Nelle
foreste vergini di Choco, un dipartimento della Columbia confinante con Panama
(ma anche con quello di Medelin), il cui nome deriva da due locali etnie
indigene di lingua diversa, nel XVI secolo arrivò il solito spagnolo, un certo
Rodrigo de Bastida, che in nome del suo Re proclamò anche quella regione
territorio della corona spagnola. Perciò, da quel momento, il Choco diveniva
territorio spagnolo e i suoi abitanti indigeni sudditi della corona; non
essendo tutti laureati come i parlamentari grillisti, furono costretti a
lavorare nelle locali miniere.
Tempo
dopo gli spagnoli trovarono in quelle miniere frammenti di un metallo grigio,
pesante, resistente e difficile da lavorare, lo credettero un argento
particolarmente duro, o almeno meno duttile dell’argento, e lo chiamarono
“platina”, diminutivo di plata, argento. Essi ne buttarono in mare carichi
interi, ma dopo qualche secolo quel metallo venne a essere più prezioso
dell’argento e perfino dell’oro. Ciò dipende non dal suo valore intrinseco, ma
dalla difficoltà di estrazione, nonché dal suo impiego quale catalizzatore per
gli apparecchi chimici. Prese anche ad essere usato in oreficeria.
La
zona platinifera columbiana è fatta anzitutto di montagne di sabbia, buchi
oscuri aperti nel verde che un tempo si riteneva eterno dei boschi. Da Google maps non è possibile
apprezzarla perché quella regione è stata ripresa coperta da una fitta
nuvolaglia. Nel secolo scorso, in quegli spiazzi privi di alberi, lavoravano
giorno e notte migliaia di esseri umani ridotti in schiavitù: negri, meticci,
bianchi. Sul fiume Choco non c’era tanto posto perché la zona mineraria fosse
così grande, ma solo perché erano molti gli uomini che vi morivano. E non di
una morte leggera.
Sabbia,
l’umidità che ti fa scoppiare le mani come banane troppo mature, un calore che
dà la febbre e spezza le ossa. Intorno, la foresta vergine, ora parco
nazionale. L’aria era piena di bestemmie e qualche volta risuonavano anche i
colpi delle armi, perché la disperazione conduce spesso alla ribellione.
Crescono ancora, lì accanto, gli alberi di chaparro, il cui legno resiste al
fuoco e, accanto a essi, la palma della cera; dalla resina del tronco gli
indigeni ricavavano il combustibile per le loro torce, in seguito quella resina
venne adoperata per la fabbricazione delle candele. E solo Dio sa quante
candele venivano consumate nel mezzo centinaio di chiese di Bogotà. Del resto,
fateci caso, laddove la vita terrena è così dura, si crede e si spera nel Cielo
molto di più che altrove.
I
minatori dormivano sotto quegli alberi, perché l’aria e il calore delle
baracche era insopportabile. Bevevano, quando non c’era di meglio, il succo vischioso
e denso, di odore di balsamo, nutriente come il latte e tratto appunto da un albero
chiamato volgarmente “vacca”. È un
succo che esposto all’aria si trasforma in una materia che ha l’aspetto
caseiforme e che i minatori chiamano realmente formaggio, ma che ovviamente
formaggio non è. Ne parla anche Alexander Humboldt, non ricordo più se nel Cosmos, o nel resoconto del suo viaggio
nelle regioni equinoziali (tre fantastici volumi editi nel 1986 dai Fratelli
Palombi), oppure in qualche sua altra relazione che devo aver letta quando mi
occupavo quasi a tempo pieno di queste intriganti amenità.
Lì
in zona la natura, per certi aspetti curiosi, dà il meglio di sé stessa: ci
sono anche alberi molto frondosi, come il corteo che porta migliaia di frutti simili alle prugne (e con gli stessi effetti!).
Oppure il succo ricavato dalla corteccia e dalle foglie del behuco, un liquido zuccheroso e
inebrante simile (simile per modo di dire) al vino tanto che dopo un po’ si
trasforma in aceto. Le donne di Choco smaltavano le unghie, prima che anche lì
arrivasse l’industria della cosmesi, col succo dell’albero arraco col quale si produce una lacca rosa-rossa. C’è anche un
grande albero dal quale si ricavano delle foglie verdi-grige, l’yerba, “l’oro verde”, meglio conosciuto
come mate, da cui un tè con molte
proprietà, quello che beve di solito anche il nuovo papa argentino, non so se
anche lui con la cannuccia d’argento. E poi, tra tronchi giganteschi, stormi di
pappagalli e farfalle colossali, fiori verdi, rossi, gialli e azzurri, un canto
dei grilli assordante e la tortura dei moscerini. Il pericolo a volte letale
sempre in agguato.
Formalmente
gli schiavi del platino non erano tali, così come non lo sono in genere gli
altri schiavi, quelli cioè che si recano spontaneamente a lavorare nelle
fabbriche e negli altri luoghi di sfruttamento della manodopera. Naturalmente i
padroni delle miniere s’ingegnarono, come del resto fanno sempre quando non
possono “delocalizzare”. Per costringere i proletari a diventare liberi
lavoratori delle miniere con un contratto quinquennale dal quale pochissimi
uscivano vivi date le estreme condizioni di lavoro, lo stratagemma era molto
semplice. Da un lato provvedevano al reclutamento gli “ingaggiatori”, i quali
commerciano col sangue e con la carne degli uomini, in realtà meno delinquenti
dei loro padroni, perché è gente dai nervi logori e dai corpi rovinati dalla
febbre; dall’altro, i commercianti veri e propri, in genere bianchi o cinesi.
Agli
obiettori di coscienza verso questo tipo di vita obietto subito una cosa: quando
non si ha denaro, quando la miseria è nera più della notte, non è facile
sfuggire da quell’inferno rappresentato dai Tropici, da quella natura crudele e
da quelle terre infuocate che non assomigliano semplicemente all’inferno, ma
sono realmente un castigo dantesco. Bisogna esserci stati in quei luoghi per
rendersi conto di quali possono essere le conseguenze di quel sole, della
febbre e della solitudine, della collera furente dei Tropici. Il film Fitzcarraldo di Herzog, per me un mito, ne
può offrire un indizio.
La
miseria ti porta a comprare a credito, succede cioè la stessa cosa di quando
t’indebiti con una banca per un tetto, un’auto, un capriccio di cui ti hanno
fatto credere di non poter rinunciare. È così che si diventa i più schiavi tra
gli schiavi. E come potevano pagare quelle povere genti di quelle desolate
contrade, vendendo che cosa se non sé stesse? Pochi dollari di debito e per
quelle famiglie le somme dovute diventano debiti enormi, incolmabili. Allora si
fa avanti l’ingaggiatore, egli leggi su un pezzo di carta tante cose oscure,
l’indigeno ascolta e poi deve dire sì. L’ingaggiatore promette in presenza
degli anziani del villaggio che chi firma quel pezzo di carta sarà liberato da
ogni debito e la sua famigli avrà ancora un anno intero di credito. Il nero,
l’indio, il meticcio e anche il bianco rovinato, firmano …..
Quando
abbiamo in mano un ninnolo di oro, d’argento o di platino, possiamo ben credere
che quel metallo è stato strappato alla terra con il sudore, la sofferenza e il
sangue di altri esseri umani che hanno avuto solo la sventura di nascere e
vivere come bestiame in quei posti. Nelle miniere d’oro, d’argento o di
platino, in quelle di smeraldi, nelle piantagioni di caffè, di gomma o di
frutta del Sud America, un continente che crediamo sempre così pieno
d’avvenire, così pieno di cose moderne e di crudeltà primitive, nel quale in
troppi hanno creduto di poter praticare la caccia spietata alla fortuna.