venerdì 19 marzo 2010

Grandi firme



Qual è il criterio per imbastire un editoriale? Innanzitutto, come vedremo, le semplificazioni del mondo alla rovescia. Poi molti nomi di personaggi: quelli morti, chiamati a confermare il proprio mito; quelli vivi, per i quali la leggenda è in corso d’opera. Tra questi ultimi, la scelta di un interlocutore, preferibilmente con pedigree statunitense, magari un guru dell’informatica, oppure un ideologo della Georgetown University, le cui dichiarazioni saranno guarnite con stuzzicanti citazioni à la julienne, arabeschi e modesti souvenir personali. Il tutto per lettori che nella loro maggioranza statistica non sono autentici borghesi, ma nemmeno troppo popolari, e ai quali i nomi di Wittgenstein, Russell, Calvino, Arbasino, Dan Brown, Joanne K. Rowling, Coelho, Thomas Hardy, Karl Deutsch, eccetera, producono lo stesso stimolo dei campanelli pavloviani.
Il titolo dell’articolo deve dare subito la misura che i temi trattati non riguardano i perditempo, i posapiano, gli indecisi. Si punta alle soluzioni, dopo aver attentamente vagliati i problemi. Per esempio: la condizione di miseria vissuta dalla Verità ai tempi di internet, oppure la Pace nel mondo. Altroché. L’attacco è sempre suggestivo e accattivante. Nel caso in esame, un articolo di domenica scorsa su Il sole 24ore, l’interlocutore “scruta il Canal Grande, le glorie e il passato della Repubblica di Venezia, grandi guerre e grandi commerci” da “una finestra dell'Isola di San Giorgio”. È chiaro che si tratta solo di una finestra metaforica che guarda al “passato”, poiché se non si sale sul campanile, dall’isola si può “scrutare” solo ciò che è prospiciente al “presente”, cioè il Canale (bacino) di San Marco, il canale delle Grazie, l’imbocco e un tratto di quello della Giudecca, la Punta della Dogana.
Il raffinato specialista americano afferma: «Abbiamo creduto a lungo che per far pace occorra la democrazia. È utile certo, ma non indispensabile. Il dittatore Suharto era quel che voi italiani chiamate "un figlio di..." eppure contribuì a fermare le guerre nel Sud-est asiatico. Il Congresso di Vienna del 1815, con Austria, Russia e Prussia, non era animato da ideali democratici. Eppure concluse la stagione delle guerre di Napoleone».
Il riferimento al Congresso di Vienna è vacuo come tutto il resto dell’articolo. La pace chiude le stagioni di guerra con la vittoria degli uni sugli altri, poiché pace e conflitto armato altro non sono, prescindendo da ogni altra considerazione sulla natura politica dei sistemi statuali, che due facce della stessa medaglia, così come recita la trita massima del tal dei tali.
Sarebbe interessante sapere come gli americani chiamano in genere i “figli di Maria”, ma non è questo il punto. Al grande giornalista, un tempo corrispondente di un “quotidiano comunista”, non viene in mente alcuna suspicione a proposito di Suharto, e lascia correre. Del resto, entrambi, specialista e giornalista, fanno parte delle sedicenti “élites che viaggiano e dialogano”, preoccupate della “rilassatezza delle barriere economiche e politiche”. Mentre l’intero scenario dovrà presto essere abbandonato a una necessità che ci ha portati così lontano, queste élites fraseggiano su quel programma che contiene nessun’altra promessa tranne quella di un capitalismo sfrenato e sul quale invocano ipocritamente delle regole, avendo anzitutto presenti gli interessi dalle esigenze illimitate e pertinenti il loro domestico savoir vivre. Che altro?
Al di là del cortile quieto, il governatore centrale israeliano Fischer, il commissario europeo Almunia, la signora Lagarde – dritta come la campionessa di nuoto sincronizzato che era – e Posen, della Bank of England, provano con Tremonti a evitare la marcia indietro temuta nel saggio di Kupchan: non è detto che ci riescano.
Ah, ah, ma qui siamo alle buffonate. E chi sarebbero questi carneadi, Lagarde e Tremonti? Ma anche lo stesso Obama e per soprammercato anche Almunia, come pensano di convincere gli israeliani a far marcia indietro sulle risorse idriche e i territori occupati? La stessa guerra dei sei giorni si è presentata sin dai suoi esordi, al di là di quelli che sono i suoi indubbi risvolti strategico-militari, come una guerra per l’acqua; così come ha risposto agli stessi obiettivi l’occupazione israeliana del Libano del 1980. Entrambe queste guerre hanno permesso anzitutto ad Israele di estendere il suo controllo su importanti risorse idriche della regione.
Durante i negoziati di pace iniziati a Madrid nel 1991, per risolvere tale problema della ripartizione delle risorse idriche dei territori della Cisgiordania e della striscia di Gaza, gli israeliani e i palestinesi si avvalsero dei principi generali che regolano l’utilizzazione dei corsi d’acqua internazionali, in particolare delle norme dell’equa utilizzazione e del divieto di causare danni, ecc. ecc..
Una parte preponderante delle risorse idriche della Cisgiordania e di  Israele si trova nelle due falde sotterranee isolate dai corsi d’acqua di superficie che delineano il confine tra Israele e la Cisgiordania: la falda denominata dello Yarkon-Tanninim (o Turonian-Cenomanian) detta anche della falda montana e quella di Eocene, le quali in media forniscono l’82% del rifornimento totale della Cisgiordania. Queste due falde sono sfruttate attraverso l’estrazione da pozzi naturali o artificiali. È pacifico il carattere di internazionalità di tali falde e quindi la loro sottoposizione alle norme di diritto internazionale e infatti il problema di tali falde è stato oggetto anche della Dichiarazione di Principi  firmata a Washington nel 1993 tra israeliani e palestinesi. La Dichiarazione stabiliva di focalizzare la futura cooperazione nella gestione delle risorse idriche della Cisgiordania e Gaza su “proposal for studies and plans on water rights each part , as well as equitable utilization of joint water resources”. Perché Riotta non informa i propri lettori su com’è andata a finire tale faccenda, su come hanno agito i diversi protagonisti in merito ad essa?
E, invece, solo chiacchiere e distintivo.

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