati, per essere “competitivi”, come richiede il padrone, il sindacato e il partito. E l’intellettuale concettoso, di ritorno da un meeting.
C’è un motivo, una giustificazione, perché donne e uomini, persone, esseri umani, possano essere costretti a vivere e riprodurre la propria esistenza come schiavi? oggi che creatività e conoscenza, passione e cooperazione, possono trasformare i deserti in giardini, l’umanità in una comunità unita dagli stessi interessi?
Coloro che non si pongono questa domanda, o che preferiscono non “disturbare” i manovratori di questo stato di cose, e anzi pontificano perché tale sistema schiavista possa continuare e svilupparsi nella “competizione internazionale”, sono forse diversi da Berlusconi e Gheddafi?

domenica 20 febbraio 2011

Il gesuita laico



Anche il più grande filosofo nazionale vivente, nel suo editoriale odierno, si occupa del pettegolezzo sanremese come un comune blogger, segnatamente dello show del cavalier Benigni. Scalfari suggella la performace dell'attore con questo giudizio definitivo: «Ha dato anche notizie di fatti antichi probabilmente ignoti ai più». Certo, non poteva tenere una lezione di storia, ma se avesse accennato una piccola nuance, rivelando chi uccise il suo eroe, il Mameli, avrebbe dato un dispiacere in Vaticano, ma sicuramente tra quei “20 milioni di italiani che per quaranta minuti hanno riso, applaudito, e preso a cuore il Risorgimento”, nessuno sarebbe rimasto con l'eventuale dubbio che ad ucciderlo sia stato un colpo vagante di un cacciatore di frodo. No, direbbe Scalfari, da buon gesuita laico, si sarebbe rischiato di guastare la festa, la comparsata risorgimentale, se Benigni avesse detto che Mameli fu colpito dal piombo di un esercito straniero che combatteva contro gli italiani in nome e per conto del Papa-Re. L’ennesimo straniero calato in Italia su chiamata del Vaticano, ossia per conto di quella chiesa che è stata sempre acerrima oppositrice di ogni autonomia e indipendenza nazionale. Quella stessa loggia ecclesiastica che maramaldeggia tutt’ora con pretesca cavillosità ad ogni tentativo di laicizzare effettivamente uno Stato che da troppo tempo è sotto tutela clericale su ogni e qualsiasi materia, sia per imporre un idolo appeso al muro, ma anzitutto su quei temi che attengono la libertà di ogni individuo. A nessun suddito può essre dato di decidere di vivere e morire come cazzo gli conviene, ossia secondo coscienza e in ossequio a principi universali e leggi europee, di educare i propri figli senza ritrovarsi tra i piedi dei pezzi di merda con la tonaca che  straparlano del disegno intelligente e di altre cosmiche fregnacce, che ti dicono quando, come e con chi scopare (se non sei presidente del consiglio).
Non è un caso che qualche riga dopo, parlando di fatti politici correnti, riferendo della riluttanza di Casini ad allearsi in coalizione con il centro-sinistra per battere Berlusconi, Scalfari racconta di come Casini punti invece dichiaratamente a far vincere al Pdl-Lega le prossime elezioni,  che incasserebbero così il premio di maggioranza; ma non al Senato, dove, secondo il leader caro al Vaticano, Pdl-Lega non vincerebbero. «Ci saranno – scrive Scalfari – allora due Camere con maggioranze diverse e quindi una situazione ingovernabile senza un compromesso. Spetterà allora a lui, Casini, proporre una "grande coalizione" che unisca tutte le forze politiche per gestire la crisi, a cominciare dal Pdl e dalla Lega, ma senza Berlusconi premier. Questo è il progetto, probabilmente supportato anche dal Vaticano».
Come già nel 1922, il Vaticano sguazza in simili situazioni. Ne ho scritto in questo post.
In qualunque altra democrazia sarebbe possibile l’ingerenza di uno Stato straniero come il Vaticano, di un’organizzazione mondiale così potente e occulta come la Chiesa cattolica, a tale livello nelle faccende politiche interne fino a determinarne gli assetti? Se dunque Berlusconi è un’anomalia smaccata di cui Scalfari si occupa con la propria oratoria in ogni occasione possibile, perché tacere di uno scandalo abnorme come quello della perdurante ingerenza vaticana nelle delicatissime questioni politiche italiane? O è sufficiente giustificare questi gravissimi fatti con il consenso di cui gode il cattolicesimo in Italia? Su questo punto cruciale, sugli ammiccamenti tra Berlusconi e i cardinali, la sinistra italiana, di ieri e di oggi, ha solo da andarsi a nascondere.

Cazzeggiando in un'alba livida di periferia in un giorno di festa



Questo sistema ha bisogno della miseria per sopravvivere. Non un solo salariato sarebbe disposto a lavorare per un padrone se non spinto dalla necessità (salvo gli alienati cronici). Ma se il bisogno è indispensabile per garantirsi l’obbedienza delle braccia, per ottenere la rassegnazione delle teste è necessario spacciare l’idea che questo sistema è definitivo e insostituibile.
Tutto il lavoro d’indottrinamento, in qualsiasi ambito e livello della vita sociale, ha per scopo precipuo e persistente l’affermazione dell’idea che questa società è per sempre; nonostante i limiti e i diffetti che essa presenta, è l’unica forma sociale suscettibile di autoriforma, con possibilità di evolvere in meglio. Ogni individuo, per statuto, è abilitato a collaborare per mezzo del suffragio universale, espressione della sua volontà e sovranità delegata.

L’ideologia del presente perpetuo diventa menzogna totalitaria dichiarando morte le ideologie concorrenti. Riscritto mille volte il passato e lasciato cadere ogni riferimento razionale, il resto è dato in gestione a quello che Marx definì il “cretinismo parlamentare”, ovvero “quell’infermità che riempie gli sfortunati che ne sono vittime della convinzione solenne che tutto il mondo, la sua storia e il suo avvenire, sono retti e determinati dalla maggioranza dei voti di quel particolare consesso rappresentativo che ha l’onore di annoverarli tra i suoi membri”. La massima espressione di tale cretinismo è oggi aggiornata nella versione dei consessi economici internazionali, laddove non si dispone su nulla di essenziale che non sia stato già deciso altrove.
Per contro, i padroni più birbi e i loro lacchè ammoniscono i sognatori impenitenti: ricordatevi che uscire dal bisogno non basta. Costruttori di piramidi e di automobili, leggete bene l’etichetta, ogni merce contiene conoscenza e questa tende a coagularsi, farsi autonoma, occulta e totalitaria. Avrete sempre bisogno di un dentista per la vostra carie. Era l’assillo di Pol Pot, do you remember?
Fanculo, e allora? Già scoraggiato, confuso e soprattutto rassegnato il nostro costruttore di parcheggi e di Hummer pensava che sarebbe bastato un colpo di cannone, quello dell’incrociatore Aurora, per poter mettere a tacere ogni contraddizione. Verrà però un giorno, durante una pausa mensa, che Sergio Marchionne, reimpiegato dall’azienda per scarso rendimento nel reparto presse, spiegherà ai nuovi compagni di lavoro il concetto di negazione della negazione. Fiat lux.

sabato 19 febbraio 2011

La belle époque sta finendo



In un post di ieri, in riferimento ad un editoriale di Valentino Parlato incentrato sul ruolo del denaro in rapporto al potere e alle istituzioni statali, scrivevo una cosa che è nota a tutti, e cioè che il denaro è la misura di tutte le cose, non solo in economia. Sarebbe di sicuro interesse leggere i rapporti (alcuni dei quali accessibili nel web) che gli ambasciatori veneziani del Cinquecento inviavano alle autorità della Serenissima per rendersi conto dell’importanza del denaro nel gioco delle potenze e delle alleanze dell’epoca. Qualunque rapporto di forza è in tali relationships valutato in zecchini sonanti, in crediti e debiti, possessi fondiari e numero di servi.

In un altro post, riportavo il pensiero di Strauss-Kahn, direttore generale del Fondo monetario internazionale, un pragmatico avvocato ed economista, il quale afferma senza mezzi termini (segno che l’intellighenzia capitalistica è più avanti di certa politica) che Germania e Cina non sono modelli virtuosi da imitare, bensì “arcipeccatori” del sistema, visto che il loro modello di sfruttamento sistematico dei surplus dell’export per potenziare la crescita a spese di Usa e altre nazioni in deficit, altro non è che una riedizione degli sbilanci tossici globali che hanno fatto riemergere la crisi.

Questo è un punto fondamentale da tener presente per tentare di comprendere almeno un po’ ciò che sta accadendo. In un suo articolo del 14 febbraio, John Vinocur, sull’Herald Tribune, dopo aver scritto che la Germania intende promuovere l’idea di essere un baluardo di forza economica, un modello di giustizia sociale, e un esempio universale di onestà, trasparenza e parsimonia, riporta il giudizio espresso in un suo rapporto dal Fondo monetario internazionale. In tale rapporto, di due settimane fa, si avverte come la Germania (e la Cina e gli Stati Uniti) è responsabile del riemergente dei fattori di pre-crisi, ossia degli squilibri mondiali. In sostanza il FMI dice che Berlino non ha ascoltato l’ammonimento del gruppo del G-20, di ridurre cioè le sue eccedenze di esportazione attraverso le importazioni e gli investimenti, aumentando i consumi interni.

Vai a dirglielo alla Merkel che il tedesco medio deve bere più birra e mangiare ancora più salsicce, ma soprattutto lavorare meno per l’esportazione. E del resto il surplus tedesco, come scrive Joseph Halevi sul manifesto di ieri, si concretizza nell’ambito della Ue, quindi lo squilibrio prodotto da Berlino “pesa prevalentemente sul resto dei paesi dell’Unione europea, senza che questi abbiano spazio di manovra”.
Il più grave errore strategico del dopoguerra è stato quello di permettere la riunificazione (in chiave anti-russa) della Germania. Se ne accorgeranno tardi e ne pagheremo le conseguenze nel tempo. Chi comanda in Europa se non la Germania con al guinzaglio la Francia?  I paesi del Sud Europa sono solo un latifondo da cui la Germania prende solo ciò che le serve, e un mercato dove smaltire, a strozzo, il suo surplus commerciale. È un gioco pericoloso che può far saltare tutto.

Non è stato dato molto rilievo, anzi per nulla (in Germania quest’anno ci sono sette tipi di elezioni), alla notizia di un’operazione fatta dalla BCE del controvalore di 15.8 miliardi di Euro. Un rifinanziamento anomalo nell’importo soprattutto se rapportato alla media delle sedute precedenti, sempre sotto i 6 miliardi. Il fatto è che la Banca centrale europea è stata trasformata nel più grandioso hedge fund europeo. Ed è sempre di questi giorni la notizia che la National Bank of Greece si è comprata, con uno scambio carta contro carta, l’altra grande banca greca, l’Alpha Bank, ovvero le due banche si sono fuse sennò fallivano. Sullo stato di salute delle banche, non c’è da stare allegri: Felix Hüfner, un economista tedesco ai vertici dell'OCSE, afferma: “C'è una riluttanza [eufemismo che sta per reticenza] a diffondere le informazioni su di loro, di essere trasparenti. Si tratta di esitazione, e io lo prendo come un fattore di rischio”.

La prossima botta sarà quella più forte.

venerdì 18 febbraio 2011

Patrioti del Pil



In una società in cui la festa è intesa come mera interruzione del processo produttivo, si tratta di una società di schiavi.
Ad ogni buon conto, dovendo accontentarci, registriamo che il consiglio dei ministri, cioè Silvio Berlusconi, ha preso una “sofferta” (TG2) decisione: il 17 marzo è festa, cioè non si lavora. Quei simpaticoni di provincia della Lega Nord non hanno perso l’occasione per “stigmatizzare” la decisione (questione di Pil!) e rassicurare i supporter padani, dediti al lavoro, che nonostante il magna e bevi che si fa a Roma, loro, i leghisti duri e puri, puntano al federalismo, dopo aver fallito la secessione. E a proposito di federalismo e di Pil, sarà bene rammentare alcuni dati Istat, riferiti al 2005 (ci vuole tempo!), e pubblicati sul Corriere di oggi:
il record del “sommerso”, sinonimo di evasione, spetta al settore «alberghi e pubblici esercizi», e si aggira attorno al 56,8%;
lavoro domestico e badanti si ferma al 52,9%;
agricoltura (31,1%) e commercio (21,7%);
l’industria tocca l'11,7% (per bilanciare le lunghe pause mensa degli operai);
nel settore delle costruzioni si arriva al 28,4%;
il tessile-abbigliamento-calzature è al 13,7%, ma è un dato molto sottostimato;
gli alimentari (10,7%);
Per quanto riguarda il lavoro in nero, dopo cuochi, camerieri e colf, ci sono istruzione e sanità (36,8%), trasporti e comunicazioni (33,9%), commercio (32,1%); servizi alle imprese (21,5%).
La borghesia ha trovato in questi scienziati sociali della padania una sponda ben utile per distrarre l’attenzione contro un sempre possibile ritorno del protagonismo del proletariato.

Mameli e Berlusconi


Quando un proletario diventa ricco spesso comincia a pensare come i ricchi.
È il caso di Roberto Benigni, l’attore e regista che nel suo film più celebre riesce a far liberare Auschwitz dagli americani. Un falso storico che gli è valso a pieno titolo l’Oscar.
Ieri sera la sua performance televisiva, “l’esegesi dell’inno di Mameli”, ha deliziato platee di milioni di teleutenti. Tra le novità storiche illustrate al volgo di particolare significato è stata quella relativa alla morte del giovane Mameli in difesa della Repubblica romana nel 1848. È morto a seguito di una ferita, ma non ci è stato detto da chi gli fu procurata né da chi stava difendendo la Repubblica romana. Secondo l’Ansa, nel momento del monologo benignano, a Roma, al di là del Tevere, è stato avvertito un forte boato, come un enorme rutto. La protezione civile sta indagando.
* * *
Valentino Parlato oggi ci racconta sul manifesto che nelle università italiane si spiegava (e si doveva fare gli esami) che nello Stato  c’erano tre poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario. Ma nelle università italiane – prosegue Parlato – continua “un bel silenzio sul potere dei soldi. Il quarto potere”.
Veramente fin dalle medie s’impara che quello dei soldi è palesemente il primo potere, dal quale tutti gli altri sono, per diritto o per rovescio, emanazione e rappresentanti, per quanto formalmente indipendenti e nutriti di grandi e retoriche riverenze. Il potere legislativo, esecutivo e non ultimo quello giudiziario, non sono altro che curatori ed esecutori del potere del denaro e dei suoi rapporti.
Tutte le leggi sono regolate secondo il principio che è il denaro il dominus di ogni rapporto sociale in un società divisa in classi, a cominciare dal rapporto fondamentale, quello tra capitale e lavoro. La legislazione tende, nella migliore delle ipotesi, a regolare i contrasti, a garantire l’ordinato sfruttamento delle braccia in forme “moderne”.
In altri termini, da un lato lo Stato ha la necessità di contenere le spinte disintegrative che gli interessi antagonistici di classi sociali contrapposte portano con sé. E tuttavia dall’altro lato esso non può affatto conciliare tali antagonismi, bensì può solo tenerli a freno, irreggimentarli, impedire con ogni mezzo che la loro potenzialità si trasformi in pratica rivoluzionaria. Esso è dunque innanzitutto garante di un determinato sistema economico e della sua riproduzione.
Nel concreto, Valentino Parlato sostiene che l’unico potere che ormai tenga testa a Berlusconi sia quello giudiziario. Ed è vero per la semplice ragione che gli altri due poteri sono stati assunti in proprio, acquistati con denaro, dallo stesso Berlusconi. L’accentramento diretto da parte di una sola persona di tutti i poteri dello Stato, distingue una qualunque democrazia dispotica da un regime apertamente fascista. È a questo che Berlusconi e i suoi alleati stanno puntando, seppure tra un rinvio a giudizio e l’altro.

L'intervista al biologo Jerry Coyne


La militanza di Jerry Coyne per le teorie di Darwin
Impegnato nel proprio lavoro di biologo, e docente nel dipartimento di «Ecologia ed evoluzione» dell'università di Chicago, Jerry Coyne ha studiato a Harvard con due dei maggior biologi contemporanei, Ernst Mayr e Richard Lewontin. È un convinto sostenitore della incompatibilità tra scienza e religione, e su questo fronte si è impegnato in un'intensa attività di divulgatore scientifico e di polemista sulle pagine del New York Times e del New Republic. Non molto tempo fa ha scritto una lettera di protesta, divertente per quanto ferma, al direttore del Cnr italiano che ha finanziato la pubblicazione di un libro a favore del creazionismo, curato dal vicepresidente dell'organizzazione Roberto de Mattei. Cominciamo con una domanda politica.
Di quale fortuna gode l'evoluzionismo in America, dopo l'elezione di Obama?
Per quel che riguarda il dibattito sulla evoluzione, negli ultimi trent'anni non è cambiato praticamente nulla. I creazionisti hanno intentato numerose cause legali contro l'insegnamento dell'evoluzione nella scuola pubblica, ma nessuna di queste ha avuto successo. Sempre per la stessa ragione: la costituzione americana proibisce che una religione interferisca in quel che è pertinenza dello Stato, dunque anche nella scuola. Purtroppo, però, nel corso degli anni l'accettazione della teoria di Darwin non è aumentata. Per tre decenni le indagini hanno dato sempre i medesimi risultati: circa il 40% dei cittadini americani rifiuta completamente l'evoluzione poiché fa suo il punto di vista biblico secondo il quale tutta la vita è stata creata in un colpo solo non prima degli ultimi 10.000 anni. Al contrario, in Italia l'evoluzione è accettata quasi dal 70% delle persone. Il presidente Obama, come la maggior parte dei democratici, accetta l'evoluzione biologica, mentre il partito repubblicano di solito la rifiuta. La posizione di Obama è positiva per il progredire della ricerca scientifica ma, sfortunatamente, non influenzerà molto il resto dell'America. Questo perché la maggior parte delle persone che rifiuta l'evoluzione la rifiuta seguendo una interpretazione della Bibbia letterale. Finché sarà così, non c'è da sperare che gli Stati Uniti possano amare Darwin più di quanto lo amino oggi.

Negli attacchi dei creazionisti all'evoluzionismo colpisce la loro inutilità teologica. In fondo, fede in dio ed evoluzione sembrano compatibili. Basta dire che all'inizio la scintilla (del big bang ad esempio o della vita) è stata divina. Perché accanirsi allora.
Non è del tutto vero che l'evoluzionismo è compatibile con la fede in dio, dipende da cosa si intende esattamente con «credere in dio». Certo, molte persone sono religiose, accettano l'evoluzione e non vedono in ciò alcun conflitto. I deisti, per i quali dio ha creato l'universo e poi ha lasciato che si sviluppasse senza intervenire ulteriormente, ne costituiscono un esempio. Ma, di contro, i fondamentalisti cristiani, come i Southern Baptists of America (nome della più ampia associazione di chiese battiste degli Stati Uniti) interpretano la Bibbia in modo letterale e quindi credono che la terra sia una pianeta giovane e che la creazione di animali e piante sia avvenuta in modo istantaneo. Lo stesso vale per molti ebrei ortodossi e per i fondamentalisti musulmani che interpretano in termini letterali il Corano. Secondo sondaggi recenti, l'81% degli americani crede letteralmente nell'esistenza del paradiso, il 70% nell'esistenza di Satana e dell'inferno e il 78% nell'esistenza degli angeli. Queste persone non leggono la Bibbia in termini metaforici ma come un libro che contiene verità empiriche. Se la tua religione è di questo tipo, non puoi considerare l'evoluzionismo compatibile con dio. Molti di noi, del resto, concepiscono la scienza e la religione come incompatibili in linea di principio perché costituiscono due modi differenti di concepire il mondo. La scienza si basa su dati empirici, sulla razionalità, sull'osservazione empirica e sulla costante messa in discussione delle teorie, mentre la religione si basa sul dogma e sulla rivelazione. Nella religione la fede è una virtù mentre nella scienza è un difetto.
Ma il pericolo maggiore non è che la contrapposizione tra evoluzionisti e creazionisti comprima il dibattito interno all'evoluzionismo? Non sarà un caso, per esempio, che lei non accenni nemmeno, nel suo libro, al testo molto discusso di Fodor e Piattelli Palmarini «Gli errori di Darwin»…
Dissento con l'idea secondo la quale il mio libro non lascerebbe spazio al dibattito nella biologia evoluzionistica.
Nel mio libro discuto molti interrogativi ancora privi di risposta che dividono gli evoluzionisti, per esempio il ruolo relativo della selezione naturale e i processi casuali nel cambiamento evolutivo; se questo cambiamento avviene in modo molto lento e graduale o se a volte può essere veloce; su quali comportamenti degli esseri umani moderni sono evoluti per selezione naturale dai nostri antenati. Quel che dobbiamo ricordare, comunque, è che sono controversie scientifiche, e come tali non offrono supporti al punto di vista creazionista. Il cui argomento retorico è che simili controversie dimostrano la crisi dell'evoluzionismo. Per quel che riguarda il libro Gli errori di Darwin, sono del tutto in disaccordo con il suo argomento di fondo secondo il quale non solo il concetto di selezione naturale non avrebbe evidenza empirica ma la sua stessa idea sarebbe incongruente: una affermazione semplicemente sbagliata. Ho scritto una lunga critica al libro, chi la vuole leggere la trova qui.
A cura di Marco Mazzeo, il manifesto dell'11-2-2011

Non si ammettono atti di fede nella scienza


L'evoluzione è un fatto
Da oggi a Milano tre giornate di incontri sui grandi esploratori per illustrare la teoria darwiniana. Con l'occasione, l'editore Codice traduce il libro di Jerry Coyne, Perché l'evoluzione è vera, che si conclude con un monito: cercare la perfezione tra i viventi è tipico non di chi fa scienza, ma dei creazionisti che aspirano a farsi cullare dalle braccia di dio
È dalla fine degli anni '80 che, negli Stati Uniti, l'insegnamento nelle scuole della teoria darwiniana dell'evoluzione rappresenta una partita politica decisiva (da noi, com'è noto, il decreto Moratti nel 2004 ha cercato di cancellare l'evoluzione dai programmi della scuola media italiana). L'oggetto della discordia può essere riassunto in questa domanda: «è giusto insegnare l'evoluzionismo o bisogna proporre agli studenti altre teorie?». Dietro un interrogativo apparentemente pluralista si nasconde il problema rappresentato da cosa si intende con l'espressione «altre teorie». Una prima possibilità interpretativa aprirebbe scenari interessanti in grado di favorire il confronto con versioni eterodosse della biologia scientifica: una di queste versioni, per esempio, la offrì lo zoologo J. von Uexküll che, all'inizio del secolo scorso, rifiutò l'evoluzione ma coniò un concetto oggi centrale come quello di «ambiente»; un'altra versione è quella offerta dal volume Gli errori di Darwin di Jerry Fodor e Massimo Piattelli Palmarini, un libro che all'interno di una prospettiva materialista ed evoluzionista discute la fragilità della nozione di selezione naturale. Purtroppo, invece, sotto la dicitura «altre teorie» oggi si nascondono versioni, più o meno esplicite, del creazionismo: l'idea secondo la quale tutti gli animali, o comunque gli esseri umani, sono creati da dio.
In forma di apologia
Negli Stati Uniti, la versione più insidiosa è rappresentata da una variante che si autodefinisce scientifica ma è ancora tutta dogmatica, quella del «disegno intelligente»: l'evoluzionismo sarebbe sbagliato perché non terrebbe conto di proprietà del mondo naturale spiegabili solo con un progetto intrinseco alla natura, caratteristiche che in qualunque altra circostanza sarebbero attribuite all'intelligenza. Dio non lo si nomina ma è lì, dietro l'angolo. La mossa retorica applica un cliché argomentativo potente poiché unisce due elementi che, a prima vista (ma davvero solo a prima vista), non stanno insieme: relativismo epistemologico e autoritarismo dogmatico. Mossa numero uno: l'evoluzionismo sarebbe una teoria non dimostrata, pari a un atto di fede. Mossa numero due: è dunque giusto insegnare nelle scuole anche «altre teorie». Mossa numero tre: queste «altre teorie» possono ispirarsi ad altri atti di fede. Risultato: a scuola finiamo con l'imparare la natura del disegno intelligente, cioè la scienza secondo la religione.
In risposta a tutto questo, proprio nella Milano di Letizia Moratti, partono oggi tre giornate di incontri presso il Museo di storia naturale, sotto il titolo I grandi esploratori. L'evoluzione e la diversità viste con gli occhi di viaggiatori e scopritori, per illustrare una scienza pluralistica che non accetta, però, invasioni di campo da parte della teologia. In occasione dell'Evoution Day, giorno in cui si festeggia l'anniversario della nascita di Charles Darwin, l'editore Codice rende disponibile una cassetta degli attrezzi molto utile per difendersi da questa ondata reazionaria: la traduzione italiana del libro di Jerry Coyne, Perché l'evoluzione è vera (pp. 314, 29 euro). Il volume ha la struttura retorica dell'apologia: lo scopo è dimostrare che i dati empirici a favore dell'evoluzionismo sono oggi esorbitanti, tanto che l'evoluzionismo può ormai esser considerato non una teoria ma «un fatto». Il libro ha il valore aggiunto di costruire con illustrazioni molto curate un testo di base che, in modo chiaro e argomentato, mostra l'intelaiatura del paradigma teorico darwiniano. Da questa fotografia panoramica emergono due indicazioni di fondo. La prima è di ordine empirico. L'evoluzionismo ha parecchie frecce al proprio arco. Un caso per tutti: spesso si rimprovera all'evoluzionismo di non essere una teoria propriamente scientifica perché, rivolgendosi al passato, non è in grado di fare previsioni. Questo, suggerisce Coyne, non è affatto vero. È possibile, invece, fare diversi tipi di previsione. Non solo in laboratorio ma anche di ordine storico, previsioni cioè «a ritroso». Nel 2004, ad esempio, è stato scoperto un fossile che dimostra la derivazione degli anfibi dai pesci poiché le caratteristiche ossee degli arti del Tiktaalik (un animale quasi anfibio ma ancora pesce) sono una via di mezzo tra la pinna natatoria e la zampa rigida adatta a camminare sulla terraferma. Ma l'aspetto più interessante del reperto (di per sé già imbarazzante per il creazionista: se gli animali non cambiano perché creati da dio, come mai troviamo tutte queste forme intermedie?) sta nel come è stato scoperto. Non si tratta, infatti, di un ritrovamento casuale legato allo scavo della metropolitana di turno, ma del frutto di una ricerca predittiva. Questo il ragionamento: se fino a 390 milioni di anni fa non abbiamo tracce di anfibi perché le prime forme di questi animali hanno 360 milioni di anni, per ritrovare forme intermedie dovremmo individuare uno strato geologico adatto alla conservazione fossile vecchio, all'incirca, 375 milioni di anni. Ed è così che, dopo alcuni tentativi, nel Mar Glaciale artico venne ritrovato un mezzo anfibio e mezzo pesce incistato nello strato geologico previsto.
La seconda indicazione è di ordine teorico. Tra il creazionista e l'evoluzionista esiste una diversità radicale di atteggiamento legata a uno stato d'animo comune, la meraviglia. Il primo prova meraviglia per quel che è perfetto: è nell'adeguat-ezza delle piume degli uccelli al volo o nell'efficienza natatoria del delfino che egli individua la manifestazione naturale del disegno divino. Per il secondo è centrale, invece, l'imperfezione del vivente: gli organi vestigiali che ormai non servono (la nostra appendice intestinale), le stratificazioni morfologiche all'apparenza inutili (quelle che rendono i feti animali sorprendentemente simili tra loro) o le distribuzioni non omogenee delle forme di vita che fanno dell'Australia la patria dei canguri.

Una mossa spericolata
L'evoluzionista può compiere, dunque, solo un errore. Può finire col portare acqua al mulino creazionista illudendosi di aver individuato un meccanismo perfetto (ad esempio quello dell'adattamento) che trovi sempre e comunque un punto di applicazione. Per questo motivo, la parte finale di Perché l'evoluzione è vera contesta chi, in nome dell'evoluzione, pensa di poter trovare una spiegazione adattativa a tutto, a ogni aspetto del comportamento animale o della vita umana: la cosmesi e l'omosessualità, l'altruismo e il rito religioso (un paradigma che spesso va sotto l'etichetta di «psicologia evoluzionistica»). La mossa non solo è spericolata dal punto di vista empirico (in che modo, ad esempio, il suicidio può aiutare alla proliferazione dei nostri geni?) ma anche controproducente da un punto di vista teorico. Perché, come abbiamo visto, cercare la perfezione nel mondo vivente è tipico non di chi fa scienza, ma di chi vuol ritrovarsi cullato tra le braccia di dio.
L'articolo è di Marco Mazzeo, il manifesto, venerdì 11 febbraio 2010, p. 11. Nella stessa pagina è pubblicata un'intervista assai interessante a Jerry Coyne reperibile presso l'Archivio on-line del quotidiano ma che comnuque sarà riproposta qui nel prossimo post.

giovedì 17 febbraio 2011

Dispotismo democratico e collaborazionismo sindacale


Il fatto che in Germania ci siano salari da fame nel settore del lavoro precario è stato reso noto in uno studio pubblicato la scorsa settimana dalla Confederazione sindacale tedesca (Deutscher Gewerkschaftsbund, DGB), cui aderiscono i sette principali sindacati. La cosa ha un indubbio interesse perché serve da confronto con l’Italia.
Nel giugno del 2010, secondo dati ufficiali dell'Ufficio federale del lavoro, 800.000 persone sono state impiegate con contratto temporaneo, ma ora si viaggia verso il milione. Secondo il DGB, nel 2009 i lavoratori temporanei hanno guadagnato una media di soli 1.456 euro lordi al mese in Germania Ovest e solo 1.224 euro nella Germania dell'Est. Lo studio DGB, ha registrato salari netti medi mensili per le lavoratrici non sposate e senza figli di 1.055 euro nella Germania occidentale e solo 921 euro nella parte orientale del paese.
Ma queste sono soltanto delle medie. Un salariato su dieci con contratto temporaneo a ovest e uno su cinque nell’est guadagna addirittura meno di 1.000 euro al mese. Un altro quinto di tali lavoratori precari percepiscono tra 1.001 e 1.200 euro, con una proporzione ancor più sfavorevole a est, secondo lo studio.
Il divario tra i redditi di tutti i lavoratori a tempo pieno e lavoratori a tempo determinato è ampio. Nella Germania Ovest, reddito lordo medio nel 2009 è stato 2.805 euro al mese, quasi il doppio della media di 1.456 euro per i lavoratori temporanei. I lavoratori temporanei a livello nazionale guadagnano in media meno della metà più (45,7 per cento) di quelli a tempo pieno delle aziende manifatturiere.
I lavoratori temporanei sono i primi ad essere licenziati in una crisi economica. Nel 2008, più del 25 per cento, ovvero 234 mila lavoratori interinali hanno perso il lavoro. Ora, il settore è in pieno boom di nuovo, ma questo è di scarso beneficio per i lavoratori, i quali vengono assunti principalmente con salari nettamente inferiori a prima della crisi. Da metà 2009 a metà del 2010, il numero dei lavoratori temporanei che hanno dovuto chiedere un sussidio è aumentato del 60 per cento.
Insomma, nemmeno in Germania i precari se la passano bene. La massiccia espansione del lavoro precario è stata favorita con il pieno accordo della DGB, la quale ha contribuito a creare la base giuridica per l'uso diffuso di questo tipo di sfruttamento,  d’accordo con tutti i partiti parlamentari nella predisposizione del piano "Agenda 2010" (le cosiddette leggi Hartz). Non solo, ma il DGB ne ha tratto anche diretto beneficio, visto che, per esempio, nel Nord Reno-Westfalia è proprietario della agenzia interinale Start Zeitarbeit Ltd. In tal modo il sindacato lucra anche nel collocare i salariati, trattenendosi una quota del salario.
I sette principali sindacati DGB hanno anche concluso accordi collettivi con l'Associazione delle agenzie di lavoro (IGZ) e l'Associazione federale delle Agenzie di collocamento temporaneo (ERS), e in tal modo gestiscono direttamente il mercato delle braccia stabilendo le disuguaglianza salariali l’est e l’ovest della Germania. Due terzi delle aziende tedesche usano le agenzie di lavoro interinale per rifornirsi di schiavi. Solo circa un quinto delle aziende tedesche opera con manodopera “normale” (Nur etwa ein Fünftel stellt in normale Arbeitsverhältnisse ein).
Per il 24 febbraio la DGB ha indetto una giornata di mobilitazione per la difesa di un salario minimo nel settore lavoro temporaneo, ma solo per impedire l’imminente afflusso di manodopera a basso costo, come dichiara esplicitamente nel suo sito web.

Caro Giulio T.


Proviamo, noi salariati e pensionati a vario titolo, sempre per via del nostro solito qualunquismo che ci contraddistingue, l’invidia che ci rode, scrivere due righe a Giulio Tremonti:
Egregio Signor Ministro, le comunico che mi avvarrò di una sola delle mille proroghe contentute nel noto  e omonimo decreto. A causa “di temporaneo peggioramento” delle mie disponibilità economiche, ovvero un mutuo ipotecario per l'acquisto dell'appartamento dove abito con la mia famiglia, ho deciso di avvalermi dell’articolo 19 del Dpr 602/1973 e succ. modificazioni e di non versarle più un cazzo nulla delle imposte a cominciare dal mese in corso e per i prossimi 72 mesi (6 anni). Nulla di straordinario, chiedo semplicemente e per la prima volta lo stesso trattamento di favore che lo Stato applica agli evasori ai sensi del suddetto Dpr, prorogato dal Suo nuovo decreto. Dalla mia, Caro Ministro, ho anche il fatto che, diversamente dai predetti evasori, finalmente pizzicati e dopo diversi gradi di giudizio costretti a pagare, io le imposte le ho sempre pagate puntualmente e maledettamente tutte, senza opporre resistenza (né avrei potuto fare altrimenti).
Se la presente richiesta non fosse accolta, Le rammento che molto di quello che c’è scritto nella Costituzione, andrebbe, ancor più, a farsi fottere benedire. Tale è l'evidenza che non ci sarebbe neanche bisogno che Gustavo Zagrebelsky scrivesse un nuovo libro per spiegarcelo in dettaglio.
Ah, dimenticavo. Ho già provveduto ad oblare il dovuto per via di quella canna fumaria non conforme al progetto che ho realizzato sul tetto della mia casetta. Accolgo invece con favore la notizia che le case, ville e villette costruite totalmente abusive sulla costa campana possono stare tranquille fino al prossimo anno. E poi, viste le eventuali prossime elezioni, anche per gli anni a venire. 
Con l'occasione, on. Ministro, voglia gradire l'espressione della mia stima e della più alta considerazione per l'opera Sua indefessa e di questo illuminato Gobierno.
O.d.G.

La solita processione



BANCHE/IMPRESE
È ancora lunga, lunghissima la strada per Dongo. Il governo tiene e anzi rafforza la sua base di consenso. Ha dichiarato ieri Tremonti: "Vogliamo che sia riconosciuta la verità, la crisi che viviamo è prodotta dalle banche e da chi non ha vigilato sulle banche, lo capiscono tutti" (Repubblica). E allora, dopo questa strabiliante rivelazione, che si fa? Si proroga la moratoria alle Pmi (piccole medie imprese) sui mutui e i debiti contratti con le banche. “Hanno aderito 190 mila imprese pari a 156 miliardi. Molte altre (in tutto ne sono state presentate a fine dicembre 256mila) devono ancora essere esaminate. Per la messa a punto del nuovo accordo uno dei nodi tecnici che ha richiesto più tempo per essere sciolto é stato quello dell'utilizzo dei derivati lineari, strumenti di copertura che all'inizio hanno incontrato lo scetticismo delle imprese più piccole a causa della cattiva fama acquisita da questi strumenti di copertura del rischio con la crisi finanziaria (Il Sole 24ore).
Insomma, a tenere a galla il sistema produttivo di questo paese sono le banche, cioè gli aiuti di Stato (tramite la Cassa Depositi e Prestiti), quindi i soldini di chi le tasse è costretto a pagarle tutte e in anticipo (se le paga, il padrone le paga a fine anno, il salariato ogni mese). A Berlusconi, in questo momento, non serve il nostro consenso, gli basta fare ciò che vuole con i nostri soldi, tagliare i servizi, sostenere i padroni e far lucrare le banche (compresa la sua).
SPRECHI
Nei comuni con più di un milione di abitanti (Milano e Roma) i consigli comunali non subiscono il taglio da 60 a 48 membri previsto dal decreto enti locali del 2009. Insomma ci avevano solo preso in giro. Le giunte, che oggi non possono avere più di 12 componenti, a partire dal 1° marzo potranno contarne 16 (compreso il sindaco). Nelle città con più di 250mila abitanti, progressivamente considerate «città metropolitane», vengono reintrodotti i gettoni di presenza per i consiglieri di zona e di quartiere. Introdotti anche i permessi retribuiti per i consiglieri, che non possono superare il 25% dell'indennità prevista per il presidente.
EVASORI
I contribuenti che hanno ottenuto una dilazione del pagamento delle somme iscritte a ruolo, in base all'articolo 19 del Dpr 602/1973, hanno diritto a un ulteriore differimento. Le dilazioni concesse fino alla data di entrata in vigore della legge di conversione del milleproroghe, possono essere prorogate per un ulteriore periodo e fino a 72 mesi (sei anni!), a condizione che il debitore provi un temporaneo peggioramento della situazione di difficoltà.
ABUSI EDILIZI
Per tutto il 2011 sono sospese le demolizioni disposte a seguito di sentenza penale nella regione Campania.  

martedì 15 febbraio 2011

La nostra pelle



Ai più non piacciono gli argomenti di carattere economico, li annoiano e trovano subito la scusa che non ci capiscono niente. Salvo gridare “al ladro” quando i soliti noti mettono “le mani in tasca agli italiani”, che tradotto significa alla fonte di salari e pensioni.
La notizia è questa, come del resto l’avevo anticipata in questo post:
«E' entrata nel vivo, oggi pomeriggio a Bruxelles, la discussione tra i ministri delle Finanze della zona euro per il rafforzamento del Patto di Stabilità […] Una discussione tutt'altro che facile, perché il nuovo patto di Stabilità dovrebbe prevedere meccanismi più o meno automatici di riduzione del debito pubblico, e sanzioni anch'esse automatiche per i Paesi che non rispettano la tabella di marcia. […] Una specie di "camicia di forza" che, se approvata così nuda e cruda, lascia pochissima autonomia di politica economica ai paesi euro maggiormente indebitati. Per restare all'esempio dell'Italia, il differenziale fra il nostro debito pubblico (sul Pil siamo al 119%) e il 60% di Maastricht è circa il 60%. Questo 60% andrebbe ridotto ogni anno di un ventesimo».
Riporto la notizia da Il Giornale, cioè da fonte governativa, per ovvi motivi. Per cui, al di là dei movimenti in corso per far cadere il governo a seguito d’inchieste giudiziarie, vi sono motivi di fondo che consigliano di cambiare passo e rotta. Non solo per il rafforzamento del Patto di Stabilità ma per ottenere, inoltre, l'ampliamento del fondo "salva stati" già utilizzato nei casi della Grecia e dell'Irlanda. Anche nel caso fossero mitigate le misure previste (inapplicabili), si andrebbe comunque verso un salasso di proporzioni inedite per entità e durata (vent’anni!). Del resto basta farsi due conti.
È vero che Tremonti oppone alle richieste tedesche di tener conto, nella valutazione della vulnerabilità di ciascun Paese, di altri fattori, come l'indebitamento privato, delle imprese e delle famiglie (che è come dire a uno strozzino che i tuoi vicini di casa sono molto ricchi), come la sostenibilità del sistema pensionistico, e come la solidità del settore bancario e finanziario. Ma sta il fatto che il debito aumenta ogni anno invece di diminuire. E poi sulla solidità del sistema pensionistico ci sarebbe molto da dire, ma basta osservare che è l’Inps a pagare (ancora per un po’ anche con fondi europei) la cassa integrazione (1,2 miliardi di ore di cassa integrazione nel 2010, con un incremento del 31,7% rispetto alle 914 milioni di ore autorizzate nell’anno 2009) e sulla solidità del settore bancario e finanziario non c’è mai da fidarsi visto che le banche per ogni euro in cassa ne mettono in gioco più di dieci o venti.
Dunque bisognerà fare i conti con questa realtà e tutti avvertono come la fase in cui Berlusconi e Bossi avevano funzioni di garanzia della rendita e di tutela delle partite iva, volga necessariamente alla fine. Si sta aprendo una nuova fase, quella dei “sacrifici” e per farla digerire ci vuole un governo che tenga buona la piazza, a cominciare da quella mediatica.
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Il segretario Pd in prima pagina sulla Padania: «Patto tra forze popolari. So che non siete razzisti». Il 3 febbraio in un post intitolato "le costolette della sinistra" avevo scritto: «Bersani, da parte sua, pur di trovare un accordo con Bossi si farebbe chiamare compagno da Calderoli». Ancora un piccolo sforzo e ci siamo.