Sperimentiamo la politica volta a volta come abuso
capriccioso e come protesta contro di esso. Questa frustrazione mostra da sé
che ci manca il gusto della libertà. E non solo da questo lato. Non vogliamo
cambiare; ciò che invochiamo è la virtù, quella degli altri. Frega poco delle subdole forme della nostra schiavitù poiché non sappiamo più riconoscere
i nostri interessi ben integrati. Ci bastano le blandizie della pubblicità.
Facciamoci caso, il messaggio che essa ci trasmette continuamente ci invita in buona
sostanza d’imitare le insolenze dei ricchi.
Del resto non è stata prestata sufficiente attenzione al
fatto che la “politica”, in qualsiasi momento della storia la si osservi e
tanto più nella nostra epoca, non esprime direttamente la globalità della
società se non come meravigliosa illusione interessata e necessaria. Essa in
realtà è appannaggio di coloro che possiedono la ricchezza e il potere che
ne deriva. La sociologia borghese che s’interessa di questi temi dovrebbe porre
una domanda molto semplice: esistono delle classi sociali escluse dal circuito
della decisione politica? Chiaro che l’universo intero appartiene alle classi
dominanti nonostante la finzione giuridica ci renda eguali e liberi.
Riflettiamo poi su un altro fatto, ossia su quanto sia
frequente e facile che degli interlocutori politici pensino e dicano cose del
tutto diverse adoperando gli stessi concetti e le medesime parole, così come
poco importa che le parole, ornamento senza verità, siano nulle perché nessuno
crede al loro avvenire. E ciò che è ancor più rimarchevole, fateci
caso, è che non si discute più sul fine
ma sui mezzi. Al politico – sia esso
un Bersani che cita Giovanni XXIII o un Berlusconi che giura che abolirà la
morte – viene chiesto di simulare quel tanto che basti ad ispirare nello
spettatore dell’empatia e una risposta compiacente. Non è forse lo stesso
schema della pubblicità?
Si va perciò a votare con lo stesso spirito decorativo con
il quale si sceglie un’auto o un frigorifero. È attorno alla stessa promessa di
piacere, di desiderio soddisfatto, che si sceglie il leader che con la sua fraseologia
ci ha infine sedotti, che con i suoi falsi ostacoli (vedi le primarie) ha
aguzzato il nostro desiderio. E nulla ci deve sorprendere di più se rivaleggiamo in ipocrisia quando poi ne difenderemo le scelte. È in tal caso raggiunto
il tumulto della soddisfazione gregaria.
Feticismo delle parole.
RispondiEliminaFortunatamente ci sono ancora buone letture da ri-fare, come Debord o Adorno.
già. spero però concordi sul fatto che il primo, a suo modo, è uno dei più grandi feticisti della parola del '900 e anche l'altro non scherzava
EliminaHai ragione, però il suo modo è anche interessante.
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