Quando illustrarono a Napoleone le
potenzialità della navigazione a vapore, questi convenne sul fatto che ciò
avrebbe cambiato il mondo. Non più soggetto al capriccio dei venti, il controllo
del movimento delle navi avrebbe rivoluzionato il trasporto via mare e pure
l’aspetto bellico. La prima nave a vapore in Europa fu varata nel 1812, ma nei
lunghi fiumi del Nord America i battelli a vapore erano già una cinquantina;
nel 1819 si ebbe la prima traversata atlantica e nel 1838 fu costruito il primo
transatlantico in ferro. Un cambiamento epocale, davvero.
L’Inghilterra era ben fornita del
carbone necessario per le caldaie delle navi, e pure la Germania ne era
produttrice. Per costruire le grandi navi da guerra era necessario l’acciaio, nel
1910 l’Inghilterra ne produceva 7,8 milioni di tonnellate, ma il secondo Reich
la surclassava con 17,6 milioni. Fu in quei decenni prima del grande conflitto,
a cavallo tra i due secoli, che si accese la contesa marittima tra
l’Inghilterra e la Germania. Se quest’ultima voleva avere un ruolo mondiale e
non solo regionale, doveva per lo meno controbilanciare la potenza inglese sui
mari. La dottrina del Mahan non era che una presa d’atto di tale situazione.
Sotto l’ammiraglio Tirpitz e con
l’adesione del Kaiser, fu varato un piano per costruire una flotta d’alto mare
(Hochseeflotte). Le navi a vapore alimentate a carbone dovevano riservare una
cospicua quota della loro dislocazione allo stoccaggio del minerale, e ciò non
era privo di conseguenze sia per la struttura del naviglio e sia per i problemi
di rifornimento nel caso di lunghi viaggi, come nel 1905 quando la Russia inviò
la propria flotta dal Baltico a Port Arthur, nel Pacifico, circumnavigando
l’Africa e poi per l’oceano Indiano.
Gli inglesi risposero ai tedeschi con
una nave di concezione nuova: non più a carbone, ma a nafta! La classe Queen
Elizabeth consentiva in tal modo di trasferire una consistente parte del dislocamento
a favore di una maggiore corazzatura e dell’armamento. L’Inghilterra aveva
quindi bisogno di petrolio, di avere un controllo diretto di
approvvigionamento, e dunque di mettere le mani sui giacimenti del Medio
Oriente, in particolare quelli scoperti nel 1908 in Persia.
Tra il 1914 e il 1915 l’allestimento
della flotta inglese fu completato, ma solo nel 1917, allo Jutland, vi fu il
grande scontro con quella tedesca. Quella fu l’ultima grande battaglia combattuta
da sole navi, ossia senza le portaerei e l’aviazione. L’esito dello Jutland non
fu decisivo per la guerra in corso, soprattutto non lo fu per rompere il blocco
navale al quale gli imperi centrali erano sottoposti. Se la Germania voleva
imporsi sui mari doveva seguire un’altra strada, quella della guerra sottomarina
che in quel conflitto non fu combattuta sistematicamente e con impiego adeguato
di mezzi.
L’Inghilterra era un’isola, se
voleva sopravvivere doveva importare via mare quanto le era necessario. Una
poderosa flotta subacquea che con un’offensiva sistematica fosse riuscita ad
affondare gran parte del tonnellaggio mercantile, l’avrebbe messa fuori gioco.
L’artefice di quest’idea, germogliata già nel corso del primo conflitto, fu
l’ammiraglio Karl Dönitz. Negli anni Trenta solo parzialmente trovò ascolto
presso un ambiente culturalmente tra i meno produttivi dal punto di vista
intellettuale, vale a dire quello nazista.
Fu allestita una flotta subacquea
tedesca, ma non secondo il disegno strategico dell’ammiraglio. A ciò deve
aggiungersi la resistenza, anche da parte di Dönitz, di sviluppare sottomarini
di nuova concezione che la tecnologia già disponibile avrebbe permesso di
realizzare fin dalla fine degli anni Trenta e che invece furono prodotti solo
verso la fine del conflitto in un centinaio di esemplari, solo due dei quali furono
operativi. Per chi fosse interessato a qualche cenno sul nuovo U-boat, il Typo XXI Elektroboat, ho
scritto alcuni post (qui). Ad ogni modo, fino a quando da parte degli Alleati
non furono trovate misure efficaci, la flotta subacquea tedesca, dal 1939 al
1942, ebbe modo di affondare circa 17 milioni di tonnellate di naviglio, ossia
un numero impressionante di navi di ogni tipo e stazza.
Nel Pacifico la contesa marittima
ebbe per protagoniste le portaerei, un’arma strategica fondamentale soprattutto
in un teatro così ampio. Un ruolo non secondario in quelle vicende belliche lo
ebbe anche l’impiego dei radiogoniometri e l’essere riusciti a mettere in
chiaro, da parte Usa, i cifrati nipponici (*). Tuttavia realmente decisiva fu l’enorme
capacità produttiva dell’apparato industriale americano e la larga
disponibilità di carburante (e ciò vale per tutti i fronti di guerra).
Alla sfida che si aprì nel secondo
dopoguerra tra Usa e Urss, la marina sovietica rispose allo strapotere della
Nato con l’allestimento e l’impiego di una poderosa flotta dotata di missili
balistici montati su sottomarini con caratteristiche assai diverse da quelli in
uso nei due conflitti mondiali. Nella strategia dissuasiva l’arma sottomarina
giocò un ruolo importante, non meno di quella missilistica postata a terra.
E per il futuro? Le marine di
superficie russa e cinese non possono tenere il confronto con quelle della Nato
(il confronto va fatto in questi termini), tuttavia sulla tenuta strategica
delle portaerei nel prossimo conflitto (pochi dubbi che non vi sarà) ho diverse
riserve, essendo questo genere di unità, per quanto ben difese da sistemi
d’arma a controllo elettronico, assai vulnerabili a fronte di un attacco
massiccio combinato.
Durante il primo conflitto
mondiale, il colonnello Giulio Douhet, il più innovativo teorico militare
italiano, caldeggiava da un lato la creazione di un’aviazione per poter
aspirare alla supremazia dell’aria, e, dall’altro consegnava al ministro
Bissolati una caustica valutazione dell’operato di Cadorna, ancora vincolato
all’assurdo concetto dell’assalto frontale che aveva spazzato via quasi due
generazioni di giovani italiani (ho scritto in più occasioni sulla concezione
barocca della guerra da parte di Cadorna – che non mi risulta fosse giocatore
di scacchi – e sull’enorme vantaggio difensivo austro-ungarico). Queste
critiche gli valsero la reclusione in fortezza. Ad ogni buon conto, il Douhet
aveva teorizzato il bombardamento terroristico e la guerra totale.
Il secondo conflitto mondiale
doveva dargli ragione: anche se l’arma aerea non si rivelò decisiva per le
sorti della guerra, essa ricoprì un ruolo fondamentale. Senza il bombardamento
terroristico delle città europee e nipponiche, senza la distruzione delle
industrie e delle infrastrutture civili e militari, dunque della macchina
bellica, il conflitto sarebbe continuato molto più a lungo e con ulteriori
gravi perdite.
Le due recenti guerre irachene
hanno stabilito ciò che è noto da sempre, ossia che è necessario l’intervento
dell’esercito di terra per acquisire gli obiettivi, e tuttavia l’impiego delle
forze aeree e delle armi missilistiche si è rivelato decisivo per distruggere
le difese e disarticolare il sistema di comando e controllo iracheno,
un esercito che aveva tenuto testa per anni a quello iraniano.
Il prossimo conflitto mondiale è
già iniziato, a farla da padrona è ancora una volta la tecnologia, dove il
cyber-spionaggio gioca un ruolo centrale, così come il controllo dell’opinione
pubblica, quello satellitare, l’impiego di velivoli a controllo remoto, e tutte
quelle cosucce che non conosciamo e che forse in certe occasioni magari volano
sopra le nostre teste fomentando le più fantastiche allucinazioni.
(*) Gli uomini che si insediarono
nei più importanti uffici amministrativi dell’OSS, da cui poi nascerà la CIA,
erano, come Donovan e i suoi amici David Bruce e Allen Dulles, avvocati di
grandi corporation, dirigenti del mondo degli affari e banchieri, conservatori
e tutti d’un pezzo, spesso repubblicani provenienti dalle più ricche famiglie
del paese.
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