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“Non è la coscienza degli uomini
che determina il loro essere,
ma è, al contrario, il loro essere sociale
che determina la loro coscienza”
Giuseppe De Rita, fondatore del Censis, nel suo ultimo libro dal titolo eloquente, La scomparsa della borghesia, scrive: “nella percezione dell’opinione pubblica soltanto un terzo degli italiani crede ancora al conflitto di classe (borghesia e operai), mentre il 61 per cento è convinto della centralità del conflitto generazionale (vecchi e giovani) e oltre l’80 per cento parla di conflitti di natura generica (per esempio ricchi o poveri, inclusi al vertice ed esclusi”. Bisognerebbe anzitutto chiedersi, ma gli intellettuali non sono più abituati a porre domande vere, perché nella percezione dell’opinione pubblica sia scomparso il conflitto di classe.
Secondo De Rita, a dominare nella società italiana è una classe media la cui dilatazione fuori controllo avrebbe occupato ogni interstizio sociale, impedendo il differenziarsi dei ceti sociali e il costituirsi di una élite capace di guidare l’ormai famoso cambiamento e di ancorarlo a interessi collettivi (*). In altri termini l’aver impedito il formarsi di una nuova borghesia dinamica e innovatrice, avrebbe condannando all’estinzione la borghesia stile vintage e con essa anche il conflitto di classe, per lasciare posto a quello intergenerazionale e tra censi.
La tesi è un repêchage, queste cose le sanno scrivere anche quelli della Casaleggio&Grillo. È chiaro che la borghesia così come ogni altra classe sociale è un aggregato in continua trasformazione; altro però è credere alla sua estinzione di fatto, alla sua diluizione marcescente nell’individualismo egoistico che pure non è una novità. Tuttavia non voglio polemizzare con un’analisi che considera i fenomeni sociali nella loro manifestazione esteriore, un pout pourri di contrapposizione tra ricchi e poveri, giovani e anziani (se ci fossero solo le forme non ci sarebbe bisogno della scienza, afferma Marx).
Il metodo fondamentale che distingue le classi è il loro posto nella produzione sociale e in conseguenza il loro rapporto con i mezzi di produzione. L’appropriazione di questa o quella parte dei mezzi sociali di produzione e la loro conversione in economia privata per la vendita del prodotto costituisce la caratteristica fondamentale che distingue le due grandi classi della società moderna: la borghesia, classe proprietaria dei mezzi produzione e detentrice del capitale, e il proletariato, privo di mezzi e costretto a vendersi come forza-lavoro, anche se ciò non implica che tutti i proletari si trovino nella stessa identica relazione rispetto al capitale (ometto la distinzione tra salariato produttivo e non produttivo, così come ometto che esistono altre classi non impiegate direttamente nella produzione). Essi restano incatenati a una sfera di attività determinata ed esclusiva che è loro imposta quasi “naturalmente” e dalla quale non possono sfuggire se non vogliono perdere i mezzi per vivere.
Pertanto, il prius su cui s’innesta la divisione in classi è dato dalla divisione sociale del lavoro e non, meramente da reddito, status, frequentazioni, rapporti di vicinanza o lontananza dai partiti e dal potere, posto di lavoro e luogo di abitazione. Ovvio che le classi esistono solo a partire dagli individui, dai gruppi e dagli insiemi, e che tali peculiarità sono essenziali nell’azione di trasformazione delle classi (e ciò si rende ancor più evidente nei comportamenti dei singoli gruppi durante le lotte di classe), ma dopo aver scomposto una totalità economico-sociale in gruppi e insiemi per rilevarne i fenomeni di dettaglio, quali possono essere per esempio i modelli di riferimento e di consumo, l’orientamento politico ecc., è tuttavia necessario poi cogliere la formazione economico sociale nella sua globalità di sistema organizzato attorno a delle peculiarità.
Quanto al processo di proletarizzazione, vexata quæstio, questi è stato dapprima indotto dallo sviluppo delle forze produttive cui aderiscono rapporti di produzione che hanno espropriato la popolazione agricola e artigiana facendo tendenzialmente di ogni lavoratore un salariato; in seguito, la necessità di sviluppo e accumulazione del capitale, la gigantesca fase espansiva del secondo dopoguerra, hanno consentito e anzi imposto il costituirsi sul piano politico e ideologico dell’illusione riformista (lo Stato-provvidenza keynesiano), basata su pratiche redistributive e di sostegno del reddito, ma soprattutto sulle spese improduttive e parassitarie che hanno determinato infine la crisi fiscale dello stato e la necessità di rimodellare gli istituti politici, giuridici e i rapporti sociali in senso regressivo e totalitario. Lasciando a parte il tema degli effetti della finanziarizzazione parossistica dell’economia così come quelli connessi alla ristrutturazione produttiva, vediamo che in questa nuova fase salta la mediazione tra rappresentanze del capitale e quelle del lavoro (caso Fiat docet) e in definitiva la capacità di garantire gli standard di riproduzione della classe operaia nei paesi di antica industrializzazione.
Pertanto i cicli della lotta di classe seguono i cicli capitalistici dell’accumulazione e affermare che la lotta di classe tra borghesia e proletariato non esiste più, è un grave errore di prospettiva storica e significa anzitutto negare la contraddizione fondamentale, quella tra capitale e lavoro, quindi appiattire la dinamica dello sviluppo storico, vederne solo un momento e una parte. Gli avvenimenti in corso già mettono abbastanza in chiaro tale situazione e ciò diventerà sempre più evidente nell’evoluzione e con l’aggravarsi della crisi nella fase declinante del modo di produzione capitalistico.
(*) Tranne Mario Monti, il quale, secondo quanto dichiarato da De Rita alla signora Gruber, fa parte di un élite superiore alla borghesia stessa. De Rita sembra aver ragione, i personaggi alla Monti fanno parte di una super classe manageriale che amministra il sistema capitalistico, i nemici numero uno del proletariato, e per questo tanto cari ai liberal bipartisan; in realtà essi sono solo degli uomini di paglia incaricati di gestire il debito pubblico e il fallimento degli Stati nazionali.