mercoledì 4 giugno 2014

Mentre loro cercano la "formula magica"


Penso a quei ragazzi e ragazze, a quegli uomini e donne, a quel 46 per cento di giovani che non hanno un lavoro e forse un lavoro non precario non l’avranno mai. Se il problema sociale grave è dunque la mancanza di lavoro e la disoccupazione, il dato politico più vero è il modo in cui vengono illusi questi giovani – essendo in maggioranza tenuti all’oscuro di ciò che realmente accade – sia da chi governa e sia da chi dice di opporsi, promettendo “crescita” o un sussidio, un’elemosina comunque denominata.

Finché permane questo sistema economico, e finché l’iniziativa di questi giovani resterà politicamente immatura, fuorviata e manipolata, di fronte alle reali cause economiche di questa situazione e alle scelte politiche che la favoriscono, lo stato di cose non muterà e anzi è destinato ad aggravarsi pericolosamente. E questa non è una mera congettura, ma un fatto analizzabile scientificamente e pure evidente in modo empirico nei suoi effetti.

*



Noi oggi vediamo che laddove un tempo venivano impiegati per una determinata produzione centinaia di operai, oggi ne bastano poche decine per produrre una quantità superiore di merci. L’industria e la sussunzione della scienza ad essa hanno dotato il lavoro umano di una capacità produttiva straordinaria e inedita. E tuttavia, lo slogan di un tempo, lavorare tutti per lavorare meno, non ha senso reale in una società capitalistica, e può valere come un auspicio, una parola d’ordine di lotta rivolta al futuro.

Il capitale favorisce il risparmio di lavoro, anzi, vi si accinge con ogni mezzo, però ad un unico scopo, aumentare i profitti, non per ridurre la giornata lavorativa a parità di salario. È la natura stessa del capitalismo ad impedire che l’enorme quantità di ricchezza socialmente prodotta in forma di merci si traduca non solo in una migliore distribuzione di essa, ma anche in un risparmio di lavoro a favore del lavoratore e, con esso, della società nel suo complesso.

La produzione capitalistica racchiude una tendenza verso lo sviluppo assoluto delle forze produttive, ma nello stesso tempo ha come scopo la conservazione del valore-capitale esistente e la sua massima valorizzazione. In altri termini, la produzione capitalistica, per sua intrinseca natura, tende a considerare il valore-capitale esistente come mezzo per la massima valorizzazione possibile di questo valore.

Senza addentrarci in questioni forse un po’ troppo sofisticate per un post, è sufficiente dire  che la diminuzione relativa della manodopera in rapporto al capitale investito come impianti e materie prime, si verifica parallelamente allo sviluppo della forza produttiva e ciò ha come diretta conseguenza, a un determinato stadio, la disoccupazione di massa. I mezzi di produzione, invece di essere mezzi per una continua estensione del processo vitale per la società dei produttori, diventano nella produzione capitalistica esclusivo scopo per accrescere la valorizzazione del capitale.

Il capitalista, sia esso individuale o un trust monopolistico, ha come scopo la conservazione e valorizzazione del capitale, possibili solo con l'espropriazione della grande massa dei produttori. La produzione capitalistica viene ad avere un fine ristretto: l’accrescimento illimitato della produzione e dunque la produzione come fine a se stessa. I metodi di produzione cui il capitale deve ricorrere per raggiungere tale scopo e che noi possiamo apprezzare anche empiricamente come sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali del lavoro, si trovano in conflitto con quelli che sono gli interessi dei lavoratori e della società nel suo complesso.

Se il modo di produzione capitalistico è quindi un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, esso è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti di produzione sociali che gli corrispondono.

Ritorno subito su questo punto, prima però deve essere chiaro questo: per quanto riguarda il modo in cui il capitale s’appropria del plusvalore (*), ossia del lavoro non pagato all’operaio, l’analisi critica marxiana del modo di produzione capitalistico, non consiste nel mettere il luce, come potrebbe ritenersi data una certa vulgata alla Augias, l’esistenza di un’ingiustizia, di una violazione del diritto. L’appropriazione del plusvalore avviene in conformità con le leggi della società che corrisponde ai rapporti di produzione capitalistici (quelle stesse leggi che i “nostri” rappresentanti – quelli che noi siamo “chiamati” democraticamente ad eleggere – approvano in parlamento. Ecco dunque il valore strategico assoluto dell’astensione dal voto, in questa fase storica, in un sistema dominato dal capitale monopolistico che controlla ogni aspetto del sociale).

È però un fatto empiricamente constatabile che nella società capitalistica – come del resto in precedenti formazioni economico-sociali – soltanto una classe disponga del sovrappiù sociale. I capitalisti, in base al diritto di proprietà che vantano sui mezzi di produzione, sancito dalle leggi che i “nostri” rappresentanti hanno approvato, e sulla base dei contratti di lavoro vigenti (sempre approvati dai “nostri” rappresentanti liberamente eletti), si appropriano dell’intero plusprodotto. È questa una circostanza storica non fondata su nessuna caratteristica “ontologica” – per dirla come piace ai professori di scuola – propria degli individui, né sulla natura del processo lavorativo in generale, che potrebbe essere, al grado di sviluppo cui siamo giunti, regolato ben altrimenti.

Siamo dunque al punto essenziale e conclusivo di questa pur schematica disamina. Noi vediamo bene, nonostante il frastuono dei media – non a caso tanto più ridondante quanto più si acutizzano le questioni e il conflitto sociale – che a fronte di un enorme sviluppo delle forze produttive materiali della società, siano vigenti dei rapporti sociali di produzione, cioè dei rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) che ogni giorno di più si presentano conflittuali e antitetici, angusti e limitati, che non si giustificano più in alcun modo, non solo dal punto di vista etico ma anzitutto dal punto di vista strettamente economico e sociale.

Ed è proprio su queste questioni che le nuove generazioni dovranno riflettere per liberarsi da queste catene, per uscire da questa situazione inverando nuovi rapporti sociali che non abbiano più come base ristretta e contraddittoria i rapporti di proprietà borghesi, ossia i rapporti di produzione capitalistici. Dovranno affrontarle in termini nuovi e però sullo spunto di queste stesse premesse, altrimenti resteranno in preda alle più fantastiche lusinghe riformistiche, pagandone il prezzo.

(*) Lo sfruttamento si ha nel momento in cui l’operaio è costretto a lavorare oltre la reintegrazione dei propri mezzi di sussistenza – di qualunque entità e qualità essi possano essere in considerazione delle circostanze storiche –, senza che sia sua facoltà stabilire la quantità del plusprodotto e – fatto essenziale – senza che possa disporne in alcun modo o deciderne altrimenti la destinazione.



4 commenti:

  1. Vogliamo anche dire apertamente che il limite tra vita lavorativa e vita privata sta diventando sempre più labile ad es nella produzione di servizi?
    Così come questi illuminati imprenditori italiani pagano otto ore a subordinati che sempre più spesso ne lavorano nove o dieci senza che queste vengano renumerate?
    E' forse per questo che la produttività italiana comparata con ad es il nord europa è deficitaria?
    Tutto vero e drammatico quello che lei scrive ma in Italia non ci facciamo mancare niente e allora ecco straordinari non pagati, forze lavoro sottodimensionate, contratti sempre più ridicoli etc.
    Ci sarebbe da sparare a vista, ma come già da me scritto in un altro commento finchè ci saranno le pensioni dei nonni a coprire la mostruosità di una famiglia che non riesce a mantenere i propri figli allora non vedremo apparentemente nulla.
    Di certo non sui media tradizionali.
    Dimenticavo tra poco ci sono le vacanze estive...
    I mie migliori saluti.

    Roberto

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    1. in quasi ogni famiglia ci sono problemi e questioni analoghe
      ricambio cordialmente i saluti

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  2. Cara Olympe, "il valore strategico assoluto dell’astensione dal voto", serve solo a rivendicare il NON coinvolgimento personale, che il POTERE tiene in non cale, finchè non sarà possibile coagulare il dissenso.
    Dissenso che cerca in ogni modo di troncare e sopire con il famoso TRICKEL-DOWN e la creazione di strutture per i working-poors negli Stati Uniti, o i mini jobs tedeschi, come Walmart, che (soprattutto negli ultimi anni) ha ottenuto il proprio successo commerciale sia tagliando le spese sulla forza lavoro attraverso l'impiego di operai non specializzati o part-time, e opponendosi ai sindacati tra i lavoratori, sia fornendo merce fabbricata in paesi con costi minori (Cina, Filippine ecc). In un'ottica macroeconomica, tale sistema non può che impoverire le nazioni in cui si stabilisce, danneggiando la base produttiva (cioè portando alla chiusura gli stabilimenti nazionali i quali producevano i beni a un prezzo non competitivo con quelli importati dall'estero) e, nel lungo periodo, diminuendo i salari medi e il tasso di occupazione in detti paesi (sempre secondo i critici). In effetti, tali critiche coincidono con quelle rivolte all'immagine più negativa della globalizzazione: lo sfruttamento contemporaneo dei paesi meno sviluppati, nei quali si può produrre a basso costo sottopagando i lavoratori, e dei paesi avanzati nei quali si è formata una classe di consumatori relativamente benestante la quale trova conveniente acquistare i beni importati; il tutto danneggiando sia i paesi produttori (i cui lavoratori rimangono sottopagati) sia i paesi importatori (la cui base produttiva viene danneggiata) a solo profitto delle aziende importatrici.
    Un caro saluto

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  3. "Lavorare meno, lavorare tutti" era un programma, uno slogan, un obiettivo del ciclo di lotte di fine anni '70. Per comodità lo possiamo associare al '77: tanti nodi si sono aggrovigliati da allora ma le questioni sono rimaste quelle in un contesto completamente nuovo. Il fatto è che i rapporti sociali e di classe allora erano profondamente diversi da quelli di oggi: diciamo ribaltati rispetto a oggi.
    Da qui mi aggancio alla prima risposta, quella di anonimo, che coglie un aspetto importantissimo: l'ormai avvenuto accorpamento tra tempo di vita e tempo di lavoro. Il capitale riesce ad avere dominio completo schiacciando il lavoratore non solo sul reddito e sulle condizioni di lavoro ma sui tempi. Soprattutto nei servizi, ma anche nel pubblico e nella scuola, nei tanti lavori gestiti dalle cooperative. E riesce nel miracolo di togliere reddito ulteriore con l'industria dei corsi- bello, il box con quello per maggiordomi, ma pensiamo ai gironi infernali di sis e specializzazioni per le graduatorie nella scuola, ad esempio- spesso inutili se non per chi li mette in piedi.
    Non è questione di rappresentanti e rappresentati: questi meccanismi sono saltati. La questione è riuscire a sviluppare coscienza sociale e di classe , conflitto e autonomia. Giustamente scrivi che l'appropriazione di plusvalore avviene con mezzi legali: sono d'accordo con l'astensione ma questa da sola non basta, si dimostra sterile se non si costruisce qualcosa sul piano sociale. Andando in direzione ostinata e contraria rispetto a quei sindacati che oggi sono solo grandi centri servizi e a quella "sinistra" che della legalità borghese e dei rapporti sociali che sottende ha fatto un feticcio...

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