Dal giornale di Confindustria di oggi: il manager più pagato tra le società italiane quotate in Borsa nel 2022 è Mike Manley (successore di Marchionne), con 51.184.773 euro al lordo delle tasse ricevuti da Stellantis, di fatto un indennizzo per la mancata conferma alla guida del gruppo nella fusione tra Fca e Psa. Il secondo è Fulvio Montipò, a.d. di Interpump, con 49.120.360. Terzo Marco Tronchetti Provera con 19.966.260 dalla Pirelli e dal cda di Rcs. Dei 20 manager più pagati, a metà classifica si piazza Marco Gobbetti, a.d. di Ferragamo con 13.915.350. Ultimo della classifica, Claudio Berretti, plebeo con soli 8.484.005.
Siamo passati dall’aristocrazia del sangue a quella del denaro. Queste classifiche reddituali portano a disuguaglianze sociali intollerabili che in molti casi sono difficili da spiegare con il merito: infatti rinviano alla dominazione di classe.
Le condizioni di nascita continuano a determinare il destino degli individui, e allora che cosa c’è di meglio che inventarsi una “teoria” come quella della meritocrazia? La meritocrazia è un’idea potente, un concetto che trova risonanza in un’ampia gamma di attori sociali.
I manager aziendali e i loro galoppini sono particolarmente appassionati a questa visione, a questa dottrina che è una fede quasi religiosa. Il merito è la buona coscienza dei vincitori del sistema, il principio di legittimazione per le categorie sociali dominanti che possono proclamare di meritate la loro sorte: se siamo lì è perché siamo, nella sostanza, diversi dagli altri, da quelli che non sono niente. Noi siamo dalle eccellenze.
Dunque, il filo conduttore della “meritocrazia” si basa sul mito del merito personale per giustificare il successo di ogni persona: quelli che stanno più in alto nella scala sociale pensano di aver raggiunto tale posizione per il loro merito, mentre quelli che non ce l’hanno fatta sono indotti a credere che avrebbero, per esempio, dovuto studiare di più e meglio a scuola.
I più bravi a scuola hanno successo e di conseguenza chi ha successo è chi ha studiato e lavorato bene. Il funzionamento della scuola e della società in generale mira a mantenere questo mito, l’illusione della perfetta equità. Un messaggio che incolpa i meno “fortunati” per la loro situazione, sollevando la società dalla sua responsabilità collettiva. Ecco che, ipso facto, i bambini provenienti da contesti svantaggiati che faticano già nella scuola primaria risultano meno meritevoli.
Un po’ come quello che Max Weber proponeva con il concetto di profezia che si autoavvera. Sentiamo fin dalla più giovane età dire dalle persone intorno a noi che i percorsi migliori per i meritevoli sono possibili, che i meritevoli possono diventare ciò che vogliono: “quando vogliamo possiamo”. Questo mantra l’abbiamo sentito innumerevoli volte e si presenta come un credo attraente e motivante, lusinga il nostro ego, fa vibrare dentro di noi la corda dell’ambizione e dell’autostima.
Certo, le eccezioni, i successi individuali assolutamente meritocratici (tipo Fulvio Montipò) danno sostanza e “realtà” al mito che chiunque sia meritevole può salire dal basso in alto, portano felicità al sistema. E se guardiamo al successo nei concorsi, anche questo dà una dimensione dinamica al mito. In generale a nessuno piace dire che deve la sua traiettoria a fattori che poco hanno a che fare col merito individuale.
Lungi dal ridurre le disuguaglianze, l’ideologia meritocratica tende a rafforzarle. Focalizzandosi sull’individuo, minimizza il peso dei determinismi socio-culturali e territoriali, sposta l’attenzione dai fattori economici e di classe che influenzano in modo decisivo l’accesso alle opportunità. È un modo per mascherare le ingiustizie, per giustificare la discriminazione, per rafforzare privilegi ereditati e immeritati che nella generalità dei casi accelerano la corsa verso il successo.
Meglio far credere che regni la meritocrazia, un mito rassicurante e in realtà inquietante. Diversamente, significa mettere in discussione il ruolo dell’individuo e quello della società, i nostri valori, il nostro rapporto con gli altri, la nostra visione di successo. Tutte idee che modellano le nostre vite, che non abbiamo interesse e voglia di sfidare o anche solo di discutere a fondo, giammai di ripensare il mondo strutturato e organizzato in modo radicalmente diverso.
Se i più meritevoli erano i più bravi a scuola ci si dovrebbe chiedere in base a quale criterio erano giudicati bravi. Quali erano i codici culturali adoperati dai "giudici". Se gli esami che hanno superato servivano a valutare le capacità individuali o piuttosto il grado di soggezione alla cultura dominante.
RispondiEliminasoprattutto bisogna chiedersi: se questi erano i più bravi (o i meno peggio?), com'è che siamo ridotti così?
EliminaSe per merito si intende non essere come questi bravi allora sarebbe davvero meritorio
Eliminahttps://www.ponteallegrazie.it/libro/lodio-dei-poveri-roberto-ciccarelli-9788868338817.html
RispondiEliminaIn questo contesto si ha la prova tangibile di quanto un inganno , la meritocrazia, se ben apparecchiato alla fine risulta accettabile.
RispondiEliminaMa è ovvio che l' ambiente di origine già scrive il destino, santo cielo !!
Le eccezioni sono appunto eccezioni.
Il merito sta nel nascere bene
Conta si il denaro, altro che chiacchiere
( V. Rossi )
Il tutto preparato da decenni di propaganda hollywoodiana sul sogno americano.
RispondiEliminaPietro