sabato 7 febbraio 2015

La tigre


Se si fosse chiesto all’ormai anziano Metternich di sintetizzare con un solo termine il suo giudizio su Garibaldi e Mazzini non c’è dubbio che avrebbe usato un’espressione uguale o equipollente a quella di “terroristi”. Di Garibaldi come antesignano di Che Guevara sappiamo tutto (o quasi) ma forse sono meno note le due condanne a morte che pendevano sul capo di Mazzini: una comminata dal tribunale sabaudo di Genova per i moti del 1857, e l’altra inflitta dal tribunale di Parigi per complicità in un attentato contro Carlo Luigi Bonaparte.

Sicuramente Garibaldi e Mazzini avevano un’etica e una morale ben più “illuministica” di quella di al-Baghdadi, ma ciò dipendeva appunto dal fatto che essi erano il prodotto di una società molto diversa da quella del califfo. Combattevano i due italiani la propria battaglia per un ideale politico nazionale, invece l’iracheno dice di combattere in nome e per conto dell’Islam.

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Non vi è dubbio che le borghesie nazionali si sono servite di forme di lotta non “convenzionali” – poi spesso riassorbite, come nel caso di Mazzini e Garibaldi – per ottenere l’indipendenza nazionale. E però dove – come nel caso del Medio Oriente – le borghesie sono deboli, c’è sempre la possibilità che delle schegge impazzite provochino gravi e imprevisti danni, come avvenne del resto anche altrove, per esempio con il nazionalismo slavo a Sarajevo nel 1914.

Dopo la spartizione della carcassa ottomana, il Medio Oriente, un’area strategica di rilevanza mondiale sia per le risorse di petrolio e gas e sia come ponte tra occidente e oriente, è divenuto un’arena in cui si sono confrontate le potenze occidentali, giocando l’uno contro l’altro gli attori regionali. In tale quadro, le élite arabe e nordafricane hanno promosso dei movimenti rivoluzionari d’impronta nazionalistica fin quando essi non hanno perso legittimità con la sconfitta del nasserismo nel 1967. Già dagli anni Settanta cominciarono a farsi largo movimenti rivoluzionari fondamentalisti, laddove però lo scopo politico anti-imperialista restava inalterato (*).

La guerra del 1973 e la cosiddetta crisi petrolifera, con l’impennata della rendita petrolifera, hanno favorito l’attore locale più forte, l’Arabia Saudita. È ben nota la natura del regime di Riyadh, il sistema sociale e il ruolo che la religione vi gioca, e perciò fu conseguente che, nell’espansione internazionale delle correnti islamiche, quella wahhabita, d’impronta puritana e ultra-conservatrice, avesse, almeno inizialmente, la prevalenza.

L’errore fondamentale dell’occidente e anche del regime saudita fu quello di ritenere, a cominciare dall’impiego di questi gruppi in Afghanistan, di poter controllare l’islamismo radicale una volta organizzato e finanziato. I missionari dell’islamismo nel mondo si sono trasformati in jihadisti e in minaccia per lo stesso regno saudita e i suoi alleati. Se l’oligarchia petrolifera saudita pensava in questo modo di stornare una potenziale opposizione interna e gli appetiti indotti dalle immense rendite, s’è dovuta ricredere seppur con notevole ritardo. Per altri motivi s’è dovuto ricredere, tardivamente anch’esso, l’establishment americano.

Concepire i movimenti radicali islamici come mero prodotto del fondamentalismo religioso è fuorviante ed è come dar retta alle loro stesse motivazioni. Per analogia è come se nelle determinazioni storiche del papato cattolico volessimo tener separati gli aspetti spirituali da quelli temporali, oppure prendessimo per buona la pastorale vaticana. Nel radicalismo islamico le motivazioni religiose e quelle politiche si fondono, come del resto avviene, fatta eccezione per il periodo storico in cui prevalse il nazionalismo laico, fin dalla fondazione dell’Islam e dal suo antagonismo con Bisanzio. Com’è avvenuto del resto per qualsiasi movimento rivoluzionario su base religiosa, a cominciare dal cristianesimo e poi nel protestantesimo.

Perciò è meglio tener d’occhio la sempre più aspra contesa tra le grandi potenze, le crisi di squilibrio e le profonde trasformazioni indotte dalla tecnologia nella formazione economico-sociale capitalistica. Il fondamentalismo islamico, di cui non voglio assolutamente sottovalutare la minaccia, è ad ogni modo una tigre che in troppi hanno interesse a tenere ben viva, ad alimentare e agitare.


(*) Non molto diversamente da come hanno fatto gli israeliani a suo tempo, in cui la motivazione religiosa non ha giocato certo un ruolo di secondo piano per dotare di massa critica il movimento che portò all’organizzazione del loro Stato etnico indipendente. Il ruolo affidato dalle grandi potenze ad Israele, fin da principio, è stato affatto diverso, per molti motivi. Inoltre Israele ha saputo trarre vantaggio dalla storia delle persecuzioni patite in Europa dagli ebrei, e grande vantaggio, a differenza degli arabi, da una propria classe dirigente formatasi in Europa e secondo principi diversi da quelli delle élite arabe.




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