Guardando
l’immagine di un mappamondo, si può far caso che quasi sempre la zona del globo
rappresentata ha in primo piano l’Africa. Sarà perché tutto è partito da lì?
Chiedere a Giacobbo. A volte nelle rappresentazioni non c’è proporzione tra
l’Italia, sovradimensionata, rispetto al continente africano. Dicono che sia
questione di “proiezione” (per contro, vedi Carta di Peters).
Prendiamo un po’ di misure. Solo la Libia è sei volte il nostro paese, l’Algeria, il Sudan e il Congo otto volte rispettivamente. Insomma, quel continente ha una superficie esattamente cento volte l’Italia, oltre tre volte l’Europa, ivi compresa la Russia fino agli Urali. Tre volte gli Stati Uniti, compresa l’Alaska, quasi una volta e mezza l’America meridionale che non è proprio un francobollo. Quasi dieci volte l’India. Insomma, una bella fetta di Terra per cui accapigliarsi.
Una
degli stereotipi più diffusi sull’Africa è quello derivante dal film tratto dal
romanzo di Karen Blixen. Meno stereotipato Céline, ma nessuno ci darà mai la
realtà del furto e dello spreco di carne umana avvenuto a danno dell’Africa.
Pare che solo Leopoldo del Belgio di neri ne abbia sterminati una decina di
milioni nel “suo” Congo. Nessun film o serial televisivo, giornata della
memoria o nastrino da esibire sulla reverse del tailleur.
Quando
pensiamo al Sud Africa, per esempio, immaginiamo un posto che in realtà non
esiste. È più simile a qualche zona dell’America che dell’Africa. Non ci sono
leoni che ci sbranano o serpenti che s’attorcigliano alle caviglie. A volte
sembra di essere a Lambrate.
Bisogna
considerare le stridenti contraddizioni di quel continente per comprendere, in
tutti i sensi, che cos’è “il mal d’Africa”. Nonostante le strade asfaltate, gli
ospedali biancheggianti, le dighe ciclopiche, i grattacieli di alcune
metropoli, le immense ricchezze del sottosuolo, un’agricoltura potenzialmente
floridissima, l’Africa resta ancora una terra di divaricazioni sociali enormi,
di crudissima violenza e selvaggio sfruttamento, di miseria e malattie endemiche,
emigrazione e disperazione, di cambiamenti climatici estremi. C’è pure chi dice,
non del tutto a torto, che anche questi sono stereotipi, che l’Africa nell’ultimo
decennio sta cambiando e “crescendo”. Per crescere sta crescendo, ma come? Dicono
che si tratta di una “realtà plurale”. Un bel modo per cavarsela. Forse che in
Italia la realtà non è plurale, frammentatissima sotto ogni aspetto?
Non
è di questo che voglio dire, ma di uno scienziato di origini prussiane. Hans Merensky, nato nel
1871 a Botshabelo, South Africa, da
padre missionario, etnologo e famoso scrittore di nome Alexander. Hans Merensky,
studiò geologia e ingegneria miniera presso l'Accademia di Stato e l'Università
di Berlino, fu ufficiale della riserva.
Completò la sua formazione professionale
nelle miniere carbonifere della Saar e poi lavorò per il Dipartimento delle
Miniere in Prussia orientale. Nel 1904 si trasferì in Sud Africa per condurre
alcune indagini geologiche, viaggiò attraverso l'area conosciuta come il
Transvaal. Un geologo tra tanti in cerca di fortuna.
Merensky scoprì giacimenti di
stagno nei pressi di Pretoria e anche di altri metalli, un po’ ovunque; lavorò
per la Friedlander & Company che lo mandò in Madagascar per indagare su una
scoperta di un giacimento d’oro, che poi si dimostrò essere falso. Trasferitosi
a Johannesburg, divenne un consulente geologo di successo. Egli pensò che in
epoche remote i fiumi e la risacca dovevano aver eroso alle rocce i diamanti,
trasportandoli nella sabbia della costa. E, se non nella sabbia, sotto gli
scogli. Percorse tenacemente le coste e divenne uno dei migliori conoscitori
del Sud Africa e di giacimenti di diamanti.
Molti suoi colleghi non erano
d'accordo con le sue ipotesi. Nel 1909, dopo aver visitato i campi di diamanti
in Namibia, indicò che i diamanti sarebbero stati trovati lungo tutta la costa
occidentale e a sud del fiume Orange. Dopo la prima guerra, le società
minerarie ritennero non più necessarie le consulenze dei geologi, assumendoli direttamente
alle proprie dipendenze. Merensky si trovò in miseria e letteralmente alla fame
se non fosse stato per il sostegno occasionale di Sir George Albu.
Nel 1924 alcuni cercatori lo
mettono sulla pista di alcuni giacimenti di platino vicino Lydenburg, cosa che
gli permette finalmente di arricchirsi. In seguito le sue previsioni sui
giacimenti diamantiferi trovarono conferma, ma non rivelò i luoghi delle sue
scoperte, e continuò a cercare giacimenti sempre più ricchi.
Poi all’improvviso annunciò le
scoperte avvenute sui suoi terreni del Namaqualand, un deserto senz’acqua che
prima della guerra faceva parte delle colonie Sud Occidentali tedesche. Una
quantità di diamanti enorme minacciava di inondare il mercato proprio in un
momento di crisi. Ciò che le sue biografie non mettono in chiaro è che all’Associazione
padronale dei diamanti non restò altra scelta che soddisfare la richiesta di
Merensky, ossia pagargli una somma favolosa.
Altra cosa che le biografie
tacciono, come spesso in simili casi, è che i nuovi giacimenti posti in seguito
sotto il controllo statale, vennero recintati con reticolati e rigorosamente
sorvegliati per impedirne lo sfruttamento. Tuttavia, appena si seppe della
scoperta, migliaia di poveracci in cerca di fortuna corsero alla Baia di
Alessandro (non prende il nome dal padre di Merensky, si trova nella piccola Namaqualand,
ai confini con la Namibia, alla foce del fiume Orange) e un po’ più a sud, a
Port Nolloth.
Fu necessario inviare truppe
e impedire con la forza (con i fucili) lo sfruttamento dei nuovi campi diamantiferi.
La faccenda provocò anche una crisi di governo. Vicino a Port Nolloth ci fu nel
1928 una vera e propria battaglia contro i cercatori; quelle zone furono
dichiarate chiuse all’accesso e di massima sicurezza e ancor oggi ci vogliono
dei permessi per andare in certi posti. Chi veniva sorpreso in quei territori
rischiava anni di reclusione, se non peggio.
In viaggio verso la Baia di
Alessandro non si nota nulla del presunto romanticismo dei cercatori di
diamanti: deserti e dune di sabbia, qualche cespuglio di erba gialliccia,
qualche mandria di montoni, qualche borgo abitato, baracche e casupole. In
questa zona un tempo venivano raccolti fino a 400 kili di diamanti l’anno. La
“città” di Oranjemund conta qualche migliaio di abitanti, ed è un posto controllato
tutt’oggi dalla De Beers. Già cento anni fa si temeva che tutto il Sud Africa
sarebbe diventato desertico come la parte nord occidentale, ma ovviamente si
trattò di una previsione un tantino troppo pessimistica, ma non per quanto
riguarda la Namibia e il Botswana (dove il lago Ngami è effettivamente
scomparso).
È così che l’ingegnere
divenne ricchissimo. Gli è stato dedicato anche un film tedesco (che non ho
visto). Nulla a che vedere con quell’operaio nero delle ferrovie – del quale
non si ricorda il nome – che scoprì un enorme giacimento diamantifero (i
diamanti si potevano raccogliere a manciate), ma nessuno gli credette. È un’altra storia, chissà se la racconterò.
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