La costituzione approvata e promulgata nel 1947, dopo il
fascismo, la guerra, Yalta e il prevalere delle forze conservatrici cattoliche,
ossia date le circostanze, non poteva essere più di ciò che è. Oggi ne
misuriamo tutta la sua inadeguatezza, la sua astrazione, la sua contraddittorietà, anche sul piano formale, laddove enuncia principi e subito dopo li revoca nei richiami alle “leggi” (comprese quelle che decenni dopo,
quando va bene, vengono dichiarate incostituzionali). E, del resto, è una
costituzione fatta su misura per conciliare, in qualche modo, il conflitto
sociale, anzitutto quello tra proprietari e schiavi, tra espropriatori ed
espropriati (*). Quando un uomo per vivere è soggetto al capriccio del caso, ossia
alla volontà di un altro uomo, che altro è se non il suo schiavo? Può un
diritto fondamentale come quello del lavoro, di cui tutti gli altri sono
conseguenza, avere un presupposto reale più contraddittorio di questo?
L’unica legge a tutela di taluni
diritti dei lavoratori, ossia il cosiddetto Statuto, è in via di
smantellamento. Sono milioni le persone senza lavoro, e milioni i lavoratori
che soggiacciono a contratti di caporalato. Chi crede sia possibile superare questa
crisi con “un mutamento totale del modello di produzione e di consumi”, senza
perciò rivoluzionare da cima a fondo questa società, è solo un illuso che illude
gli altri (**). E per gli altri diritti, pensiamo solo che per sancire che i poveri hanno il
“diritto di avere figli” (così espresso nei titoli dei media) come i ricchi, s’è dovuta
attendere una sentenza che porta la data del giugno 2014!
E poi la costituzione non parla di
un’altra classe sociale, ossia di quella classe che senza prendere parte alla
produzione, né dal lato del capitale industriale né da quello del lavoro,
s’appropria di una parte consistente della ricchezza. È quella classe che fa
del commercio del denaro la propria attività, cioè manipola il mezzo magico che
può mutarsi a piacere in ogni cosa desiderabile e desiderata. Quelle persone
che in cambio di prestazioni di pochissimo conto fanno in modo di rendersi
indispensabili e vivono e prosperano come parassiti e scrocconi sociali, non di
rado procurando più danni che vantaggi alla società stessa, come quando provocano
crisi commerciali e finanziarie. Come può una costituzione socialmente avanzata
ignorare queste forme di dominio dei non produttori sui produttori, queste
forme neoaristocratiche d’incarnazione della ricchezza e dunque di potere?
Lo Stato e la sua costituzione non
sono “l’immagine e la realtà della ragione”, ma essi sono anzitutto il prodotto
di una società a un determinato grado di sviluppo, la confessione che questa
società si è avvolta in una contraddizione insolubile con se stessa, si è
scissa in antagonismi inconciliabili che è impotente a eliminare. In altri
termini, dunque, la questione non è, come spesso, troppo spesso, si sente dire,
ossia la mancata applicazione della costituzione, poiché essa è, per sua
natura, impotente a fronte dei rapporti
sociali reali.
La costituzione non è più avanzata
o arretrata rispetto a tali rapporti, ne costituisce l’involucro adattativo, la
cui aderenza è data poi dagli atti giuridici interpretativi, in apparenza posti
sopra le parti. Lo Stato assolve la sua funzione nel tenere a freno, nel
mediare, gli antagonismi di classe, ma essendo nato per mezzo del conflitto di
queste classi (ecco cosa significa consapevolezza storica) è, per regola, lo
Stato della classe economicamente dominante che per mezzo suo diventa anche la
classe politicamente dominante.
C’è chi vorrebbe riscriverla la
costituzione, e si può, come sappiamo, tranne che nei principi fondamentali,
intangibili, i quali però sono talmente aleatori da non costituire un serio
problema agli intendimenti, d’impronta sicuramente reazionaria, dei suoi attuali
riformatori. E, del resto, per l’opposto, dobbiamo prendere atto che nemmeno
una sua mitica “applicazione” in senso “progressista” è nelle cose. E che vorrà
mai dire, in concreto, “applicare la costituzione”, per esempio in tema di
lavoro? E poi chi lo va a dire a Marchionne, tanto per citare, mandiamo Rodotà
a parlarci? Il lavoro è un diritto, gli dirà quest’ultimo. Alle condizioni
dell’impresa e del mercato, replicherà, non senza ragione dal suo punto di vista, il manager.
E dalla Merkel ci mandiamo l’onorevole Spinelli con Alexis Tsipras? Diamo tempo
a questi ultimi due, ne vedremo delle belle, possiamo scommetterci la posta più
alta.
(*) «Allorché un individuo è costretto a pagare e a lavorare per altri,
questo individuo è lo schiavo degli altri» (Maffeo Pantaleoni, La caduta della Società Generale di Credito
mobiliare Italiano, UTET, 1988).
«I mercanti non possono guadagnare senza mentire, e non c'è nulla di più
spregevole della menzogna [...] tutti
coloro che vendono la loro fatica e la loro industria, [...] chiunque offra il suo lavoro in cambio di
denaro vende se stesso e si mette a livello degli schiavi» (Dei doveri, I, XLII).
«Lo schiavo romano era legato al suo proprietario da catene; l’operaio
salariato lo è al suo da invisibili fili. L’apparenza della sua autonomia è
mantenuta dal continuo mutare dei padroni individuali e dalla fictio juris del
contratto» (Il Capitale. Critica dell’economia politica, I, cap. XXI).
(**) Rossana Rossanda, Quando si pensava in grande, p. 161.
metti per favore solo quest'ultimo mio commento con "ragionier", grazie. ciao.
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