Nel 452, Attila, a suo tempo divenuto capo
delle tribù unne, invase l’Italia settentrionale. L’epopea ha assunto nei
secoli i tratti prevalenti della leggenda, fomentata dapprima dalla
terrorizzata fantasia latina e poi dalla propaganda ecclesiastica. Ad Attila sono
state attribuite tutte le rovine di cui era sparso ed ingombro il suolo delle
antiche province romane, accusandolo di ogni nequizia ed eccesso, ponendo a suo
carico persino l'omicidio di sant’Orsola e lo sterminio delle undicimila
vergini (!!), sebbene già la data favolosa della loro partenza dalla Bretagna
fosse stata stabilita un secolo prima della nascita del condottiero (*).
Secondo le leggende francesi, il nome di Flagellum Dei fu dato ad Attila da un eremita, al quale l'Unno rispose glorificandosi del nome: Stella cadit, tellus fremit, en ego malleus orbis. Nelle leggende italiche, il nome gli fu imposto da san Benedetto, anche se questi non viveva nel 451; nella tradizione dell’Europa germanica noi lo vediamo paragonato ad Artù per gentilezza e a Salomone per sapienza. Certo, Attila e gli Unni non furono delle mammolette, ma nemmeno più crudeli e feroci dei loro contemporanei, e in quanto guerrieri specializzati non fecero la guerra in modo più spietato delle legioni romane e di altri. A tale riguardo, è utile rammentare che all’epoca di Giulio Cesare la conquista della Gallia costò alle popolazioni locali oltre un milione di morti, con episodi di sterminio agghiaccianti.
Plinio il Vecchio, nel settimo libro della Storia naturale, ci racconta come il civilissimo e nobile Cesare fece uccidere un milione e 200mila persone allo scopo di far bella figura in Gallia (Plutarco, più benevolo, certifica un milione tondo). Cominciò con 200mila Elvizi, il cui torto maggiore era quello di non assecondare i suoi piani; quindi decine di migliaia di Aquitani e affini; poi mise a morte tutto il senato dei Veneti (popolazione gallica) che gli si era arreso a discrezione; continuò sterminando tutto il popolo degli Eburoni e per soprammercato 180mila Usipeti e Tencterii che si trovò tra i piedi; a Bourges massacrò, per vendetta e senza riguardo per sesso ed età, 40mila abitanti. Nel ricevere a colloquio i capi germanici li fece “trucidare a tradimento e quindi assaltò gli avversari sbandati e senza guida, ed estese indiscriminatamente il genocidio a tutti, donne e bambini inclusi”.
L’invasione unna in Italia invece culminò con la caduta dello strategico e popoloso municipio di Aquileia (tra l’altro il più importante centro di lavorazione e di smistamento commerciale delle gemme e delle ambre), ma anche di Pavia e Milano. La permanenza unna ebbe in verità una durata assai breve, soprattutto, ma non solo, per effetto delle epidemie e della fame che falcidiarono l’Italia settentrionale e decimarono gli stessi invasori, già prostrati dalla pesante sconfitta subita l’anno prima ai Campi Catalaunici (Gallia) ad opera di Flavio Aezio (**). Non bisogna quindi credere, tra l'altro, che le popolazioni venete che si rifugiarono in tale occasione nelle lagune non rientrassero, svanita la minaccia, alle proprie case, ai campi, agli opifici e botteghe, insomma alle proprietà (sebbene depredate dagli invasori) e alle attività di sempre. Passato il pericolo dell’invasione, le città romane fecero quasi a gara e si tennero in onore di esser state visitate dal barbari e di averne per qualche via trattenuto la foga irrompente, se non altro perché trattandosi di Attila, ossia del flagello della provvidenza, era da sperarsi che coloro i quali avevano una volta provata l’ira di Dio, sarebbero stati assolti da un’ulteriore simile ordalia.
Concludo con una domanda e una breve
considerazione: chi dei due, Cesare o Attila, mostrò più ferocia e assenza di
scrupoli? Eppure, mentre Attila ha assunto i connotati del mostro sanguinario,
il cui nome è diventato sinonimo di flagello, per contro, Giulio Cesare è
considerato un grande stratega, uno statista, uno storico e purista della
lingua latina al nome del quale s’intitolano scuole, strade, piazze, navi;
quindi lo si celebra in opere teatrali, film e romanzi a sua imperitura gloria.
Chissà cosa ne penserebbero, al riguardo, gli Elvezi, Usipeti, Tencterii e
molti altri. Ecco quindi che la buona o cattiva fama, ancora una volta, è data
da chi scrive la storia, ossia dai vincitori. Non per nulla – come dice un
proverbio africano – finché i leoni non avranno i loro storici, i racconti di
caccia magnificheranno sempre le gesta dei cacciatori.
(*) L’insigne medievalista di
origini bassanesi Gina Fasoli ci ricorda, nel suo insuperato saggio sulle
invasioni ungare, come gli eventi del X secolo fossero attribuiti talvolta da
alcuni scrittori e letterati ad Attila stesso (cfr. Le invasioni ungare in Europa nel sec.
X, Firenze, 1945, pp. 20-22). «Ogni
ricordanza insomma di devastazione, di sangue, di stragi si raccoglieva pei
Latini intorno al nome esecrato di Attila. […] via via che la sua figura si andava smarrendo fra le nebbie del
passato, sempre più sulla sua memoria già odiata si addensavano tutte le altre
sanguinose memorie dei più feroci fra gli invasori (Alessandro d'Ancona, Attila flagellum Dei: poemetto in
ottava rima riprodotto sulle antiche stampe, Pisa, 1864, pp. XI-XII)».
Uno dei miti più noti relativi agli
Unni è quello raccontato dallo storico Ammiano, secondo cui essi “si nutrono di radici di erbe
selvatiche e di carne semicruda di qualsiasi animale, che riscaldano per un po’
di tempo tra le loro cosce ed il dorso dei cavalli”. Ammiano in persona
molto probabilmente non aveva in vita sua mai posato gli occhi su un unno e
alcune delle informazioni che lo storico – per altri versi rigoroso e
attendibile – aveva ottenute di seconda mano da ufficiali dell’esercito,
funzionari ed altri personaggi venuti in contatto con gli strani “nuovi”
barbari, non erano veritiere, compresa quella famosa della carne cruda che gli
Unni avrebbero scaldato – per renderla più commestibile – portandola fra le
selle e il dorso dei loro cavalli. Benché questa storia fosse stata creduta a
lungo e venga anche raccontata in riferimento agli Ungari del IX e X sec., dei
Tartari del tempo di Tamerlano, noi sappiamo adesso che è falsa. Si tratta però
di un errore onesto, uno dei non rari cliché sui barbari, probabilmente dovuto
al fatto che gli Unni, tra i primi a far uso di una sella vera e propria, per curare
i cavalli piagati dallo strofinìo della sella, usavano allo scopo delle fette
di carne cruda (E.A. Thompson, St.
di Attila e degli Unni, Firenze 1963, p. 20-21; G. Fasoli, cit., p. 30).
La leggenda ancor più celebre,
invece, riguarda l’incontro tra il vescovo di Roma, Leone, e il capo degli
invasori Unni. Racconta che a far decidere Attila di ritirarsi dall’Italia
fosse proprio l’intervento del prelato e la comparsa alle sue spalle dei santi
Pietro e Paolo (l’eponimo affresco raffaellesco è in tal senso un esempio
mirabile ed eloquente di questo genere di propaganda). Anche in questo caso si
trascura il fatto non certamente irrilevante che il vescovo era parte di
un’ambasciata composta anche da altre due autorevolissime personalità: Gennadio
Aveno, un senatore della potente famiglia degli Ancii, e da Trigezio,
dipolomatico anziano ed esperto, portavoce del generale Fabio Aezio. Questa
ambasciata era stata fornita di un ingente quantitativo d’oro quale donativo
destinato ad Attila, il quale ne aveva un gran bisogno dato che l’imperatore di
Costantinopoli aveva cessato di fornirgli l’abituale finanziamento e anzi stava
marciando con le sue truppe contro quelle unne, così come del resto si diceva stesse
facendo Aezio con la sua armata.
(**) La battaglia dei Campi
Catalaunici (o Catalauni, e detti anche Maurici, oppure battaglia di Châlons)
si svolse il 20 giugno 451 in una pianura della Gallia nei pressi dell'odierna
Châlons-en-Champagne. In essa le truppe del generale romano Aezio, reclutate
soprattutto tra i barbari e affiancate dagli alleati Visigoti di Teodorico I,
sconfissero e circondarono gli Unni di Attila. La vittoria romana non fu
decisiva: Aezio non volle sfruttarla al massimo, temendo che il loro
annientamento avrebbe, per contro, accresciuto la potenza visigota in
Occidente. Frustrato nei suoi piani di saccheggio in Gallia, l'anno successivo
Attila rivolse il suo esercito contro l'Italia. Perciò se Attila salvò una
parte delle sue forze e la sua stessa vita, ciò fu dovuto al calcolo politico
di Aezio.
Bellissima memoria. Non capisco come mai la chiesa è sempre dalla parte della ragione. Intanto che ci penso su ti auguro un buon 2013.
RispondiEliminaricambio di cuore l'augurio
EliminaCiao Olympe, insieme ad un mucchio di auguri per l'anno nuovo e un rinnovato grazie per i tuoi insostituibili post, ti segnalo (se non l'hai già visto) un post sulla Germania che ci aggiorna sulla situazione del mercato del lavoro
RispondiEliminaL’erba del vicino è sempre più verde …
anche quando brucia
http://www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o36945
Anche sul loro debito, sulla situazione delle banche, sui loro mercati effettivi di esportazione (vedi la favola del "grande" export in Cina che, invece, nel 2010 assommava a 53,6 mld contro 76,5 mld di import) molto ci sarebbe da scavare contro la pubblicistica del regime europa.
gianni
Non ricordo quale storico inglese definì Alessandro Magno "un condottiero che molto distrusse e poco mantenne, capace in battaglia ma inetto nella pace". Forse potrebbe essere questa la chiave di lettura,anche se anacronistica, nei riguardi del giudizio su Attila contrapposto a Giulio Cesare (ma si potrebbe applicare senza tema il medesimo criterio a Tamerlano e Wellington). L'evoluzione della organizzazione sociale e civile dell'Impero romano, che aveva espresso la famiglia Giulia, come i Gracchi o Spartaco, era cosa diversa, più complessa, stratificata ed articolata, rispetto a quella nomade/tribale, sostanzialmente primordiale, del re degli Unni. Il romano fu Stato prima che impero. Nessun grande condottiero, di cui la storia ci ha tramandato le gesta, è stato esente dalla responsabilità di orrende e feroci stragi correlate a crudeli sanguinari comportamenti, e questi inderogabilmente a scapito di moltitudini di innocenti indifesi e ignari. Alle citate popolazioni degli Elvezi, Usipeti e Tancterii, come alle tribù native americane, non mancarono, a mio avviso, lo spirito eroico e uomini determinati dotati di coraggio e del necessario carisma, ma fu debole, se non inesistente, la possibilità e capacità complessiva, di quei popoli, di essere un corpo unico: terra e uomini, linguaggio e conoscenza, politica e fede, codici e memoria. Nel perenne scontro tra diverse culture è sempre invariabilmente la più debole, la meno strutturata, a soccombere, anche senza guerre, e gli storici, come tu rilevi, non possono che raccontare il destino segnato del leone. La chiesa cristiana, fatte per tempo le dovute considerazioni, si autocelebrò sacra continuatrice dell'Impero Romano individuando in quelle radici universalistiche, in quel percorso lungamente egemone ove il potere era segnale divino, evidenti opportune ragioni che ancora oggi, aggiornate ma non troppo, ritiene valide ed irrinunciabili regole. Sempre dalla parte del cacciatore.
RispondiEliminaConscrit