martedì 10 febbraio 2015

“le apparenze contribuiscono a determinare la realtà”


Come non imparare dalle esperienze del passato

È inconcepibile e antistorico che la Russia post sovietica resti separata e antagonista all’Europa occidentale. Prima la Russia era l’impero del male, e oggi che cos’è? In ogni modo si è voluto provocarla ai suoi confini, sul Baltico, in Polonia, nel Mar Nero e ora in Ucraina. Russia e Europa potrebbero rappresentare la prima area economica del pianeta, e invece ci siamo portati dietro nel nuovo millennio i retaggi della II^GM e della cosiddetta guerra fredda. Quale diritto speciale, a 70anni dalla fine della guerra e dopo oltre un quarto di secolo dalla caduta del Muro, possono attribuirsi gli Usa per ingerirsi nelle questioni che riguardano l’Ucraina e i rapporti tra Europea occidentale e Russia?



A Yalta Roosevelt s’impegnò a ritirare le sue truppe dall’Europa entro due anni dal termine del conflitto. Nel 1961, dopo sedici anni dal termine della guerra, nei colloqui tra Kennedy e Kruscev a Vienna, quest’ultimo chiese che finalmente si potesse firmare il trattato di pace tra l’Urss e la Germania, facendo di Berlino una “città aperta e smilitarizzata”, con registrazione dell’Onu e sua ratifica, sotto la giurisdizione della RDT e con la presenza di contingenti simbolici di truppe dei paesi occupanti con la funzione di garanti. Kennedy si oppose, anzi rispose che qualsiasi iniziativa russa su Berlino avrebbe significato la guerra, dunque un conflitto nucleare.

Per lumeggiare un po’ la situazione e il clima di quegli anni, a vantaggio dei più giovani, si deve tener presente che Berlino si trovava all’interno della Germania dell’Est che era uno Stato effettivo ma non era ancora riconosciuto – stante il veto Usa – da alcun paese occidentale.  Anzi, provocatoriamente il Parlamento tedesco-occidentale si riunì a Berlino Ovest e il cancelliere Adenauer l’11 giugno 1961 dichiarava ai 300mila slesiani, il cui territorio si trovava inglobato nella Polonia a seguito di accordi tra le parti, che “tutti i tedeschi” dovevano essere liberi. Con ciò intendendo che dovevano riunirsi alla Germania Ovest.

Dopo l’incontro con Kruscev a Vienna, Kennedy incaricò Dean Gooderham Acheson, che accusò l’Urss di “ostacolare la ricerca internazionale della felicità”, di approntare un piano di risposta alle richieste russe. Nel report elaborato da questo figlio di un vescovo episcopale, la questione di Berlino era fuori discussione. In ogni caso per Acheson, spalleggiato dal vicepresidente Lyndon Johnson, “l’obiettivo” non sarebbe stato quello “di sconfiggere il nemico sul campo, quanto di convincere l’Urss della decisione americana di non recedere, se necessario, nemmeno davanti all’eventualità di una guerra nucleare”.

Perfino gli inglesi erano sconvolti da un simile rischioso atteggiamento di sfida, e tuttavia “il dibattito fu cristallizzato per un certo tempo nei termini di una semplicistica alternativa fra negoziato e prova di forza militare”, scrive Arthur Schlesinger, all’epoca consigliere particolare di Kennedy. Si venne così alla determinazione degli Usa di aumentare le spese militari per incrementare le proprie forze convenzionali e le armi nucleari. Dopo tale decisione fu inevitabile che Kruscev annunciasse, citando in un suo discorso la decisione di Kennedy, la sospensione del provvedimento di smobilitazione parziale dell’Armata rossa e l’aumento della spesa militare.

Dal canto suo lo stalinismo aveva ben poco da offrire sul fronte delle libertà personali e dei consumi su cui si basava il modello occidentale, specie a popolazioni come quelle della Germania dell’Est, e il clima da guerra fredda e la corsa agli armamenti non poteva che aggravare tale stato di cose. L’esodo da Berlino Est procedeva inesorabile e fu giocoforza interromperlo con blocchi stradali e barriere di filo spinato (13 agosto 1961). Alcuni giorni dopo cominciò la costruzione del famoso muro. Anche l’élite tedesco occidentale tirò un sospiro di sollievo, poiché il muro forniva anche a loro una soluzione. L’Urss non si era dimostrata capace di stabilire, data l’opposizione americana, uno status quo diverso per Berlino, ma aveva trovato il modo per assicurare una nazione ai suoi clienti orientali.

In tutta la loro storia, l’atteggiamento provocatorio degli Stati Uniti non è mai mutato. Nemmeno nei riguardi del Giappone prima di Pearl Harbor, per quanto tale atteggiamento fosse giustificato quale risposta all’imperialismo nipponico che minacciava gli interessi americani in Asia e nel Pacifico. La strategia è di provocare l’avversario con ogni mezzo e costringerlo ad una mossa aggressiva per giustificare l’intervento bellico. E quando ciò non riesce, costruire mediaticamente una minaccia inesistente, come nel caso delle armi chimiche di Saddam, o altri pretesti come nel caso di Panama, e prima ancora con il Vietnam, prefabbricando il cosiddetto incidente del Tonchino, che offrì il casus belli per Johnson per chiedere al Congresso americano via libera per attaccare il Vietnam del Nord, senza formale dichiarazione di guerra (*).

Perfino Schlesinger non poteva esimersi dal manifestare al presidente il “timore che il piano Acheson conducesse la politica americana su una strada a senso unico e potenzialmente pericolosa. Sentivo – scrive il consigliere e amico di Kennedy – nell’aria gli stessi segni che avevo avvertito alla vigilia dello sbarco su Cuba”. Acheson e Johnson arrivarono, nel 1961, scrive Schlesinger, a sostenere vigorosamente la necessità di proclamare lo stato d’emergenza nel paese.

Per fortuna prevalse in qualche modo il calcolo sul fanatismo, tant’è che Kissinger, che contribuì a redigere un memorandum sulla questione per Kennedy (in seno all’élite americana le distinzioni politiche sono puro colore), fece osservare che “un rifiuto a discutere non è sinonimo di fermezza … La nostra fermezza la dimostreremo al tavolo dei negoziati … e non con gesti che sembrano fatti per dissimulare il nostro intento di sottrarci a un confronto diplomatico”. Kissinger aveva già studiato Metternich e scritto il miglior saggio storico sulla diplomazia della Restaurazione.

La guerra fredda fu anzitutto questo: l’antagonismo tra due blocchi, una corsa folle da parte degli Usa agli armamenti, e una rincorsa scellerata (ma obbligata) dell’Urss per non perdere la sfida. Questa crisi permanente turbò lo svolgersi delle normali consuetudini di vita e la tranquillità degli individui, e però tale atteggiamento dell’Occidente contrastava, almeno apparentemente, con la volontà di liberalizzare il commercio tra Est e Ovest, se era vero che “la fonte del disordine e delle tensioni mondiali” era Mosca. E ciò dimostra con quanta poca sincerità verso l’opinione pubblica si affrontano questi temi. Come ebbe a dire lo stesso Kennedy, “le apparenze contribuiscono a determinare la realtà” (**).




(*) La Risoluzione del Tonchino, con cui il Congresso autorizzò alla guerra Johnson, fu precostituita ben prima dell’”incidente” (agosto 1964), vale a dire il 25 maggio 1964.


(**) Public Papers, 17.12.1962.

5 commenti:

  1. "Russia e Europa potrebbero rappresentare la prima area economica del pianeta...". Madame, mi sembra che in questo post - ma anche altrove - si stia sottovalutando un aspetto che può sembrare accessorio ma che, chi ha l'occasione di frequentare paesi dell'Europa dell'est ex-sovietici (Slovacchia, Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia su tutte, ma anche l'Oblast di Lviv in Ucraina, per esempio), coglie subito: un serpeggiante - e qua è là proprio evidente - sentimento anti-russo. Le ragioni storiche sono ovvie e, con le dovute e peculiari differenze, sono le stesse delle diffuse tendenze anti-americaniste (anti-atlantiste ecc...) dell'Europa Occidentale. Anche ad esse, per dirne una, fu dovuta la scelta dell'allora presidente Kaczynski di installare quello scudo spaziale in Polonia che tanto fece infuriare Putin. Ecco, noi e gran parte dell'est europeo siamo figli della guerra fredda in questo senso, ognuno - se così si può dire - col suo cattivo patrigno. E questa guerra in Ucraina sta tirando e tirerà fuori ancor di più tale differenza. I miei rispetti.

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  2. infatti, quando si tratta d'interessi concreti ritengo i sentimenti faccenda del tutto accessoria. ciò è dimostrato dal fatto che i polacchi dovrebbero avere sentimenti anti-tedeschi, e tuttavia ora prevalgono sentimenti opposti. prenda poi il caso del vietnam, ora vanno d'amore con gli Usa. si ricordi che oltre alle apparenze, anche gli interessi contribuiscono a determinare la realtà

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    1. Le garantisco, Madame, che in Polonia vi sono anche sentimenti anti-tedeschi; il fatto è che quelli anti-russi sono di gran lunga più vivi perché alimentati da 44 anni d'occupazione finiti l'altroieri, nonché, attualmente, dal nazionalismo reazionario di Putin (in risposta alle politiche Usa, mi si potrebbe rispondere; bene, ma agli occhi di un polacco o di un cittadino qualsiasi d'una qualsiasi repubblica baltica la Russia incombe sia geograficamente che storicamente). Inoltre, lei scrive che quando vi sono in gioco interessi concreti i sentimenti sono accessori, ma credo sia vero in parte: se i secondi vengono sistematicamente cavalcati dai governi in funzione dei primi, significa che sono un mezzo valido per quel fine.

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  3. La prima economia anche x il rapporto commerciale - distrutto dagli usa - che ci ha visti per parecchio tenpo patner naturali del nord africa e medio oriente.
    In più non dimentichiamo la folle aggressione finanziaria - in cui hanno scatenato la muta di cani rabbiosi degli hedge found - all'Argentina, che dall'europa sta girando la sua economia verso cina e russia.
    Solo una timida e parziale voce dalla spagna ricorda che le sanzioni alla russia sono già costate all'europa 21 miliardi e niente agli usa.
    E l'iran, l'iraq, la libia, la siria non è che valessero due soldi.
    E sta cazzo di nato quanto ci costa? e le basi americane e gli acquisti di armi farlocche come gli f35? E le missioni in afganistan,iraq, libano, ex jugoslavia? una marea di soldi mentre qui cresce a dismisura la povertà.
    Posso dire un gran vaffanculo? ciao g

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