Ogni innovazione tecnologica comporta i suoi pro e i
suoi contro. Le vecchie lampadine a incandescenza non presentano particolari
problemi per la salute e sono limitati anche quelli per l’ambiente, mentre si
segnalano ben altri motivi di preoccupazione con l’impego delle lampadine
fluorescenti compatte, per non dire di quelle alogene.
L’evaporazione del filamento di tungsteno nelle
lampadine tradizionali è ritardata da un gas a bassa pressione, normalmente
argon, ma la progressiva evaporazione del tungsteno porta all’annerimento del
bulbo e spiega la scarsa durata della lampada, e inoltre si tratta di una
tecnologia particolarmente inefficiente: basti pensare che soltanto il 5%
dell’energia spesa è trasformata in luce, mentre il restante 95% si disperde
sotto forma di calore.
Le lampade alogene costituiscono una versione evoluta
della tecnologia a incandescenza, presentano una durata almeno doppia rispetto ai tradizionali bulbi ad
incandescenza, grazie a un particolare ciclo di rigenerazione del filamento di
tungsteno (*). Le lampadine fluorescenti compatte, invece, sono un’evoluzione
delle lampade al neon, cioè delle lampade fluorescenti tubolari. Quest’ultimo
tipo di lampade a fluorescenza contiene mercurio ed emettono radiazioni ultraviolette.
Invece le lampade a LED, una tecnologia molto diversa, rappresentano il futuro,
almeno quello prossimo.
Tuttavia il tungsteno, così detto metallo di
transizione, di un colore che varia dal grigio
acciaio al bianco, molto duro, sebbene soppiantato dalle nuove lampadine, mantiene
ancora diverse applicazioni pratiche, anche come carburo di tungsteno.
Il tungsteno non si trova puro in natura, ma nella wolframite, cioè misto a ferro e manganese, o
nella scheelite, che è poi il minerale da cui si ricavano i filamenti per le
lampadine, costituiti appunto dal tungsteno che in svedese significa “pietra
pesante”. Insomma, il metallo tungsteno ha preso il nome comune dato al
minerale che lo contiene.
Questo minerale prende il nome (ma
non la pronuncia italiana) da Carl Wilhelm Scheele, un
tedesco-svedese del XVIII sec., il quale fu – ormai incontestabilmente – il vero
scopritore dell’ossigeno e identificò il cloro, anche se pubblicò le sue
scoperte dopo gli scopritori “ufficiali”. Un tempo queste cose, come insegna il
caso Meucci-Bell, erano molto frequenti, per non dire delle scoperte-intuizioni
di Mendel rimaste sconosciute per tanto tempo. Per non dire ancora di Marx, le
cui scoperte scientifiche nelle scienze logiche ed economiche sono quasi ignorate.
Scheele
identificò anche, appunto, il tungsteno e il bario e il molibdeno.
Fino a una certa epoca, il
tungsteno, ossia il minerale da cui è estratto e che ha in genere a che fare
con le vene aurifere, non aveva valore. Con l’impiego nelle lampadine a
incandescenza, si andò a cercarlo in tutto il mondo. Fino a tempi recenti il
minerale da cui veniva estratto il tungsteno proveniva anche da certi
giacimenti australiani, come King Island o Saluèn, un posto quest’ultimo, dove
il sole ti cuoce il cervello. Chissà poi perché i giacimenti di minerali si
trovano in genere nelle contrade più orribili del mondo, per esempio nei più
caldi bassipiani del pianeta, come nel Nevada.
Ai margini della Sierra Nevada, sul
versante che guarda Lone Pine Canyon, dalle parti dove oggi ci sono le basi
dell’Air Force e altri impianti, Hollywood girava i suoi film ambientati nel
deserto, una scenografia che funse per molto tempo da “desert-picturs”.
Passando su sentieri rocciosi scavati dai cercatori d’oro chissà quanto tempo
addietro, si entra nella Valle della Morte, dove non c’è nessuna traccia di
vegetazione e il caldo e la polvere sono un incubo. Il suolo è coperto da
cristalli di sale e calcio, da rocce che si alzano verso un cielo troppo
limpido. Un paesaggio lunare. Un tempo, ora non so, si attraversavano i resti
di una città deserta, mi pare si chiamasse Skioor, che fu di decine di migliaia
d’abitanti, con case diroccate e dai garage enormi, e quelli che furono chiese,
banche, alberghi, bar e perfino discoteche. Non sono rari negli Usa i centri
disabitati (o scarsamente popolati), ma quelli di grandi dimensioni provocano
una certa inquietudine.
Da questa città fantasma, una
discesa ripida conduce nella Valle della Morte. Il suolo bianco per il sale
riluce come un lenzuolo mortuario, sembra di essere in un fumetto di Tex
Willer. Poi viene un tratto nero come il carbone per la cenere vulcanica che lo
ricopre. S’incontrano piccoli mucchietti di terra e sassi, tracce di ciò che
furono – dicono – delle tombe. Ancora Tex Willer. Si tratta di vecchi e giovani
cercatori d’oro uccisi dal caldo e dallo spossamento, dalla sete e dalla
disperazione qualche decennio prima degli anni ruggenti di Hollywood.
Poi il terreno torna pianeggiante e
liscio come una pista, i grossi automezzi ci volano sopra. Dopo il calore
insopportabile ci accoglie un’ex miniera di borace appartenuta a una società
inglese. Vi lavoravano degli indiani, gli unici che potevano sopportare quelle
condizioni climatiche. Il giorno dopo, di buon mattino, si traversa il Golfo
del diavolo. Cazzo, tutti nomi esotici e benauguranti. Il sale cristallizzato è
in forma di onde. Se gli alieni atterrassero qui se ne andrebbero subito per
disperazione.
La pista diventa sempre più
difficile e con gli automezzi ci si arrampica faticosamente sulle dune,
attraverso una desolata solitudine priva di strade (oggi sono molte di più) e
di qualsiasi altra cosa, soprattutto nessun essere vivente, non un filo d’erba.
Le rare pozze d’acqua non sono assolutamente potabili, né utili a altri usi
perché è acqua fortemente arsenicata. Veleno. Chissà quanti cercatori d’oro,
arsi dalla sete, morirono bevendola quando pensavano di essere salvi.
Passiamo una seconda notte in
questo posto fuori dal mondo, una notte abbastanza fredda e chiara,
indimenticabilmente bella e stellata, e poi l’arrampicarsi per i passi della
Sierra Nevada per il ritorno a Los Angeles. Non era certo il tungsteno che noi
si cercava, forse altro, e non ricordo se nemmeno quello fu trovato.
(*) Nelle alogene il tungsteno che
evapora a causa della temperatura elevata reagisce con il gas formando un
alogenuro di tungsteno. Successivamente il composto, entrando in contatto con
il filamento incandescente si decompone e rideposita il tungsteno sul filamento
stesso realizzando un ciclo, il ciclo alogeno. In questo modo la durata
di vita di una lampada alogena può essere almeno doppia di una lampadina ad
incandescenza normale, sebbene il filamento sia molto più caldo.
Nessun commento:
Posta un commento