C’è una crescente incertezza su quanto a lungo la bolla del mercato azionario potrà continuare con l’aumento dell’inflazione. In settimana saranno prese decisioni sulla politica monetaria da parte di tre delle principali banche centrali del mondo.
Lo sappiamo da sempre, in particolare dal 2008, che ciò che accade a livello finanziario negli Usa, e al dollaro, ha ripercussioni certe sul resto del mondo. Oggi, la Federal Reserve statunitense dovrebbe annunciare una riduzione accelerata del suo programma di acquisto di attività al fine di aprire la strada a un aumento del suo tasso d’interesse di base all’inizio del prossimo anno, poiché cerca di contrastare l’aumento dell’inflazione che ora è al 6,8%, il più alto livello in quasi 40 anni (*).
Giovedì si riuniranno i membri decisionali della Banca d’Inghilterra e della Banca centrale europea.
Ci si aspetta che la Banca d’Inghilterra alzai il tasso, con l’inflazione al 4,9 e destinata a raggiungere almeno il 5,5% l’anno prossimo, ma c’è in ballo la variante Omicron. Tuttavia, nel suo ultimo aggiornamento sull’economia del Regno Unito, il Fondo monetario internazionale ha affermato che la banca centrale dovrebbe “ritirare l’eccezionale sostegno fornito durante il 2020”.
L’inflazione è in aumento anche nella UE, dove supera il 4%. Ci si aspetta che la BCE mantenga il suo acquisto di asset, in linea con le dichiarazioni della sua presidente Christine Lagarde, che è combattuta tra un aumento dei tassi d’interesse e i timori per le conseguenze che ciò avrebbe sulle economie indebitate nella zona euro, vedi per esempio l’Italia.
Al contrario della Bce, la Fed semplicemente non ha l’Italia da sostenere, specie in una situazione di assetto istituzionale nazionale da definire.
Quando l’inflazione era a livelli bassi, le banche centrali sentivano di poter continuare a pompare denaro nel sistema finanziario con ritmi vertiginosi (la speculazione è cresciuta in proporzioni mostruose nell’ultimo anno e mezzo), e ciò aveva effetto sui prezzi delle azioni che toccavano sempre nuovi record, incrementando la ricchezza dell’oligarchia filantropica nonché quella dei miliardari pandemici.
Con i prezzi in aumento a livello globale, la situazione è diventata molto più complessa. L’affermazione che l’inflazione era un fenomeno “transitorio” è diventata insostenibile e perfino ridicola. Sennonché quelle che una volta erano considerate circostanze “normali”, dove un aumento dell’inflazione avrebbe portato a un aumento dei tassi d’interesse, oggi invece sono diventate circostanze “eccezionali”. Il timore sta nel fatto che l’inasprimento monetario possa far precipitare il mercato azionario alimentato dal debito, portando grossi problemi al sistema finanziario nel suo insieme in condizioni in cui l’esperienza del crollo del marzo 2020 è sempre presente.
C’è chi spera che il 2022 non porti panico o crash, ma solo un po’ di “sobrietà”. Durante il periodo del boom economico, i gloriosi trent’anni (1945-1975), le Borse erano cose modeste al di fuori delle due o tre capitali finanziarie, e in genere faccenda per gli addetti e poco altro. Ci si attaccava al telefono e si chiacchierava col proprio broker. Le variazioni degli indici segnavano a fine giornata lo zero virgola. Oggi, chiunque, anche chi crede di capirne un po’, seduto nella propria domestica cucina, può operare su piazze finanziarie esotiche e su asset immaginifici, magari scottandosi le dita. Questo per dire che il processo D-M-D’ ha lasciato il posto a D-D’, con ciò che ne consegue in ordine ai grandi numeri e nella generale convinzione che il sistema si possa passare di crisi in crisi indefinitamente. Il tempo lungo ci dirà se tale convinzione non sia in realtà un’illusione.
(*) L’indice dei prezzi alla produzione, pubblicato ieri, ha mostrato un balzo dello 0,8 per novembre, un aumento annuo del 9,6% (meno alimenti, energia e servizi commerciali), secondo il comunicato stampa del Bureau of Labor Statistics. All’interno della domanda intermedia a novembre, i prezzi dei beni trasformati sono aumentati dell’1,5, l’indice per i beni non lavorati è aumentato del 4,8 e i prezzi per i servizi sono aumentati dello 0,6%. L’indice per i beni lavorati per la domanda intermedia sono aumentati del 26,5, il più grande aumento annuo dal 28,9% del dicembre 1974, mentre quello per i beni grezzi è aumentato del 52,5%.
A novembre, quasi i due terzi dell’aumento dei prezzi dei beni non trasformati per la domanda intermedia è da attribuire a un aumento del 14,3 del gas naturale; prezzi in aumento anche per petrolio greggio, cereali, ferro e acciaio, minerali di metalli non ferrosi e frutta fresca e meloni. Al contrario, il latte crudo è diminuito del 10,3%, prezzi per la macellazione in flessione anche il pollame e per i pellami. All’ingrosso di prodotti chimici e affini sono diminuiti dell’1,3%, dopo gli aumenti degli ultimi mesi.
Pertanto si ha un sostenuto aumento dei prezzi dell’energia e delle materie prime, mentre il prezzo di alcuni prodotti alimentari diminuisce, causa la flessione della domanda finale. Non siamo ancora in una situazione di stagflazione, ma molti dati portano a pensare che la strada sia quella e non sia breve.
Fatto salvo il necessario disclaimer, e cioè che su questi argomenti tutti falliscono le previsioni, occorre dire che l'inflazione "copre" le cadute dei prezzi azionari, nel senso che le diminuzioni in valori reali ci possono essere, ma in valore nominale sono meno visibili. Invece, il reddito fisso va giù e basta. Normalmente, i beni reali offrono invece copertura in tempi di inflazione. Si parla di metalli preziosi e immobili, mentre sulle commodities è bene essere cauti in qualunque momento, come spiegato nel film "Una poltrona per due" a proposito del succo d'arancia congelato.
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