Il 3 febbraio del 1861 si svolse
il ballottaggio delle elezioni politiche per la Camera del Regno di Sardegna,
sulla base della legge elettorale del 1848. Alcuni giorni dopo quella stessa
Camera approvò la legge che doveva formalizzare il cambio di regime: i Savoia al
posto dei Borbone e Vittorio e la Rosina inquilini a La Petraia, già dei
granduchi di Toscana, in attesa si liberi il Quirinale (*).
Un’espressione geografica: mai
definizione s’adattò meglio all’Italia. L’unico paese al mondo che avesse due
monarchi nella stessa capitale, due simbologie sovrane, due corpi diplomatici,
due giurisprudenze, due altari, due grandi proprietari immobiliari. Logico che
prevalesse la politica religiosa, l’argomentazione biblica, e, ieri come oggi, la
lingua del breviario: mattarellum, porcellum, italicum.
Un mutamento che interessò più
l’araldica che l’ordine sociale vigente. Nelle campagne si continuò a far la
fame, la pellagra, un tetto in paglia, il pavimento in terra e fogli di carta oleata
al posto dei vetri alle finestre. Nelle città come Palermo o Milano ci
penseranno le truppe di Raffaele Cadorna e di Fiorenzo Bava Beccaris a
ristabilire quell’ordine sociale che resterà intonso ben dentro il XX secolo.
Dopo la grande mattanza 1915-‘18,
fu inevitabile che malcontento e disperazione fossero usati per fomentare la
rivolta. E anche in tal caso la provvidenza venne in soccorso dei relitti del tenace
ordine sociale. Fu solo nel secondo dopoguerra che le classi dirigenti italiane
si adeguarono, di malavoglia, a un mondo che cambiava sotto la spinta del
travolgente secolo americano.
Dopo secoli di un mondo saturo di
precarietà e disperazione, cominciò a prendere piede un mondo dove quei
problemi potevano essere risolti, una società di azionisti e proletari
soddisfatti ognuno del proprio benessere e delle proprie speranze. In tal modo
prese sempre più credito l’idea che anche l’ordine sociale fosse mutato e le
antiche divisioni di classe stessero scomparendo nel vortice delle magnifiche
sorti e progressive.
Veniamo all'oggi. Senza ripeterne i motivi e le
cause dobbiamo prendere atto che è sopraggiunta la delusione per un mondo che
non può fermarsi e che però non è guidato, lasciato com’è all’arbitrio del
mercato. Alla luminosa idea del comune miglioramento s’è sostituita l’opinione
meschina, prevale il piccolo calcolo, la mera necessità della sopravvivenza.
È questa un’epoca che annega nella
sua stessa passività, ed è passiva anzitutto per aver accettato l’idea mediocre
della propria impotenza, laddove non solo ogni trasformazione radicale pare inconcepibile,
ma addirittura impossibili delle rivendicazioni minime. Un atteggiamento omogeneo
e trasversale, sia in coloro ancora garantiti da un reddito sufficiente e sia in
quelli ridotti alla canna del gas.
(*) Vittorio ebbe poi il buon senso
di usare il Quirinale quasi solo per le cerimonie ufficiali, risiedendo
d’ordinario nella sua villa privata in Roma. Una residenza non sontuosa, in cui
egli abitava piacevolmente perché in tal modo, diceva, poteva mettere un chiodo
dove gli pareva e i suoi figlioli potevano ancora con la loro irrequietezza
fare dei piccoli guasti senza danneggiare il patrimonio artistico e culturale
dello Stato. Vittorio era a ben vedere più alla mano di certi monarchi attuali.
Triste ma veritiera "prospettiva d'istraforo", come dicevano gli antichi, della storia patria.
RispondiEliminaE, sì, Vittorio era comunque meglio di certi suoi epigoni "democratici".