Nel 452, Attila, a suo tempo divenuto capo
delle tribù unne, invase l’Italia settentrionale. L’epopea ha assunto nei
secoli i tratti prevalenti della leggenda, fomentata dapprima dalla
terrorizzata fantasia latina e poi dalla propaganda ecclesiastica. Ad Attila sono
state attribuite tutte le rovine di cui era sparso ed ingombro il suolo delle
antiche province romane, accusandolo di ogni nequizia ed eccesso, ponendo a suo
carico persino l'omicidio di sant’Orsola e lo sterminio delle undicimila
vergini (!!), sebbene già la data favolosa della loro partenza dalla Bretagna
fosse stata stabilita un secolo prima della nascita del condottiero (*).
lunedì 31 dicembre 2012
domenica 30 dicembre 2012
Promemoria
Quello di Scalfari Eugenio, stamane, è l’editoriale di un
vecchio amareggiato che si sente tradito dal suo amorazzo. Deluso da un
idillio finito anzitempo,
è costretto a ripiegare per consolazione e compensazione in qualcos’altro. Perciò
ripesca l’agenda Bersani che aveva riposto nell’ultimo cassetto della
scrivania senza nemmeno aprirla. Scopre così che non vede “grandi differenze” con quella di Monti,
anzi non ne scorge “quasi nessuna salvo
forse alcune diverse priorità e un diverso approccio alla ridistribuzione del
reddito”. Come se quest’ultimo punto fosse robetta stando le cose effettivamente
così. E invece si declinano ben diversamente, poiché “destinare il denaro
recuperato dall’evasione per diminuire il cuneo fiscale e le imposte sui
lavoratori e sulle imprese”, è una favola ripetuta alla nausea – perfino da
Berlusconi e Prodi – e non ha alcuna possibilità di riscontro con la realtà.
Lo
sa bene l’ottuagenario, tanto che può concludere tranquillo: “non esiste né
un'agenda Bersani né un agenda Monti”, ne esiste però un’altra, dettata
altrove.
Scrive poi sull’ingerenza del Vaticano
nella politica e nelle faccende italiane. Scalfari nega che ingerenze dei preti
ci siano mai state: “il Vaticano non ne
ha mai fatte, neppure ai tempi di Fanfani, di Moro, di Andreotti”. Non ce
n’era bisogno, su questo si può concordare, il partito al potere si chiamava non
a caso Democrazia cristiana. Quale influenza abbia avuto la Chiesa cattolica
nella formazione del suo gruppo dirigente, dei suoi quadri, del suo tessuto ideologico,
nell’organizzazione di donne e giovani nelle parrocchie, nel motivare
ideologicamente con le sue encicliche sociali e nell’adoperarsi attivamente per
mantenere certi equilibri di potere, mi pare che solo Scalfari finga
d’ignorarlo. Il Vaticano – sostiene Scalfari – “ha sempre e soltanto suggerito
su questioni concrete e specifiche”. Esatto, perfino per quanto concerne la
programmazione televisiva e cinematografica, tanto per dirne un’altra.
Come dimenticare che la Dc era (è) la
ricostruzione del Partito popolare, quello stesso che aveva partecipato al
governo Mussolini dopo la marcia su Roma? Come non ricordare che il Vaticano fu
determinante nella formazione del primo governo fascista? Mi soffermo sul punto
che merita una chiarificazione: l’approvazione della legge del luglio 1920, che doveva
entrare in vigore nel luglio del 1921, sulla nominatività dei titoli e altre misure fiscali era avversata –
oltre che dai soliti gruppi industriali e finanziari – soprattutto dal
Vaticano, che aveva in Italia la quasi totalità dei suoi investimenti e
possedeva a preferenza titoli al
portatore, così come era temutissima la norma
fiscale sulle trasmissioni ereditarie tra persone non legate da vincoli di
sangue. Nella crisi che succedette alla caduta di Giolitti e fino
all’avvento del fascismo, il Vaticano si oppose a un possibile nuovo
governo presieduto da Giolitti, innanzitutto con il veto imposto al Partito
popolare di aderirvi. Il costo di tale atteggiamento fu la paralisi
parlamentare e, infine, la crisi istituzionale.
Scrisse nel 1947 Benedetto Croce:
«L’azione della politica vaticana fu allora perniciosa per
l’Italia e aprì le porte al fascismo impedendo ogni ritorno del Giolitti al
potere. Su di che potrei aggiungere particolari, come d’un colloquio che l’on.
Pozio, sottosegretario alla presidenza con Giolitti e a lui devotissimo, ebbe
con il card. Gasparri, che rudemente respinse ogni approccio d’intesa: quel che
più aveva inferocito la Chiesa era la legge giolittiana della nominatività dei
titoli al portatore, nei quali molto denaro degli istituti ecclesiastici era
investito».
Sotto il titolo: « La soddisfazione del Vaticano per la
soluzione delle crisi » il Popolo d’Italia del 2 novembre
del 1922 pubblicò:
«Durante i giorni del travaglio nazionale, che condussero
all’avvento al potere dell’on. Mussolini, nessun allarme si ebbe nei circoli
più vicini al Pontefice, il quale, quando gli avvenimenti si sono avviati verso
il loro sbocco normale, non ha celato agli intimi il Suo compiacimento nel
vedere l’Italia dirigersi verso una rivalorizzazione delle sue migliori
energie».
E il 10 Novembre, lo stesso giorno in cui Il Popolo
d’Italia pubblicava la notizia che il consiglio dei ministri
avrebbe abrogato la legge sulla nominatività dei titoli, il
suo corrispondente da Roma comunicava:
«Per quanto le sfere responsabili del Vaticano mantengano il loro
tradizionale riserbo intorno alla politica del nuovo gabinetto italiano, negli
ambienti dei Palazzi Apostolici non si nasconde la simpatia e il senso di
fiducia determinato dai primi atti dell’on. Mussolini».
Come non può ricordare Eugenio
Scalfari, quando vestiva con i pantaloni a sbuffo alto e camicia nera, quindi prima
d’imboscarsi durante la Resistenza, che la guerra di aggressione all’Etiopia fu
benedetta da Pio XI e quella di Spagna addirittura esaltata e sostenuta come
una crociata contro i “rossi”, e poi Pio XII benedire l’aggressione all’Urss
come un rilancio della solita crociata contro il comunismo?
E un pochetto
d’ingerenza, dalle cattedre pietrine e dai pulpiti delle chiese, c’è pure nelle
elezioni del 1948 e successive. Appena una spolverata di sano anticomunismo. Che
fosse considerato non “lecito iscriversi al partito
comunista o sostenerlo”, il Vaticano l’ha stabilito con la nota scomunica
del 1949. Poi, nel 1959, lo ricordo soprattutto allo smemorato di Bettola
(Piacenza), papa Roncalli confermò che non era “lecito ai cittadini cattolici
dare il proprio voto durante le elezioni a quei partiti o candidati che, pur
non professando princìpi contrari alla dottrina cattolica o anzi assumendo il
nome cristiano, tuttavia nei fatti si associano ai comunisti e con il proprio
comportamento li aiutano”. Trascuro poi le questioni legate al divorzio,
all’aborto, al cosiddetto testamento biologico, alla fecondazione assistita e a
molte altre cose, tra le quali la faccenda dell’indottrinamento cattolico – a
spese dell’intera collettività – nelle scuole pubbliche di ogni ordine e grado.
Tutte cose assai note a Scalfari che però tiene in non cale, come sempre quando
gli conviene.
sabato 29 dicembre 2012
Perché Lenin ha ragione
«Chi arriva tardi, la
storia lo punisce».
È questa una frase attribuita a Gorbaciov ma mai realmente pronunciata. È
invece il sunto popolaresco di un suo discorso pronunciato a Berlino
nell’ottobre 1989 in occasione di un incontro con la dirigenza della DDR. Quale
sia stato il ruolo effettivo di Gorbaciov in quel travagliato passaggio
d’epoca, è difficile stabilirlo e forse non lo sapremo mai. È certo però che egli
non è amato né in Russia e nemmeno in altri paesi dell’Est, ma non è la popolarità il tipo di metro idoneo a misurare il peso di un personaggio del genere. Che la storia abbia voltato pagina, a volte
anche malgrado lo stesso Gorbaciov, è stato comunque un bene, salvo la riunificazione
della Germania che non può essere vista che come una minaccia.
Non appena le nuove generazioni tedesche avranno rimosso
completamente la storia tragica del Novecento, operazione in corso d’opera, non
si faranno scrupoli per affermare nuovamente i “diritti” storici del popolo
germanico, tanto più che le ragioni economiche che spingono la Germania ad agire per
la supremazia sono esattamente le medesime di altri periodi storici ben noti.
Scrivevo al riguardo il 28 aprile 2010: La Germania, l’Europa, gli Usa, il mondo capitalistico,
stanno rivivendo, al di là dei fenomeni
di circostanza, gli stessi problemi, la stessa crisi e la stessa impasse
degli anni Trenta, aggravati da un'enorme leva finanziaria.
Questo preambolo serve per un raffronto e poi per delle blande
considerazioni sull’Italia, laddove, nonostante il collasso di muri e cortine, non
è cambiato sostanzialmente nulla. Noi continuiamo a vivere la nostra
particolare DDR, posto che al comando ci sono sempre gli stessi cristi eterni,
e se qualche simbolo è stato gettato nel fosso non è certo quello con la croce.
E difatti, anche se si mostra di non credere più in dio, non si va più a messa,
ci si sposa assai di meno davanti al prete e certi costumi sono cambiati sotto
l’incalzare degli imperativi economici, tuttavia il cattolicesimo si esprime
come una componente essenziale del potere.
È vero che la Chiesa – cittadella dell’economia celeste – non
ha miglior nemico che se stessa, tradita dalla sua stessa materialità, e
purtuttavia gli occhi dei devoti nostrani sanno essere strabici, tanto che sono
sempre i cattolici a dettar legge sui diritti civili e su molto altro ancora. Più
che mai perché le pecorelle si sono mischiate coi lupacchiotti (con e senza
orecchino) e a rappresentare la laicità e il cambiamento non c’è rimasto
nessuno che abbia forza e volontà vera e non sia invischiato in particolari
interessi.
Se i vescovi continuano a fare propaganda elettorale come
sessant’anni fa, non ci dobbiamo stupire, tenuto conto che, per citare una
banalità, il programma televisivo più seguito ha per protagonista un prete (in
alternativa un carabiniere e simili). Lo strapotere dei preti cattolici è la
prova tangibile della nostra arretratezza, anzitutto della nostra sconfitta
politica e ideologica, e anche sotto il profilo delle libertà borghesi tale
potere è la verifica quotidiana che la società civile in Italia non è la stessa
del resto d’Europa, nemmeno della Spagna. Il Vaticano non ingerisce
semplicemente negli affari di Stato, ma partecipa direttamente al governo della
nazione con proprio personale a ciò addestrato e senza curarsi di dissimulare
alcunché. Stato e Chiesa si sono suddivisi i compiti: l’uno gestisce il
mercato della paura e l’altra quello dell’eterna ricompensa. Non per nulla la
paura della morte è l’altra faccia della paura di vivere.
Preso atto della situazione che non cambia e che non è
destinata a mutare, bisogna considerare che però non possiamo subordinare la
lotta ideologica contro il millenario nemico della libertà, della cultura e del
progresso alla lotta di classe. Senza lotta di classe la propaganda ideologica
contro la religione finisce sterile e inutile disputa tra guelfi e ghibellini,
scambio di battute, ghirigori. Non si tratta di una contraddizione verbale, ma di
una contraddizione reale e perciò dialettica. In questo ha ragione Lenin,
separare la propaganda teorica dell’ateismo che deve essere volta alla
distruzione delle credenze religiose dal successo della lotta di classe,
significa scindere violentemente ciò che è indissolubilmente legato nella
realtà della vita.
venerdì 28 dicembre 2012
Il leninista della Trilaterale
Più che salire, sta arrampicandosi
come i babbi natale osceni che ancora si vedono alle finestre di certi alloggiamenti
in questo periodo di feste. Monti Mario, natura coltivata in aristocratica penombra
dove l’amor proprio non perde mai colpi, è convinto – a ragione – che in
democrazia la partecipazione alla competizione elettorale possa assumere anche
solo un senso simbolico. Egli crede leninianamente che la democrazia borghese
sia solo un guscio che contiene gli interessi del capitale.
Non lo diceva forse Montaigne che
mentire è un vizio maledetto? «Sono solo le nostre parole – scriveva – a
tenerci uniti e a renderci umani». Si sbagliava, ma era nel giusto
nell’osservare che «una volta consentito alla lingua di acquisire l’abitudine a
mentire, è sorprendente vedere come sia impossibile farla smettere». C’è chi
mente abitualmente, chi racconta bugie proprio su di te e quelli che mentono
soprattutto a se stessi. Monti Mario – non meno dei suoi ministri – ha
dimostrato in questi lunghi mesi di governo di mentire abitualmente, di
raccontare bugie su di noi e di saper trovare le ragioni giuste per mentire a
se stesso.
Monti Mario ha un ceffo diverso da
chi l’ha preceduto, è l’altra faccia della crapula e racconta flemmatico
un’altra pastorale ma la sua vanità non è solo cerebrale. Immodestamente
sostiene di aver “salvato l’Italia”. Tutti gli indicatori economici e sociali
ci dicono il contrario, anche il saldo della bilancia dei pagamenti se letto
senza trucchi, ma egli insiste mistico nel dire che gli effetti benefici delle
sue misure si avranno nel tempo, mentre quelli a favore di banche, fondi, gruppi d’investimento infrastrutturale, concessionarie statali, gestioni di risparmio e Vaticano si scontano pronto cassa.
Ha la consapevolezza sprezzante che
sarà con lui – dopo la liturgia elettorale alla quale non parteciperà
direttamente per quella sua ben nota idiosincrasia – che l’ex chierichetto
contestatore dovrà trattare e spartire le seggiole (perciò Napolitano disse: malgré moi). La sua agenda programmatica
non è altro che il solito inventario di annunci e di promesse che sa bene di
non poter mantenere, salvo quelle che riguardano, da un lato, la continuazione
del salasso per i soliti noti e, dall’altro, la garanzia offerta alla grande
borghesia avida di rendimenti (*).
(*) Volete sapere, per es., che fine
ha fatto Stefano Tanzi? Nel 2007, dopo il crac di Parmalat era andato a fare
l’impiegato presso una ditta di ceramiche, si occupava di colloqui per le
assunzioni. Ora sta qui e poi in
chissà dove altro.
L'avvenire delle parole
Sperimentiamo la politica volta a volta come abuso
capriccioso e come protesta contro di esso. Questa frustrazione mostra da sé
che ci manca il gusto della libertà. E non solo da questo lato. Non vogliamo
cambiare; ciò che invochiamo è la virtù, quella degli altri. Frega poco delle subdole forme della nostra schiavitù poiché non sappiamo più riconoscere
i nostri interessi ben integrati. Ci bastano le blandizie della pubblicità.
Facciamoci caso, il messaggio che essa ci trasmette continuamente ci invita in buona
sostanza d’imitare le insolenze dei ricchi.
Del resto non è stata prestata sufficiente attenzione al
fatto che la “politica”, in qualsiasi momento della storia la si osservi e
tanto più nella nostra epoca, non esprime direttamente la globalità della
società se non come meravigliosa illusione interessata e necessaria. Essa in
realtà è appannaggio di coloro che possiedono la ricchezza e il potere che
ne deriva. La sociologia borghese che s’interessa di questi temi dovrebbe porre
una domanda molto semplice: esistono delle classi sociali escluse dal circuito
della decisione politica? Chiaro che l’universo intero appartiene alle classi
dominanti nonostante la finzione giuridica ci renda eguali e liberi.
Riflettiamo poi su un altro fatto, ossia su quanto sia
frequente e facile che degli interlocutori politici pensino e dicano cose del
tutto diverse adoperando gli stessi concetti e le medesime parole, così come
poco importa che le parole, ornamento senza verità, siano nulle perché nessuno
crede al loro avvenire. E ciò che è ancor più rimarchevole, fateci
caso, è che non si discute più sul fine
ma sui mezzi. Al politico – sia esso
un Bersani che cita Giovanni XXIII o un Berlusconi che giura che abolirà la
morte – viene chiesto di simulare quel tanto che basti ad ispirare nello
spettatore dell’empatia e una risposta compiacente. Non è forse lo stesso
schema della pubblicità?
Si va perciò a votare con lo stesso spirito decorativo con
il quale si sceglie un’auto o un frigorifero. È attorno alla stessa promessa di
piacere, di desiderio soddisfatto, che si sceglie il leader che con la sua fraseologia
ci ha infine sedotti, che con i suoi falsi ostacoli (vedi le primarie) ha
aguzzato il nostro desiderio. E nulla ci deve sorprendere di più se rivaleggiamo in ipocrisia quando poi ne difenderemo le scelte. È in tal caso raggiunto
il tumulto della soddisfazione gregaria.
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