sabato 1 dicembre 2012

Perché il comunismo



Il superamento del modo di produzione capitalistico è il comunismo. Non c’è alternativa al di fuori di questa possibilità/necessità a meno di non voler immaginare una regressione a forme generali di produzione e di scambio – e delle condizioni del lavoro – precapitaliste. Piaccia o no, chi parla di superamento del modo di produzione capitalistico deve misurarsi con questa realtà storica, e chi, per contro, considera il modo di produzione capitalistico come assoluto, si accorge adesso che esso stesso genera dei limiti che però non attribuisce alla produzione, bensì in primis a fenomeni della sfera della circolazione e della finanziarizzazione. In ciò sta l’incomprensione delle cause della crisi e del fallimento dei rimedi proposti (*).

S’è vero che, in ultima analisi, è la crescita, l’espansione delle forze produttive (**), l’elemento promotore delle trasformazioni sociali, ciò non di meno essa avviene sempre sotto il segno ed il dominio dei rapporti di produzione dominanti. Così, per esempio, nel modo di produzione capitalistico, la crescita delle forze produttive si realizza per e attraverso l’accumulazione capitalistica, ed è perciò la razionalità del plusvalore che definisce, in ultima istanza, la forma delle modificazioni che vengono ad esse apportate.

Il saggio del profitto costituisce la forza motrice della produzione capitalistica: viene prodotto solo quello che può essere prodotto con profitto e nella misura in cui tale profitto può essere ottenuto. Proprio nella determinazione del saggio del profitto nel processo di produzione capitalistico, quindi nell’accumulazione, sono insite una serie di contraddizioni che determinano non solo la possibilità della crisi, ma la sua necessità. La forma astratta della sua possibilità diventa realtà. Tanto è vero che lo sviluppo capitalistico, la sua accumulazione, può avvenire soltanto attraverso momenti successivi di crisi.

Tutto ciò, le teste gloriose degli economisti borghesi lo sanno bene, solo che ne danno un’interpretazione di comodo scaricando la responsabilità della caduta del saggio del profitto sulla produttività dell’operaio piuttosto che sulle leggi oggettive che la riguardano. Il che non è casuale per gente remunerata per tamponare in qualche modo le falle teoriche delle dottrine dello sfruttamento e falsificare e diffamare il marxismo.

In tal modo passano in silenzio proprio il fatto che dovrebbe chiarire la contraddizione di fondo, ossia che lo sviluppo della forza produttiva del lavoro, determinando la caduta del saggio del profitto, genera una legge che, ad un dato momento, si oppone inconciliabilmente al suo ulteriore sviluppo e che deve quindi di continuo essere superata per mezzo di crisi. È quindi la legge fondamentale dello sviluppo capitalistico, la caduta del saggio generale del profitto, scoperta da Marx, che determina la necessità della crisi (***).

La contraddizione intrinseca cerca una compensazione mediante l’allargamento del campo esterno della produzione. All’interno dell’area investita dalla crisi di sovrapproduzione assoluta, si ha una crisi generale della struttura produttiva e creditizia. Se questa mattina come ogni altro giorno usciamo dal nostro guscio possiamo constatare con i nostri occhi questo fenomeno. Che fanno allora i nostri bravi “imprenditori”? Ampliano costantemente il mercato, cosicché i suoi rapporti e le condizioni che li regolano assumono sempre di più l’apparenza di una legge naturale indipendente dai produttori, sfuggono sempre di più al controllo.

Ecco allora che solo una parte del capitale esistente – e precisamente quello a composizione più elevata, quindi più concorrenziale – potrà continuare, pur tra grosse difficoltà, a valorizzarsi, concentrandosi a spese di altri capitali, mentre un’altra parte è esportata all’estero, in zone dove il saggio del profitto, ossia il saggio di sfruttamento, è più elevato e, quindi, può essere investito più produttivamente. Anche questo fenomeno, noto oggi come globalizzazione, delocalizzazione, ecc., i salariati lo possono constatare con i loro occhi e anzi sentirlo sulla propria pelle.
Non voglio tirarla per le lunghe e vengo al dunque: in tal modo il capitale supera le crisi aumentando il suo grado di concentrazione, quindi aumentando la sua composizione organica, ampliando la sua base produttiva e di mercato. Tutto bene? Manco per il cazzo. Marx ci dice che “a partire da questo momento il medesimo circolo vizioso verrebbe ripetuto con mezzi di produzione più considerevoli, con un mercato più esteso e con una forza produttiva più elevata”.

Qualsiasi intelligenza, anche la meno evoluta e coltivata, a questo punto dovrebbe trarre delle conclusioni. Tranne i rotti in culo di cui sopra. È evidente che il capitalismo non può esistere senza espansione e che nella sua espansione esso distrugge tutti i modi precedenti di produzione e si estende su tutta l’area mondiale. Ma è anche vero che in tal modo le sue contraddizioni si universalizzano e inaspriscono ulteriormente. La caduta del saggio del profitto diventa sempre più rapida e le crisi sempre più distruttive e generalizzate. L’allargamento della base di un’area produttiva può avvenire solo a spese di un’altra (nord Europa-sud Europa, Cina – Usa e Europa, ecc.), occupando un’altra area capitalistica e minacciando i suoi relativi interessi. Pertanto le guerre per una nuova spartizione del mondo diventano indispensabili per ogni ulteriore sviluppo.

Mai come ora l’essenza del capitalismo (e il suo limite storico) si rivela ai nostri occhi per ciò che essa effettivamente è, di là delle chiacchiere sulla libertà e la democrazia: “produrre per distruggere, distruggere per produrre”.


(*) Scrive Marx, a riguardo degli economisti, che “l’“horror” che essi sentono dinanzi alla tendenza alla diminuzione del saggio del profitto è provocato soprattutto dal fatto che il modo di produzione capitalistico trova, nello sviluppo delle forze produttive, un limite che ha nulla a che vedere con la produzione della ricchezza in quanto tale; e questo particolare limite testimonia del carattere ristretto, semplicemente storico, transitorio, del modo di produzione capitalistico; prova che esso non costituisce affatto l’unico modo di produzione in grado di generare ricchezza, ma, al contrario, arrivato ad un certo punto entra in conflitto con il suo stesso ulteriore sviluppo” (Terzo Libro, cap. 15).

(**) Per forze produttive capitalistiche si deve intendere anzitutto i lavoratori produttivi (di capitale) insieme ai mezzi di produzione (tanto gli strumenti del lavoro che i materiali del lavoro, quindi le risorse naturali). Questi concetti si trovano sviluppati nelle opere economiche di Marx.

(***) La tendenza progressiva alla diminuzione del saggio generale del profitto non è quindi che un’espressione peculiare del modo di produzione capitalistico per lo sviluppo progressivo della produttività sociale del lavoro. Ciò non significa che il saggio del profitto non possa temporaneamente diminuire anche per altri motivi, ma significa che, in conseguenza della stessa natura della produzione capitalistica e come una necessità logica del suo sviluppo, il saggio generale medio del plusvalore deve esprimersi in un calo del saggio generale del profitto. Dato che la massa di vivo lavoro utilizzato diminuisce di continuo rispetto alla massa di lavoro oggettivato che essa ha posto in movimento (cioè rispetto ai mezzi di produzione consumati produttivamente), anche la parte di questo vivo lavoro che non è pagato e che si oggettiva in plusvalore dovrà essere in proporzione sempre decrescente nei confronti del valore del capitale complessivo impiegato. Questo rapporto fra la massa del plusvalore ed il capitale complessivo impiegato costituisce però il saggio del profitto, che dovrà di conseguenza diminuire costantemente (Marx, cit., cap. 13).

L'immagine è di Roberto Innocenti.

3 commenti:

  1. Già, ma dove sta la forza politica che raccolga la sfida per il superamento del modo di produzione capitalistico, per un traghettamento a un livello superiore di produzione sociale?

    Lenin in sedicesimo

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  2. Grazie di questa prolusione dicembrina.

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