Se
si fosse chiesto all’ormai anziano Metternich di sintetizzare con un solo termine
il suo giudizio su Garibaldi e Mazzini non c’è dubbio che avrebbe usato
un’espressione uguale o equipollente a quella di “terroristi”. Di Garibaldi
come antesignano di Che Guevara sappiamo tutto (o quasi) ma forse sono meno
note le due condanne a morte che pendevano sul capo di Mazzini: una comminata
dal tribunale sabaudo di Genova per i moti del 1857, e l’altra inflitta dal tribunale
di Parigi per complicità in un attentato contro Carlo Luigi Bonaparte.
Sicuramente
Garibaldi e Mazzini avevano un’etica e una morale ben più “illuministica” di
quella di al-Baghdadi, ma ciò dipendeva appunto dal fatto che essi erano il
prodotto di una società molto diversa da quella del califfo. Combattevano i due
italiani la propria battaglia per un ideale politico nazionale, invece l’iracheno
dice di combattere in nome e per conto dell’Islam.
*
Non
vi è dubbio che le borghesie nazionali si sono servite di forme di lotta non
“convenzionali” – poi spesso riassorbite, come nel caso di Mazzini e Garibaldi
– per ottenere l’indipendenza nazionale. E però dove – come nel caso del Medio
Oriente – le borghesie sono deboli, c’è sempre la possibilità che delle schegge
impazzite provochino gravi e imprevisti danni, come avvenne del resto anche altrove,
per esempio con il nazionalismo slavo a Sarajevo nel 1914.
Dopo
la spartizione della carcassa ottomana, il Medio Oriente, un’area strategica di
rilevanza mondiale sia per le risorse di petrolio e gas e sia come ponte tra
occidente e oriente, è divenuto un’arena in cui si sono confrontate le potenze
occidentali, giocando l’uno contro l’altro gli attori regionali. In tale
quadro, le élite arabe e nordafricane hanno promosso dei movimenti rivoluzionari
d’impronta nazionalistica fin quando essi non hanno perso legittimità con la
sconfitta del nasserismo nel 1967. Già dagli anni Settanta cominciarono a farsi
largo movimenti rivoluzionari fondamentalisti, laddove però lo scopo politico anti-imperialista restava inalterato
(*).
La
guerra del 1973 e la cosiddetta crisi petrolifera, con l’impennata della
rendita petrolifera, hanno favorito l’attore locale più forte, l’Arabia Saudita.
È ben nota la natura del regime di Riyadh, il sistema sociale e il ruolo che la
religione vi gioca, e perciò fu conseguente che, nell’espansione internazionale
delle correnti islamiche, quella wahhabita, d’impronta puritana e
ultra-conservatrice, avesse, almeno inizialmente, la prevalenza.
L’errore
fondamentale dell’occidente e anche del regime saudita fu quello di ritenere, a
cominciare dall’impiego di questi gruppi in Afghanistan, di poter controllare
l’islamismo radicale una volta organizzato e finanziato. I missionari
dell’islamismo nel mondo si sono trasformati in jihadisti e in minaccia per lo
stesso regno saudita e i suoi alleati. Se l’oligarchia petrolifera saudita
pensava in questo modo di stornare una potenziale opposizione interna e gli
appetiti indotti dalle immense rendite, s’è dovuta ricredere seppur con
notevole ritardo. Per altri motivi s’è dovuto ricredere, tardivamente
anch’esso, l’establishment americano.
Concepire
i movimenti radicali islamici come mero prodotto del fondamentalismo religioso
è fuorviante ed è come dar retta alle loro stesse motivazioni. Per analogia è
come se nelle determinazioni storiche del papato cattolico volessimo tener
separati gli aspetti spirituali da quelli temporali, oppure prendessimo per
buona la pastorale vaticana. Nel radicalismo islamico le motivazioni religiose
e quelle politiche si fondono, come del resto avviene, fatta eccezione per il
periodo storico in cui prevalse il nazionalismo laico, fin dalla fondazione
dell’Islam e dal suo antagonismo con Bisanzio. Com’è avvenuto del resto per
qualsiasi movimento rivoluzionario su base religiosa, a cominciare dal
cristianesimo e poi nel protestantesimo.
Perciò
è meglio tener d’occhio la sempre più aspra contesa tra le grandi potenze, le
crisi di squilibrio e le profonde trasformazioni indotte dalla tecnologia nella
formazione economico-sociale capitalistica. Il fondamentalismo islamico, di cui
non voglio assolutamente sottovalutare la minaccia, è ad ogni modo una tigre che
in troppi hanno interesse a tenere ben viva, ad alimentare e agitare.
(*)
Non molto diversamente da come hanno fatto gli israeliani a suo
tempo, in cui la motivazione religiosa non ha giocato certo un ruolo di secondo
piano per dotare di massa critica il movimento che portò all’organizzazione del
loro Stato etnico indipendente. Il ruolo affidato dalle grandi potenze ad
Israele, fin da principio, è stato affatto diverso, per molti motivi. Inoltre
Israele ha saputo trarre vantaggio dalla storia delle persecuzioni patite in
Europa dagli ebrei, e grande vantaggio, a differenza degli arabi, da una
propria classe dirigente formatasi in Europa e secondo principi diversi da
quelli delle élite arabe.
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