domenica 8 giugno 2014

Divagando al primo caldo


Quando illustrarono a Napoleone le potenzialità della navigazione a vapore, questi convenne sul fatto che ciò avrebbe cambiato il mondo. Non più soggetto al capriccio dei venti, il controllo del movimento delle navi avrebbe rivoluzionato il trasporto via mare e pure l’aspetto bellico. La prima nave a vapore in Europa fu varata nel 1812, ma nei lunghi fiumi del Nord America i battelli a vapore erano già una cinquantina; nel 1819 si ebbe la prima traversata atlantica e nel 1838 fu costruito il primo transatlantico in ferro. Un cambiamento epocale, davvero.

L’Inghilterra era ben fornita del carbone necessario per le caldaie delle navi, e pure la Germania ne era produttrice. Per costruire le grandi navi da guerra era necessario l’acciaio, nel 1910 l’Inghilterra ne produceva 7,8 milioni di tonnellate, ma il secondo Reich la surclassava con 17,6 milioni. Fu in quei decenni prima del grande conflitto, a cavallo tra i due secoli, che si accese la contesa marittima tra l’Inghilterra e la Germania. Se quest’ultima voleva avere un ruolo mondiale e non solo regionale, doveva per lo meno controbilanciare la potenza inglese sui mari. La dottrina del Mahan non era che una presa d’atto di tale situazione.



Sotto l’ammiraglio Tirpitz e con l’adesione del Kaiser, fu varato un piano per costruire una flotta d’alto mare (Hochseeflotte). Le navi a vapore alimentate a carbone dovevano riservare una cospicua quota della loro dislocazione allo stoccaggio del minerale, e ciò non era privo di conseguenze sia per la struttura del naviglio e sia per i problemi di rifornimento nel caso di lunghi viaggi, come nel 1905 quando la Russia inviò la propria flotta dal Baltico a Port Arthur, nel Pacifico, circumnavigando l’Africa e poi per l’oceano Indiano.

Gli inglesi risposero ai tedeschi con una nave di concezione nuova: non più a carbone, ma a nafta! La classe Queen Elizabeth consentiva in tal modo di trasferire una consistente parte del dislocamento a favore di una maggiore corazzatura e dell’armamento. L’Inghilterra aveva quindi bisogno di petrolio, di avere un controllo diretto di approvvigionamento, e dunque di mettere le mani sui giacimenti del Medio Oriente, in particolare quelli scoperti nel 1908 in Persia.

Tra il 1914 e il 1915 l’allestimento della flotta inglese fu completato, ma solo nel 1917, allo Jutland, vi fu il grande scontro con quella tedesca. Quella fu l’ultima grande battaglia combattuta da sole navi, ossia senza le portaerei e l’aviazione. L’esito dello Jutland non fu decisivo per la guerra in corso, soprattutto non lo fu per rompere il blocco navale al quale gli imperi centrali erano sottoposti. Se la Germania voleva imporsi sui mari doveva seguire un’altra strada, quella della guerra sottomarina che in quel conflitto non fu combattuta sistematicamente e con impiego adeguato di mezzi.

L’Inghilterra era un’isola, se voleva sopravvivere doveva importare via mare quanto le era necessario. Una poderosa flotta subacquea che con un’offensiva sistematica fosse riuscita ad affondare gran parte del tonnellaggio mercantile, l’avrebbe messa fuori gioco. L’artefice di quest’idea, germogliata già nel corso del primo conflitto, fu l’ammiraglio Karl Dönitz. Negli anni Trenta solo parzialmente trovò ascolto presso un ambiente culturalmente tra i meno produttivi dal punto di vista intellettuale, vale a dire quello nazista.

Fu allestita una flotta subacquea tedesca, ma non secondo il disegno strategico dell’ammiraglio. A ciò deve aggiungersi la resistenza, anche da parte di Dönitz, di sviluppare sottomarini di nuova concezione che la tecnologia già disponibile avrebbe permesso di realizzare fin dalla fine degli anni Trenta e che invece furono prodotti solo verso la fine del conflitto in un centinaio di esemplari, solo due dei quali furono operativi. Per chi fosse interessato a qualche cenno sul nuovo U-boat, il Typo XXI Elektroboat, ho scritto alcuni post (qui). Ad ogni modo, fino a quando da parte degli Alleati non furono trovate misure efficaci, la flotta subacquea tedesca, dal 1939 al 1942, ebbe modo di affondare circa 17 milioni di tonnellate di naviglio, ossia un numero impressionante di navi di ogni tipo e stazza.

Nel Pacifico la contesa marittima ebbe per protagoniste le portaerei, un’arma strategica fondamentale soprattutto in un teatro così ampio. Un ruolo non secondario in quelle vicende belliche lo ebbe anche l’impiego dei radiogoniometri e l’essere riusciti a mettere in chiaro, da parte Usa, i cifrati nipponici (*). Tuttavia realmente decisiva fu l’enorme capacità produttiva dell’apparato industriale americano e la larga disponibilità di carburante (e ciò vale per tutti i fronti di guerra).

Alla sfida che si aprì nel secondo dopoguerra tra Usa e Urss, la marina sovietica rispose allo strapotere della Nato con l’allestimento e l’impiego di una poderosa flotta dotata di missili balistici montati su sottomarini con caratteristiche assai diverse da quelli in uso nei due conflitti mondiali. Nella strategia dissuasiva l’arma sottomarina giocò un ruolo importante, non meno di quella missilistica postata a terra.

E per il futuro? Le marine di superficie russa e cinese non possono tenere il confronto con quelle della Nato (il confronto va fatto in questi termini), tuttavia sulla tenuta strategica delle portaerei nel prossimo conflitto (pochi dubbi che non vi sarà) ho diverse riserve, essendo questo genere di unità, per quanto ben difese da sistemi d’arma a controllo elettronico, assai vulnerabili a fronte di un attacco massiccio combinato.

Durante il primo conflitto mondiale, il colonnello Giulio Douhet, il più innovativo teorico militare italiano, caldeggiava da un lato la creazione di un’aviazione per poter aspirare alla supremazia dell’aria, e, dall’altro consegnava al ministro Bissolati una caustica valutazione dell’operato di Cadorna, ancora vincolato all’assurdo concetto dell’assalto frontale che aveva spazzato via quasi due generazioni di giovani italiani (ho scritto in più occasioni sulla concezione barocca della guerra da parte di Cadorna – che non mi risulta fosse giocatore di scacchi – e sull’enorme vantaggio difensivo austro-ungarico). Queste critiche gli valsero la reclusione in fortezza. Ad ogni buon conto, il Douhet aveva teorizzato il bombardamento terroristico e la guerra totale.

Il secondo conflitto mondiale doveva dargli ragione: anche se l’arma aerea non si rivelò decisiva per le sorti della guerra, essa ricoprì un ruolo fondamentale. Senza il bombardamento terroristico delle città europee e nipponiche, senza la distruzione delle industrie e delle infrastrutture civili e militari, dunque della macchina bellica, il conflitto sarebbe continuato molto più a lungo e con ulteriori gravi perdite.

Le due recenti guerre irachene hanno stabilito ciò che è noto da sempre, ossia che è necessario l’intervento dell’esercito di terra per acquisire gli obiettivi, e tuttavia l’impiego delle forze aeree e delle armi missilistiche si è rivelato decisivo per distruggere le difese e disarticolare il sistema di comando e controllo iracheno, un esercito che aveva tenuto testa per anni a quello iraniano.

Il prossimo conflitto mondiale è già iniziato, a farla da padrona è ancora una volta la tecnologia, dove il cyber-spionaggio gioca un ruolo centrale, così come il controllo dell’opinione pubblica, quello satellitare, l’impiego di velivoli a controllo remoto, e tutte quelle cosucce che non conosciamo e che forse in certe occasioni magari volano sopra le nostre teste fomentando le più fantastiche allucinazioni.



(*) Gli uomini che si insediarono nei più importanti uffici amministrativi dell’OSS, da cui poi nascerà la CIA, erano, come Donovan e i suoi amici David Bruce e Allen Dulles, avvocati di grandi corporation, dirigenti del mondo degli affari e banchieri, conservatori e tutti d’un pezzo, spesso repubblicani provenienti dalle più ricche famiglie del paese.

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