La società capitalistica è la più avanzata finora
esistita, ha prodotto uno sviluppo delle forze produttive inedito, una
ricchezza per quantità e varietà senza precedenti, e tuttavia oltre il 90 per
cento della popolazione mondiale non possiede nulla, salvo, quando va bene, un
tetto sotto cui dormire e ovviamente le proprie braccia per lavorare.
Anziché utilizzare tale ricchezza e potenzialità per
fini sociali, questo sistema economico produce un movimento inverso di
limitazione e distruzione delle risorse materiali e umane. Altro problema
fondamentale è l’aumento generalizzato della disoccupazione, destinato ad
aggravarsi, e tuttavia anziché ridurre la giornata lavorativa, l’intensità
dello sfruttamento e rimodulare l’organizzazione del lavoro, si tende a precarizzare
ancor più il lavoro e aumentare lo sfruttamento poiché ciò consente l’aumento
dei profitti, ossia un’ulteriore afflusso nelle stesse tasche di altra ricchezza.
Tutto ciò non dipende esclusivamente, come vorrebbero farci intendere i
chierici del sistema, dall’egoismo umano, ma anzitutto dalle leggi immanenti su
cui poggia il capitalismo.
Di fronte a questa situazione e prospettiva, l’unica
via d’uscita è il controllo sociale della produzione, ossia produrre e
distribuire non secondo le ragioni particolari del profitto, ma secondo le
esigenze della società nel suo complesso. La socializzazione dei mezzi di
produzione e la programmazione intese come dominio cosciente e organizzato
delle forze produttive, come controllo razionale del ricambio organico con la
natura, in un sistema di ampia partecipazione democratica favorita anche dai nuovi mezzi di comunicazione.
Sappiamo bene che nel corso del XX secolo alcuni
tentativi in tal senso, in circostanze storiche peculiari, ossia in presenza di
sistemi sociali arretrati e nelle temperie di dilaceranti antagonismi
internazionali, sono falliti. Tale consapevolezza non può sottrarci
dall’impegno di cercare e sperimentare altre strade perseguendo lo stesso
obiettivo, anzitutto sul piano epistemologico, costruendo modelli teorici che
non si limitino a riproporre nell’ambito dell’analisi storica e sociale attuale
i vecchi schemi concettuali di transizione dal capitalismo al comunismo, pur
non rinunciando all’imprescindibile critica marxiana del modo di produzione
capitalistico e all’analisi delle sue leggi.
Una teoria sociale, per dirsi scientifica, deve confrontarsi
con le esperienze passate, trarne insegnamenti e ammonimenti, non basta
che essa sia “vera” perché produca risultati positivi e storicamente validi.
Ancora una volta bisognerà ripartire dal lavoro e dalle libertà, due categorie
di problemi che si devono necessariamente accompagnare nell’analisi e nelle
proposte. Da un lato sarà necessario ridurre il lavoro allo stretto
indispensabile, rimodulando priorità e obiettivi della produzione in termini
completamente nuovi, dall’altro garantendo e promuovendo la libertà per ognuno di spazi da riempire nei
modi che più gli aggradano, per lo sviluppo e la realizzazione delle proprie
capacità umane.
Va ad ogni modo tenuto presente che così come il
capitalismo non ha la formula per risolvere le proprie contraddizioni, e anzi
proprio perché poggia su tali contraddizioni e opposizioni d’interessi che ci
sta portando in un vicolo cieco, allo stesso modo non c’è alcuna necessità
storica che conduca di per sé al superamento positivo della formazione sociale
capitalistica, bensì, come ho già avuto modo di dire in passato, è data la
possibilità di raggiungere questo obiettivo, di accorciare “le doglie del
parto” anzitutto nella lotta per il bisogno e nello slancio generoso quale
opzione etico-morale, laddove quest’ultima non può prescindere da una
particolare concezione ontologico-antropologica.
In ogni caso, e lo dico agli scettici, scegliere di
non mutare alla radice l’attuale assetto economico-sociale, significa comunque
scegliere il conflitto e altre nuove tragedie.
"In ogni caso, e lo dico agli scettici, scegliere di non mutare alla radice l’attuale assetto economico-sociale, significa comunque scegliere il conflitto e altre nuove tragedie".
RispondiEliminaE quindi Olympe, il comunismo, non è una "necessità" storica, nel senso di far cessare il conflitto/i e nuove tragedie, che sono sempre dietro l'angolo con il capitalismo?
Saluti
nella lotta tra le classi, così come tra potenze, non c'è un vincitore prestabilito, ed è addirittura possibile, come già rilevava Marx nel Manifesto, che alla fine vi siano solo perdenti. dunque il fatto che il processo storico presenti ogni giorno di più la possibilità di superare positivamente il capitalismo, questa non è una necessità ineluttabile, ossia scontata. ritornerò sull'argomento, anche se l'ho già trattato in passato.
Eliminasaluti
Grazie, per avermi risposto, e perchè ritornerà sull'argomento.
EliminaLe auguro buona giornata.
XXX
Gentile Olympe, rileggendo questo post, mi sono soffermato su questo brano: "Anziché utilizzare tale ricchezza e potenzialità per fini sociali, questo sistema economico produce un movimento inverso di limitazione e distruzione delle risorse materiali e umane". In sostanza, lei sta parlando, credo, della distruzione di capitali. Concetto, che non ho ancora ben interiorizzato. C'è qualche post, in cui lei spiega cos'è la distruzione di capitale, e cosa è?
EliminaCordialità.
XXX
dovresti leggere la 3^ sezione del III libro del capitale,soprattutto il cap. 15°, ma forse è un po' ostica se non hai letto altro del genere. tuttavia, andando su un esempio meno teorico e più storico puoi leggere:
Eliminahttp://www.criticamente.com/marxismo/capitale/capitale_3/Marx_Karl_-_Il_Capitale_-_Libro_III_-_06.htm
puoi partire da questo capitolo:
3. ILLUSTRAZIONE DI CARATTERE GENERALE: LA CRISI DEL COTONE NEL PERIODO 1861 - 1865
tutto ciò che riguarda le crisi è distruzione di capitale
Eliminadovresti leggere qualcosa di specifico, però è necessaria una minima preparazione di base
ciao
Per i tiranni è sempre più semplice tenere a bada i sudditi. Grazie alle solerti forze dell’ordine, sempre pronte a sfasciarti il cranio se ti vedono senza fiorellini in mano, e grazie alla crisi che rende lo schiavo più avvezzo a leccare il padrone per assicurarsi almeno una razione di brodo al giorno. La ciurma, da che mondo è mondo, è sempre indisciplinata e tendente all’insubordinazione ma, appena arriva capitan uncino, si mette subito in riga per paura di finire in pasto ai pescecani. Una pacifica e civile soluzione non credo che esista. Sarà difficile che ti possa liberare del rapinatore che ti ha dato una martellata in testa, ti ha legato ed imbavagliato in cantina e ti minaccia pure con la pistola.
RispondiEliminaUn cambiamento dell’ordine sociale è forse possibile con una cultura nuova e sedimentata nell’anima. Dunque con una scuola diversa, una diversa pedagogia, una diversa formazione e dopo anni di riflessione, senso civico e cultura.
Non esiste il rimedio per tutto. Quando un bambino scappa per evitare la puntura di antibiotico sei costretto a fargliela con la forza (fascismo) per evitare che muoia. Ma poi, da adulto, non lo insegui più con la siringa in mano e, se proprio non vuole curarsi, son cavoli suoi (democrazia).
Ecco noi siamo un popolo mai cresciuto (in senso civico), un popolo rimasto bambino (segregato dal padrone) e che è in balia dei genitori, del prete, dell’insegnante e persino del bidello. Siamo come quei leoni in cattività che non hanno mai conosciuto la libertà. Ci vogliono idee nuove per liberarsi delle catene senza dover aspettare tempi biblici o cataclismi naturali o lo spostamento dell’asse terrestre o nuovi messia. Ci vogliono genialate. Per una grane parete ci vuole grande pennello. Altro non posso dire. Ciao.
La domanda terribile che dovremmo farci è se l'umanità nel suo complesso possa mai attingere quei due supremi gradi di autocoscienza e autocontrollo che sono la socializzazione (vera) dei mezzi di produzione e la programmazione globale.
RispondiEliminaUna società di saggi lo potrebbe fare. Ma la società umana non è una società di saggi. E' una realtà caotica nella quale saggezza e demenza, razionalità e violenza, spirito di collaborazione e competizione coesistono sull'orlo dell'abisso a stento trattenute dal piombarci dentro da reti di interessi e di convenienze individuali e collettive.
Il capitalismo fa leva con estrema efficacia sulla brama di possedere, uno stimolo ad altissimo tasso di entropia. Passare ad una società fondata sulla socializzazione, sull'empatia reciproca e verso la natura e sulla distribuzione razionale - basso tasso di entropia - presupporrebbe una tale inversione delle linee di forza antropologiche che è lecito chiedersi se ne saremo mai capaci.