Dalla rubrica Cantieri sociali uscita il 18 marzo su il manifesto.
Nella pubblicità le parole sono ovviamente decisive. Prendiamo l’ultimo spot dell’Eni. E’ un messaggio istituzionale, di quelli che servono a definire un profilo, un «brand». All’incirca recita: «Internazionalità è una parola interessante. Parla di popoli che si incontrano. Eni lavora in settanta paesi per fornirvi energia». «Interessante» è diverso da «importante», ad esempio: suggerisce che bisogna essere curiosi, che non è la solita zuppa, e magari allude perfino all’interesse, anzi agli interessi. Dopo di che, si crea una forte asimmetria tra i «popoli che si incontrano», il che vorrebbe dire alla pari, e però «noi dell’Eni» forniamo a voi, italiani, l’energia che vi occorre. E agli altri «popoli» noi cosa diamo?
Delle imprese dell’Eni nei settanta paesi in questione si sono occupati pochissimi giornali, in Italia. Se chiedete a un pubblicitario «come vanno le cose, resistete anche alla crisi?», lui vi risponderà «dipende dai clienti». Chi ha come cliente l’Eni è in una botte di ferro: chi estrae petrolio o gas e ci traffica incassa profitti fantastici, nonostante e anzi grazie alla crisi. E questa è una delle ragioni per cui i grandi media non raccontano la verità sull’Eni e sulle sue imprese multinazionali, come in Nigeria. I miliardi di euro che Eni maneggia e una parte dei quali finisce in pubblicità provengono esattamente dalla asimmetria di cui sopra. La multinazionale incontra i popoli e toglie loro qualcosa di rilevante che poi finisce nelle nostre prese di corrente o nei serbatoi delle nostre automobili, per altro a caro prezzo. Tutti lo sanno, ma sembra normale così: volete restare al buio o a piedi? C’è però un effetto collaterale, come dicevano i Bush padre e figlio, che forse renderebbe la faccenda meno astratta. Si tratta delle conseguenze sulle persone. Se la Nigeria viene depredata del petrolio e del gas del Delta da Eni e sorelle, la zona viene avvelenata, i profitti volano via e le briciole restano nelle tasche di boss locali, quel che si ottiene è un paese povero, inquinato e spinto sull’orlo di varie guerre civili, come quella tra musulmani e cristiani che ammazza centinaia di persone la settimana.
Se voi viveste in un paese simile, probabilmente vorreste emigrare. Come ha fatto Joy, giovane nigeriana approdata qui da «clandestina» e per questo finita in un Centro di identificazione ed espulsione [Cie], nel caso quello di via Corelli a Milano. Lì, Joy ha per così dire incontrato il popolo italiano nella persona di un ispettore capo di polizia, di guardia ai non-detenuti e non-cittadini lì impropriamente reclusi. L’incontro consiste in un tentato stupro: questo denuncia spericolatamente Joy ai colleghi dell’ispettore capo. Accade nel luglio 2009, e Joy riesce a sottrarsi alla violenza grazie all’aiuto della sua compagna di cella. Il mese successivo scoppia una rivolta, nel Cie, contro la decisione maroniana di allungare la reclusione: vi partecipano tutti i migranti. Alla fine, nove uomini e cinque donne vengono arrestati. Tra di loro, guarda caso, sono anche Joy e la sua compagna di cella, testimone della tentata violenza. Restano sei mesi in carcere, Joy non si scoraggia e formalizza la denuncia per tentato stupro. Dopo il carcere lei e l’amica vengono trasferite in diversi Cie, finché, il 15 marzo, Joy viene trasferita da Modena a Ponte Galeria, a Roma, insieme a molte altre donne nigeriane. Il 18 marzo dovrebbero tutte essere imbarcate su un charter, destinazione Nigeria. Che fine abbia fatto la denuncia contro il poliziotto non è noto, al momento, anche se è presumibile che in assenza dell’interessata tutto finirà in uno scatolone di sabbia. In compenso, Joy sa che nel suo paese potrà di nuovo incontrare il popolo italiano, in questo caso rappresentato dall’Eni, e forse troverà alla fine la sua esperienza di internazionalità molto interessante.
Ecco, questa è la storia di Joy, di cui non possiamo vedere la faccia né ascoltare la voce, e non abbiamo nemmeno una fotografia, dato che i Cie sono luoghi chiusi e adesso a quello di Ponte Galeria i consiglieri regionali possono accedere solo con un permesso della prefettura [anche se sarebbe una loro prerogativa, visitare quando vogliono carceri e luoghi di reclusione]: non so se servirà a uscire dalla nebbia della propaganda e da quella dell’assuefazione, per cui di storie così se ne sentono tante e non ci facciamo più caso.
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