Più che di sogni, si tratta di visioni notturne. Ci vuole pazienza, quando si diventa vecchi, o si sta per diventare, i ricordi diventano quasi un’ossessione.
Non penso di avere nostalgie romantiche di un passato non troppo lontano, ma è un delitto dimenticare. Le giovani generazioni non capiscono, semplicemente non possono capire. È come se a noi, quando eravamo giovani, avessero chiesto di comprendere i patimenti della povera gente al tempo della contessa Onigo, la povertà più miserabile che per fame si nutriva non già di polenta, che in qualche modo saziava, ma di erbe di campo.
Noi già siamo cresciuti a pane e companatico, con la prima televisione, perciò come possiamo comprendere un tempo in cui quasi tutte le persone vivevano al buio, nella più stretta economia. La luce artificiale era una cosa rara, forse magica, creata per illuminare utilmente un debole cerchio attorno alla lampada che la diffondeva. Si badava alla minima spesa, la luce era una di queste (oggi non più minima!). La si spegneva quando si lasciava la stanza. La vita era lenta e il nero attirava la vita.
Al principio degli anni 1960, in un piccolo villaggio di montagna, una sera, quasi fuggendo, scoprii che in quel luogo l’elettricità non era ancora arrivata. Figuriamoci la televisione. Faceva un gran caldo, le porte e le finestre di quelle casupole erano aperte, gli abitanti radunati attorno a un lume a petrolio stavano cenando o avevano finito da poco. Sembrava un presepe, con le pecore (qui le vidi per la prima volta!) nello stazzo attiguo l’abitazione.
Rividi di passaggio quel luogo nel 2009. Irriconoscibile come quasi tutto il Veneto cementificato. Le antiche casupole ingrandite e ristrutturate più o meno con gusto, e poi fabbriche che danno lavoro e producono benessere. Quasi nascosta l’antica villa, che nei suoi anni migliori presentava due meridiane sulla facciata, delle quali però si rinviene solo traccia. Sparita la gondola (c’era!), posta sotto il portico a cinque volte e colonne binarie. Nonostante sia censita tra le ville venete, versa in cattivissime condizioni, né mancano i graffiti e altri vandalici omaggi. Evidentemente ancor oggi non c’è chi le voglia bene. Né io gliene volli, non solo a motivo della sovrastante montagna, che solo a vederla mi angosciava.
E chi mai dovrebbe prendersi cura del nostro fin troppo ampio patrimonio monumentale, forse quelle potenti mediocrità come ce ne sono tante, come ce ne sono troppe, quel potere a cui mancano sia specchi che limiti?
Lo ricordo bene quel senso di comunità, di solidarietà che nel meridione era la cultura del “Pisulo”( il gradino esterno delle case che d’estate si usava come sedile per “ciarlare” con i vicini). È ben condensato nell’annuncio: “Guagliù stammo tutti bbuoni”, gridato dal ragazzo che sventola il referto delle urine del vicinato, contenute in una damigiana. Quel senso, in pochissimi anni, si è sciolto nell’individualismo ed è diventato senso di avidità.
RispondiEliminahttps://frontiere.me/siamo-il-bel-paese/
Già!
RispondiEliminaMi ero predisposto a sciorinare ricordi consimili, ma poi ho detto: a che pro? I tuoi sono sufficientemente evocativi, e ben scritti. Vorrei invece mettere qui alcuni luoghi comuni. Molti di noi sognano di essere vissuti in tempi diversi.La mia preferenza va al periodo della Belle Époque, ovviamente a Parigi. Mi scuso per la banalità: magari sarebbe più figo un posto del medio oriente ai tempi di Gengis Khan, ma tant'è. Tutte le volte che ci penso, però, concludo che la difterite che mi colpì a sei anni mi avrebbe impedito di diventare Émile Zola. Inoltre, non sono del tutto certo che sarei appartenuto a un ceto abbastanza elevato da consentirmi un'istruzione. Aggiungo che sono un po' maniaco dell'igiene, e la biancheria intima delle ragazze del Moulin Rouge mi trova sospettoso. Niente: se non fosse per la concomitante esistenza di Giuliano Ferrara, ringrazierei il Cielo di essere nato quando sono nato.
RispondiEliminaA me piacerebbe il prossimo secolo😛
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