Il processo di accumulazione capitalistico apre contraddizioni che solo l’intervento dello Stato nell’economia riesce temporaneamente a tamponare (chi avrebbe mai pensato un exploit di questa parola), evitando che diventino socialmente esplosive. Tuttavia questo intervento diretto dello Stato nella sfera economico-finanziaria, e in passato direttamente in quella produttiva, non può risolvere queste contraddizioni poiché esse, soggiacendo appunto alle leggi dell’accumulazione capitalistica, si ripresentano inevitabilmente più forti ed estese.
È stata la livida faziosità di analisti che tagliano il mondo in due a dipingere l’intervento dello Stato nell’economia a fosche tinte, esaltando il settore privato come parte sana e produttiva della società. Questa demonizzazione è servita di copertura ai grandi gruppi economici quando si è trattato di smantellare il settore industriale statale, pappandosi la ciccia e lasciando le ossa, tipo Alitalia, in carico allo Stato, quale monito dello spreco e dell’assistenzialismo nemici della onesta, laboriosa e produttiva imprenditoria privata.
Questi protervi analisti a senso unico, occultano e sviliscono il ruolo effettivo che ha avuto storicamente lo Stato nello sviluppo capitalistico e nel far fronte, ogni volta che serve, alle crisi del sistema. Si tratta di un ruolo centrale e imprescindibile. A tale riguardo è sufficiente dare una scorsa al giornale della Confindustria nell’edizione di ieri per avere conferma a chi spetta la porzione più appetitosa della “giungla di bonus” (così titola il quotidiano giallo). Del resto la borghesia ha fatto la rivoluzione (in Italia non c’è stato bisogno) per avere le tasse in mano sua.
Non sta a me prendere le parti del neo-liberismo o del cosiddetto neo-keynesismo, poiché entrambi sono espressione del punto di vista teorico e dell’interesse pratico di due fazioni borghesi che se la giocano sostanzialmente entro la stessa cornice ideologica. Ciò che invece ritengo interessante, specie in questa fase in cui il settore pubblico interviene massicciamente a sostegno della produzione e della finanza, in nome della transizione green e della stabilità dei mercati, è rifare brevemente la storia della concezione keynesiana, che direttamente o di sbieco è la linfa del riformismo programmatico borghese, vale a dire di quelle politiche che consentono al sistema di contrastare le situazioni socialmente più esplosive finché è possibile mantenere le apparenze democratiche.
Keynes riteneva che il capitalismo, lasciato alla sua spontaneità e a causa delle imperfezioni presenti nella propria struttura (le contraddizioni immanenti, per dirla col Vecchio), non tenda all’equilibrio, ma allo squilibrio dei vari fattori, e dunque non sia in grado di garantire una buona combinazione di tre condizioni essenziali per il suo funzionamento: la propensione al consumo; l’efficienza marginale del capitale; la preferenza per la liquidità. Da questa incongruenza discendeva l’incapacità di ovviare alla crisi e alla disoccupazione di massa, che del collasso economico è una delle conseguenze (*).
Se le cose stanno così, vi è rimedio secondo Keynes: lo Stato deve regolare la combinazione delle tre variabili facendosi promotore, in sostanza, d’interventi che incoraggino l’aumento dei consumi e degli investimenti.
L’analisi che l’economista inglese fece delle cause della crisi capitalistica erano assai poco oggettive basandosi su presupposti di natura fondamentalmente psicologica (la mitica propensione al consumo!). Non avrebbe mai potuto ammettere il lord inglese che il motivo delle crisi è tutto interno al processo di valorizzazione, anche se esse si palesano in forme finanziarie. Tuttavia, se le sue ricette erano destinate nel tempo a registrare un duro fallimento, esse in quel frangente fornivano al potere politico e alla borghesia, tremebonda di fronte alla Grande depressione, le basi teoriche per l’ingerenza dello Stato nell’economia (ex post, come dirò tra poco).
In osservanza a questa diagnosi e alla terapia descritta, infatti, l’intervento dello Stato si produsse in primo luogo nella sfera della circolazione (mercato, sistema creditizio) con l’obiettivo di fornire un duplice sostegno: alla domanda dei beni di consumo mediante adeguate politiche fiscali, una redistribuzione adeguata dei redditi, trasferimenti di ricchezza, commesse, eccetera; agli investimenti, per mezzo di politiche doganali, creditizie, sovvenzioni e agevolazioni fiscali a favore delle grandi imprese, eccetera.
Grossomodo è, mutatis mutandis, la stessa strategia d’intervento che si sta promuovendo oggi in Europa e un po’ dappertutto, Cina compresa, con l’utile pretesto, capitato a fagiolo, della pandemia virale, e la necessità di far vedere che ci si preoccupa concretamente del “disagio” sociale e del cambiamento climatico. Si tende così a stabilizzare il sistema attraverso iniziative statali anticicliche e di aiuto all’accumulazione capitalistica, con l’ampliamento della spesa pubblica, le rimodulazioni fiscali e, fino all’altro giorno, promovendo una moderata inflazione (uno strumento di non facile maneggevolezza poiché connesso a troppe variabili).
La Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta fu pubblicata nel 1935. Rappresenterà, per parecchi decenni, una specie di catechismo negli atenei occidentali e una nuova religione per i saltafossi del riformismo che con essa beatificano l’intramontabilità del capitalismo. Tuttavia va chiarito che le politiche di sostegno statale della domanda non sono solo vecchie, ma antiche. Del resto il New Deal, che va letto come risposta alla politica economica degli anni Venti, fu varato prima della pubblicazione della Teoria generale, opera di cui non si tenne conto in Germania, occupati com’erano col Mein Kampf. Si potrebbe anzi dire che Hjalmar Schacht fu antesignano del keynesismo più dello stesso lord inglese.
Infatti, il New Deal rooseveltiano e la politica economica del nazionalsocialismo, esemplificano bene gli esiti di tale strategia nei due paesi capitalistici allora più sviluppati. La crisi fu temporaneamente arginata, le contraddizioni di classe deviate su altri obiettivi o represse nel sangue: distruzione del movimento operaio tedesco nel 1933/34; consolidamento della dittatura fascista in Italia, instaurazione di quella franchista in Spagna, con l’eccezione del Fronte popolare in Francia, il cui governo adottò comunque riforme economiche e sociali d’impronta riformistica.
Questo tipo d’intervento dello Stato nell’economia, necessario durante la Grande depressione e il conflitto bellico che ne seguì, sortì degli indubbi successi anche nella fase della ricostruzione nel dopoguerra. Tuttavia dopo il ventennio ruggente (1945-1965) gli inconvenienti si presentarono a riscuotere il loro tributo. Il sogno di uno sviluppo del capitalismo graduale e senza crisi, nonostante le promesse del profeta Keynes, rimase solo un sogno. I problemi di valorizzazione e la divorante spesa pubblica annunciarono crisi ancora più profonde, la necessità di procedere a una ristrutturazione industriale e degli assetti finanziari molto profonda per garantire il processo di accumulazione, che a cavallo degli anni 1960 e 1970 aveva subito una forte inversione di tendenza.
La ricetta si rivelò vincente, risolse l’impasse in cui il sistema era precipitato disinnescando le rivendicazioni operaie e trasferendo a prezzi di saldo la migliore quota di proprietà pubblica in mani private (specie nei settori di monopolio e del credito). A dirigere l’orchestra fu la borghesia monopolistica privata che, subordinando lo Stato ai suoi interessi, domina incontrastata, per quanto non vi sia dubbio che lo sviluppo industriale dell’Italia smentisce la linearità di questo modello, che tuttavia infine si è imposto ovunque con l’ultima fase della mondializzazione.
Il keynesismo fu messo da parte e anatemizzato, tanto che non si poté rievocarlo se non per stigmatizzarlo. A pagarne le conseguenze furono le classi subalterne, non ultimo quel ceto medio operaio, commerciale e artigianale, fiore all’occhiello del riformismo e fonte di consenso elettorale, che, appagato dei traguardi raggiunti, è oggi quasi del tutto proletarizzato. L’operazione “carciofo” è pienamente riuscita.
Anche quando si riassume il punto di vista di Keynes per criticarlo, sostenendo che lo stimolo artificiale della domanda produce guasti al sistema provocando infine un enorme debito, si rimane esterni e lontani dalle cause reali della crisi capitalistica, con il rischio concreto di prendere lucciole per lanterne. Ancora una volta la contraddizione perde il carattere capitalistico per assumerne uno “umano”, vale a dire che il discorso cade nelle politiche economiche “sbagliate”, sulle riforme fiscali in senso progressivo e roba di questo tipo.
Le nuove politiche economiche “green” (ormai green è un passaporto per qualsiasi cosa), daranno un po’ di fiato al sistema di accumulazione, tamponeranno le situazioni sociali più esplosive, ma il sistema, soprattutto dal lato dei corsi finanziari e dell’esposizione debitoria pubblica e privata, è destinato a cortocircuitare con un grande botto. Non è questione di sé, ma di quando.
(*) Keynes negò quanto avevano sostenuto Say e Ricardo, e cioè che l’offerta crea la domanda. È necessario un “modello” più aderente alla realtà, scrisse, che prenda atto dello squilibrio domanda-offerta. Ed è a questo punto che nasce la famosa “legge psicologica”, corroborata, come si conviene nei casi in cui la parola non basta, da una serie di: D1 + D2 = φ (N), dove φ è la funzione di offerta complessiva ... e via di questo passo.
P.S.: ho scritto qualcosa sulla figura di Keynes in diversi post, per esempio anche qui e qui.
Sotto il post linkato per ultimo c'è un nostro litigio, nel quale tu mi indirizzi l'oltraggio estremo: documentarmi su Wikipedia. La ferita deve ancora cicatrizzarsi.
RispondiEliminaNon avevo fatto caso, poi provvederò a cancellare
EliminaProva con cicatren ;)
fatto, mi pare di aver eliminato tutto. mi trovasti in versione serpe velenosa
EliminaBeh, io però sono contrario alla cancel culture
Elimina:)
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