Quello di inseguire il leaderismo è un vizio che
specie noi italiani non abbiamo mai perso, la nostra storia nazionale ne è
molto più ricca di altre. Soprattutto è singolare il nostro modo di considerare
storicamente il ruolo delle personalità più o meno di spicco. Non serve citare
Macchiavelli o Le Bon, men che meno i fraintendimenti soggettivistici della
psicanalisi e dintorni. È vero che il meccanismo profondo dell’autoritarietà è
la suggestione, il carisma, ecc., che esiste quindi un meccanismo
psico-sociologico di volontaria sottomissione e incondizionata fiducia;
nondimeno si deve tener conto del meccanismo opposto, ossia quello della
formazione della sfiducia e dell’insorgenza dell’insubordinazione. Così come
non si deve immaginare l’autorità, il carisma, ecc., soltanto come il potere di
uno o di pochi individui su un gruppo o sulla collettività; in definitiva si
possono suggestionare gli individui solo con ciò che corrisponde all’orientamento
delle loro esigenze e dei loro interessi, delle loro convinzioni e della loro
volontà. È perciò la stessa “autorità” a essere generata dal collettivo, dalla
comunità, ed è psichicamente indotta da questa. Altrimenti si rischia di
ridurre la storia al carisma o alla follia di singole personalità. Paradossalmente
– e chiudo perché su questo tema non voglio divagare oltre – la stessa
autorità, il leader, è schiavo del collettivo, del suo stesso mito.
* * *
Notiamo oggi come il leaderismo carismatico ci abbia
condotto in un’impasse dalla quale non si riesce ad uscire se non ritornando al
compromesso tra vecchie oligarchie e interessi sporchi e minacciosi di un
autocrate e della sua corte. Ciò è dipeso totalmente dall’atteggiamento del
leader del movimento 5esse, il quale considera – nel suo delirio di purezza – i
partiti (e non solo questi partiti)
l’espressione di ogni nequizia. È persa così, in un paese immobile da sempre, un’occasione
forse irripetibile per avviare un cambiamento – sia pure in chiave riformistica
– della politica e del suo rapporto con il paese. Non che potessimo farci
chissà quali illusioni, ma se non altro sperare in un quadro d’insieme più
decente dei comportamenti e quindi l’occasione per mettere in un angolo una
delle parti politiche più marce. Il resto – essendo costituito dai
grandi interessi, intrecci economico-finanziari, bancari e assicurativi, così
come dalle camarille ministeriali, delle partecipazioni statali, dal potere di
gestione degli enti locali – non può essere cambiato, ma solo abbattuto da una
rivoluzione sociale inedita.
Soprattutto – lo dico per me – ci si sarebbe potuti
attendere una serie di provvedimenti legislativi e normativi che da un lato
andassero a sanare gli effetti più macroscopicamente iniqui delle così dette
riforme del governo Monti, e dall’altro proponessero delle misure – pur senza
farci anche in tal caso soverchie illusioni – per lenire gli effetti delle
politiche demenziali imposte dalla Germania per contenere il deficit entro ceri
parametri, ossia interventi di riqualificazione della spesa pubblica e
d’incentivo dei consumi. Non la Luna, ma qualcosa.
Un giorno considereremo questo periodo storico con
malinconia e sconforto, sperando di non dover maledire non solo chi ci ha
condotto in questa situazione di dramma, ma anche coloro che ora se ne rendono
complici con la loro ostinata inazione.
* * *
Ad Eugenio Scalfari va dato atto di essere stato per
un anno esatto non solo l’estimatore principe della stampa italiana per il
governo Monti (leggere i suoi editoriali), ma il cantore del nuovo Mosè che ci
avrebbe condotto fuori dalla cattività nella quale ci aveva ridotto il faraone
di Arcore. Il 5 dicembre del 2012, Scalfari scopriva che Monti “manca di sensibilità
per lo sviluppo dell’economia reale”. Quattro mesi ancora ed espone questo
preoccupante quadro:
Il
Ragioniere generale dello Stato e i suoi più stretti collaboratori, da quando
nacque il governo Monti nel novembre 2011 fino ad oggi hanno fatto tutto quanto
potevano per bloccare o rallentare provvedimenti destinati alla crescita
dell'economia, fino al decreto - finalmente varato in queste
ore - sul pagamento dei debiti della pubblica amministrazione alle
imprese fornitrici.
L'obiettivo della Ragioniera generale è stato di mantener ferma la politica di Tremonti del "nulla fare e nulla muovere". Il ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, ha cercato di superare quegli ostacoli ma senza riuscirvi. È dovuto intervenire direttamente Napolitano e la questione, del massimo rilievo per l'economia italiana, è stata finalmente risolta.
L'obiettivo della Ragioniera generale è stato di mantener ferma la politica di Tremonti del "nulla fare e nulla muovere". Il ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, ha cercato di superare quegli ostacoli ma senza riuscirvi. È dovuto intervenire direttamente Napolitano e la questione, del massimo rilievo per l'economia italiana, è stata finalmente risolta.
O sono dei pazzi, oppure un motivo per
aver “fatto tutto quanto potevano per bloccare o rallentare provvedimenti
destinati alla crescita dell'economia” dovevano pur averlo. In un paese normale
ciò meriterebbe di essere esaminato e valutato nelle sedi competenti, per
individuare se ciò corrisponde al vero – come pare palesarsi – e per individuarne
i responsabili, quindi per mandarli a giudizio. Ma dire di queste cose, ai giorni
d’oggi, sembra di dire sciocchezze.
Mi sovviene a tale riguardo, un ottimo
post (nell’analisi, non nelle proposte) che mette a fuoco la strategia che sta
probabilmente alla base dei comportamenti criminali sopra descritti:
La base teorica con cui il monetarismo tedesco sta di fatto
conducendo l’Europa in un “cul de sac” parte dall’ovvio concetto che un’area
monetaria in cui manca una politica fiscale ed industriale comune diviene
insostenibile quando i differenziali di competitività al suo interno crescono
oltre un livello di soglia massima, per il semplice motivo che ciò genera
movimenti di capitale e di fattori produttivi di entità ingovernabile e produce
tensioni speculative sul debito, pubblico e privato, delle economie meno
competitive, meno attrezzate per generare ricchezza in misura tale da conferire
sostenibilità al proprio debito.
La soluzione erronea è rappresentata dall’idea che, al fine
di armonizzare i livelli di competitività fra i membri di tale area monetaria,
evitando differenziali troppo ampi, e non potendo più deflazionare tramite
svalutazioni competitive, la
competitività di prezzo all’esportazione debba ricostituirsi tramite una
deflazione interna dei costi di produzione, in particolare dei costi salariali,
e quindi dei prezzi. Ciò conduce a riforme
del mercato del lavoro che lo precarizzano, in modo da ridurre la forza
negoziale sui salari da parte dei lavoratori, ed a un progressivo smantellamento dei sistemi pubblici di welfare, che
riduca il costo fiscale e contributivo, e che tagli l’inflazione da domanda.
È stata
sposata la teoria della selezione naturale, quella vigente nel regno animale,
quella secondo cui ogni intervento statale a sostegno dell’economia ostacola
l’andamento dell’economia di mercato e impedisce ai meccanismi del mercato
stesso di ristabilire l’equilibrio, dato peraltro un tasso naturale (quanto
naturale?) di disoccupazione che nessuna “politica” potrebbe sopprimere. Perciò
la politica economica deve limitarsi alla “politica monetaria”, in particolare
deve limitarsi al controllo della massa del denaro secondo una regola sottratta
alle decisioni politiche, ovvero fino a quando non minacci il sistema bancario
e finanziario stesso. In tal caso, ogni intervento deve essere contemperato (si
fa per dire) con politiche fiscali e di tagli alla spesa, in un circolo vizioso
apparentemente senza fine.
Qui non si
tratta nemmeno più di considerare l’idea di abolire la produzione stessa di
plusvalore (chi ne parla più?), ma è considerata già sovversiva l’idea di
garantire, mantenendo inalterate le condizioni sociali della produzione, una
più “giusta” ripartizione della ricchezza. Non per nulla si promuovono le
ideologie sul tipo della decrescita con relativo seguito di babbei; le quali,
partendo da un presupposto di crisi sistemica reale, arrivano alla conclusione che
non è l’anarchia capitalistica a dover essere superata, ma che dovrebbero
essere gli indistinti comportamenti individuali, su base volontaria, a doversi
emancipare dal modo di produzione capitalistico.
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