martedì 29 agosto 2023

Semplici numeri

 

La crisi ha questo di positivo, fa chiamare le cose con il loro nome: il “mercato” non è altro che capitalismo. La globalizzazione è la mascella del capitalismo sull’umanità. E “mercati” è un altro nome per chi ha come unico obiettivo quello di fare soldi sulle spalle di coloro che la ricchezza la producono: i poveracci che sgobbano.

Il criterio per riconoscere un economista asservito ai poteri del denaro – la maggior parte lo sono – è molto semplice: basti vedere con quale sussiegoso servilismo egli pronuncia “i mercati”, come se fossero divinità superiori alle quali è necessario prostrarsi. I mercati non sono divinità superiori ma grandi gestori del capitale finanziario, il cui scopo è far fruttare questo capitale. Lo scopo nell’investire un euro o un dollaro è guadagnare poco più di un euro o di un dollaro, tutto qui. Banche e monopolisti delle bollette lo sanno bene: pochi centesimi per milioni di titoli o milioni di tartassati.

I creatori di capitale – le banche, gli hedge fund, eccetera – vogliono interessi sul capitale. Prestano a privati affinché comprino case, automobili, elettrodomestici. Quando gli indebitati si trovano nell’impossibilità di ripagare, le banche trasferiscono questi debiti ormai inesigibili agli Stati, che li riacquistano.

Il salvataggio del sistema bancario o degli altri grandi speculatori (da ultimo le banche americane e le immobiliari cinesi) è quindi un fantastico trasferimento di debiti che non valgono più nulla agli Stati, che si troveranno obbligati a rimborsarli attraverso i loro cittadini (quelli costretti a pagare le tasse). Si tratta di una semplice socializzazione delle perdite, in modo che il capitale possa sempre ricevere il suo sacro interesse.

Gli Stati hanno un debito sociale nei confronti dei loro cittadini: istruzione e sanità pubbliche, infrastrutture, pensioni, ecc. Ai mercati devono capitale e interessi. Riducono il debito sociale per pagare gli interessi ai mercati, costituiti per lo più da grandi fortune individuali. Nella lotta di classe gli Stati non possono che stare dalla parte del manico.

Per recuperare, si deve promuovere la cosiddetta “crescita”, vale a dire si deve puntare sull’aumento della produttività della forza-lavoro, ossia sull’accrescimento dello sfruttamento, delle quote di lavoro non pagato. Per farlo è anche necessario delocalizzare. Per trent’anni il capitale è riuscito a spuntare produttività sul lavoro delocalizzandosi. La deindustrializzazione per garantire rendimenti sul capitale del 10, 15 o 20%.

Quanto paga lo Stato italiano d’interessi sul debito? Quanto non riscuote in agevolazioni, fiscalizzazioni social e contributi a fondo perduto a favore dei soliti magnaschei? Quanto ci rimette con le concessioni di beni demaniali praticamente gratuite ai privati? Eccetera. Per confronto: quanto paga in stipendi pubblici e altri costi sociali? Facendo un calcolo a spanne ma assai vicino alla realtà, lo Stato dà ai parassiti, in una forma o nell’altra, più della metà di quello che spende in stipendi alle persone utili, per l’assistenza diretta al reddito dei poveri, eccetera. Non parliamo poi della spesa per armamenti che serve principalmente per ingrassare l’industria militare.

Secondo la Banca d’Italia, “nel 2020 il reddito medio delle famiglie italiane a prezzi costanti e corretto per confrontare tra loro nuclei familiari di diversa composizione, era più alto del 3,7 per cento di quello del 2016, ultimo dato disponibile, ma ancora inferiore di quasi 8 punti percentuali rispetto al picco raggiunto nel 2006”. La situazione non è di certo migliorata in questi ultimi tre anni. Eccola qui, spiegata con dei semplici numeri, la crisi dei “mercati”.

1 commento:

  1. Ma se, come scrivevi ieri, noi siamo ciò che mangiamo e alcuni somigliano a ciò che cacano, cosa cacano e quindi a cosa somigliano i magnaschei?
    Pietro

    RispondiElimina