Marx è il bersaglio privilegiato degli ideologi
borghesi anzitutto perché essi devono dimostrare come egli si sia sbagliato nel
prevedere la necessità, non già della crisi, poiché essa è evidente e constatabile
con precisione, ma del superamento del modo di produzione capitalistico in base
alle contraddizioni che gli sono proprie dall’inizio alla fine (*). Il fatto
che questo non sia avvenuto dopo oltre un secolo, è dato come prova principe della
fallacia della sua “profezia”, e poco importa se il capitale abbia superato realmente tali ostacoli o se invece la
sua produzione si muova tra contraddizioni continuamente superate ma altrettanto
continuamente poste e sempre più divaricantesi.
Questi ideologi sono abituati a concepire il tempo
storico e le leggi naturali e sociali secondo le urgenze della loro “scienza”
legata agli interessi che la società del capitale su di essa richiama, di quel
loro stesso mondo che produce e consuma teorie secondo le richieste pressanti
dei loro editori e del circo mediatico.
* * *
Su questa linea va anche Karl Popper, un filosofo al
quale si dà in genere molto credito quale critico di Marx. Immancabilmente
anche Popper crea surrettiziamente i presupposti per criticare Marx e per dichiararlo
un falso profeta. Se c’è un’etichetta che Marx ha sempre rifiutato è proprio
quella di profeta, così come ogni forma di determinismo storico quale la
intendono certi suoi critici come il Popper. Secondo questi,
una previsione, per essere veramente scientifica, deve basarsi non su una
tendenza, su un andamento cioè che può perdurare per secoli, ma che può anche
mutare repentinamente per qualche decennio, ma su una legge.
Scrive Marx fin dalla Prefazione de Il Capitale:
“In sé e per sé, non si tratta del grado maggiore
o minore di sviluppo degli antagonismi sociali derivanti dalle leggi naturali
della produzione capitalistica, ma proprio di tali leggi, di tali tendenze operanti ed
effettuantisi con bronzea necessità”. Pertanto,
affermare che Marx non analizza le leggi di movimento quali processi reali, è
palesemente e clamorosamente un falso, un tirare a “indovinare” (**).
Dire che egli si limita a indicare le “tendenze”, le quali possono mutare a
proprio capriccio, significa non aver
chiaro il rapporto dialettico tra
legge generale e tendenza.
La legge
non descrive il movimento della realtà immediata, ma piuttosto cerca di
coglierne, di là delle forme, la sua “bronzea” necessità. Così come i
“concetti” e le “categorie”, anche la legge è reale in senso mediato, e cioè riflette mediamente la
realtà oggettiva. Un modello teorico riflette anch’esso solo in senso mediato
il suo oggetto reale. Si chiedeva ironicamente Engels: “Forse la feudalità è stata mai corrispondente al suo concetto?”.
Scoprire le leggi generali che determinano il reale
significa anzitutto conoscere ciò che è possibile. E per legge generale di un fenomeno
s’intende la sua contraddizione principale espressa in categorie (ad esempio
economiche: valore d’uso e valore di scambio; o fisiche: attrazione e
repulsione) o simboli (ad esempio matematici) tra loro connessi secondo
procedure logiche (o matematiche) materialistiche e dialettiche che ne
spieghino il processo reale. Per analisi della tendenza –
espressione peculiare della legge – s’intende lo studio simulato della
contraddizione principale come processo,
e cioè la sua dialettica quantitativa e qualitativa, nei suoi diversi stadi:
dall’inizio alla fine.
Forse dunque
Marx non ha analizzato e scoperto il contenuto
nascosto delle forme dell’economia politica, non ha forse mai posto il problema
del perché quel contenuto assuma quelle forme e come tali portino segnata in
fronte la loro appartenenza a una formazione sociale nella quale il processo di
produzione padroneggia gli uomini, e l'uomo non padroneggia ancora il
processo produttivo? E come tali forme valgano per la coscienza borghese come
necessità naturale, ovvia quanto il lavoro produttivo stesso?
Per quanto riguarda il materialismo storico, non è forse
vero che Marx considera il movimento sociale come un processo di storia
naturale retto da leggi che non solo non dipendono dalla volontà, dalla
coscienza e dalle intenzioni degli uomini, ma anzi, determinano la loro
volontà, la loro coscienza e le loro intenzioni?
Se Marx non
ha individuate le leggi di movimento
del modo di produzione capitalistico, se dunque la scienza non produce
conoscenza – come vorrebbe dar a intendere Popper – ma solo un accumulo di
“falsificazioni”, di che scienza si tratta? Della scienza che ha in testa
Popper.
La chiave
di comprensione dello sviluppo storico – contrariamente a quanto pensa Popper
in riferimento a Marx – è il metodo logico; pertanto, afferma Marx, nell’andare
al nucleo strutturale dello sviluppo storico capitalistico consentendone
un’analisi scientifica e sistematica, non è necessario “scrivere la storia reale dei rapporti di produzione”. Il criterio
logico di disposizione delle categorie economiche non è soggettivo, la logica
dialettica di Marx è una logica oggettiva e materialistica:
“Come in generale con ogni scienza storica e sociale,
nell’ordinare le categorie economiche si deve sempre tener fermo che, come
nella realtà così nella mente, il soggetto – qui la moderna società borghese –
è già dato, e che le categorie esprimono perciò modi d’essere, determinazioni
dell’essenza, spesso soltanto singoli lati di questa determinata società, di
questo soggetto, e che l’economia politica pertanto anche come scienza non
comincia affatto nel momento in cui si comincia a parlare di essa come tale”.
Ecco quindi
che è il capitale nella società borghese ad esprimersi come potenza economica
che domina tutto. Perciò non è arbitrario che esso debba costituire –
nell’indagine scientifica – “il punto di partenza così come il punto di
arrivo”. Il concetto che esprime questa tesi fondamentale è quello di “capitale
in generale”. Esso racchiude in sé “tutte le contraddizioni della produzione
borghese, come pure il limite dove essa
conduce, al di là di se stessa”.
Tale
concetto di “capitale in generale”, cogliendo l’essenza propria di ciascun
capitale, cioè l’essere plusvalore riproducentesi sulla base di una specifica e
storicamente determinata relazione sociale, il lavoro salariato, non si
riferisce ad “una forma particolare del capitale”, né al “singolo capitale
distinto da altri singoli capitali”, e neppure a capitali concorrenti.
Proprio per
questo, lo sviluppo di tutte le determinazioni di questo concetto consentirà a
Marx di seguire, simulandola, la storia vitale del capitale, a partire dalla
sua genesi e in tutti i successivi movimenti, fino al limite estremo della sua
crisi generale (***).
Sul piano
propriamente storico, dal lato dell’attività concreta degli uomini, noi acquistiamo libertà poiché possiamo
modificare le necessità, creare nuove possibilità e varare il possibile.
Possiamo aumentare il grado di possibilità di certi fatti e diminuire quello di
altri. Se ciò non fosse nelle nostre possibilità, noi saremo solo il trastullo di casi ciechi e fantastici.
Scrive Marx nei Grundrisse:
“Soltanto col capitale la natura diventa un puro oggetto per l'uomo, un puro
oggetto di utilità, e cessa di essere riconosciuta come forza per sé; e la stessa conoscenza teoretica delle sue
leggi autonome si presenta semplicemente come astuzia capace di subordinarla ai
bisogni umani sia come oggetto di consumo sia come mezzo di produzione”.
E nel III libro de Il Capitale: “La
libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l'uomo
socializzato, cioè i produttori associati regolano razionalmente questo loro
ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo,
invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il
loro compito con il minor impiego possibile di energia e nelle condizioni più
adeguate alla loro natura umana e più degne di essa”.
Come rilevavo in un post precedente, la previsione teorica ci
indica dunque un possibile, ma il suo completarsi dipende
dall’attività sociale degli uomini, dalla lotta di classe non
meno che dalle circostanze storiche reali. Indicandoci un possibile per noi
desiderabile, la previsione teorica influisce sulla nostra coscienza e sul
nostro comportamento e sollecita un’attività conforme al suo conseguimento.
* * *
(*) Marx ha dimostrato scientificamente come nel concetto
stesso di capitale s’individuino già allo stato latente le contraddizioni che
si manifesteranno in seguito. Ciò significa che il vero limite della produzione
capitalistica sia il capitale stesso, e come il capitale e la sua
autovalorizzazione appaiono come il punto di partenza e di arrivo, e come
pertanto “L'universalità verso la quale
esso tende irresistibilmente trova nella sua stessa natura ostacoli che ad un
certo livello del suo sviluppo faranno riconoscere nel capitale stesso
l'ostacolo massimo che si oppone a questa tendenza e perciò spingono alla sua
soppressione attraverso esso stesso”.
(**) Prendiamo l’esempio della legge sulla caduta
tendenziale del saggio del profitto. La contraddizione a fondamento di questa
legge, si esprime necessariamente come processo, come tendenza, come suo carattere peculiare. A questa tendenza del saggio del profitto in caduta,
corrispondono delle controtendenze indagate dallo stesso Marx. Esse non sono
elementi introdotti dall’esterno nel modello, ma elementi propri del modello:
sono gli “anelli di congiunzione” che consentono l’ascesa dal piano della teoria a quello della storia. Non dimentichiamo che
il modello marxiano è fondato sulla dialettica
e solo su tale base è possibile trarne una sua corretta interpretazione.
L’esperienza storica ha mostrato che il superamento delle
crisi di valorizzazione del capitale, rappresenta solo una temporanea
e sempre più faticosa ripresa
del sistema nell’approssimarsi del limite in cui il processo si arresta. Questa
tendenza, quale “tendenza oggettiva di fondo” del capitalismo, non è “un’idea
marxiana sconfessata dalla storia del Novecento”, come pensa per esempio Diego Fusaro, ma una realtà quotidiana divenuta persino luogo comune
e che solo un approccio a-scientifico e ideologico può negare.
Il limite che segna l’arresto dell’accumulazione e, di
conseguenza, il destino del modo di produzione capitalistico, nella realtà
concreta non coincide con il “crollo spontaneo” o
automatico del capitalismo. E non solo perché l’istante
limite del modello è un istante logico e non
immediatamente storico, ma anche perché il movimento
reale è più complesso, multiforme e variegato del movimento concettuale che ne
riflette le leggi, tanto è vero – come dice Lenin – che “il fenomeno è più
ricco della legge”.
(***)
Perciò Marx non aveva bisogno, per rispondere ad altro genere di osservazione,
di definire in una sua opera sistematica il “suo metodo”, poiché esso è già
operante e riconoscibile nella sua analisi.
L'avevo letto e ora l'ho riletto con maggiore attenzione. Per questo ti ho scritto "Non ci si deve mai stancare di" (nel senso che tu devi stakanovare, certi concetti giova ribadirli, e io faccio lo sforzo di leggerli... non so se Marx condividerebbe questa equa ripartizione dello sforzo)*. :)
RispondiElimina"dal lato dell’attività concreta degli uomini, noi acquistiamo libertà poiché possiamo modificare le necessità, creare nuove possibilità e varare il possibile. Possiamo aumentare il grado di possibilità di certi fatti e diminuire quello di altri. Se ciò non fosse nelle nostre possibilità, noi saremo solo il trastullo di casi ciechi e fantastici.": i passaggi più tecnici a volte non sono in grado di capirli, ma i concetti generali spero di coglierli bene, senza fraintenderli. Grazie!
*certo che, detto fra noi, è un colpo basso, soprattutto in un giorno festivo, invece di limitarsi a un "grazie per il commento, a presto", assegnare anche i link dei compiti a casa al lettore lavativo. :)
avere lettori come te premia i miei sforzi e la sofferenza fisica di digitare date le mie condizioni di salute
Eliminadomani, se non succede nulla, nuova lezione. poi interrogo.
grazie molte